Con sentenza n. 8714 del 3 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha stabilito che le minusvalenze derivanti da cessione pro soluto di crediti, per un prezzo inferiore al valore nominale, sono deducibili, a condizione che rispettino i requisiti previsti dall’art. 101, comma 5, TUIR, relativo alle perdite su crediti.
Conseguentemente, occorre che il contribuente giustifichi, sulla base di elementi certi e precisi, le ragioni che lo abbiano indotto a compiere tale scelta, potenzialmente connotata da “antieconomicità”.
Questo, in particolare, il principio di diritto espresso: “Ai sensi dell’art. 101, comma 5, t.u.i.r. applicabile ratione temporis, la cessione pro soluto di un credito ritenuto inesigibile produce una perdita deducibile dal reddito imponibile soltanto ove il contribuente alleghi e documenti elementi certi e precisi, che non si esauriscano nella pattuizione di un corrispettivo inferiore al valore nominale del credito ceduto e nella perdita emergente dalla cessione in sé considerata, ma comprendano anche gli elementi che hanno indotto all’operazione ed al conseguente recupero solo parziale del valore nominale del credito. Peraltro, un ingiustificato rilevante differenziale tra il corrispettivo della cessione ed il valore nominale del credito ceduto, che denoti la plateale antieconomicità dell’operazione, può costituire un indicatore del carattere erogatorio, anziché produttivo della stessa, e perciò della non inerenza del componente negativo”.
Nella fattispecie esaminata, la società contribuente, durante l’anno d’imposta 2008, aveva dedotto una minusvalenza costituita dalla differenza tra il valore contabile di alcuni crediti e il prezzo di cessione pro soluto di detti crediti a favore di un’altra società.
Con avviso di accertamento, l’Ufficio recuperava la minusvalenza, considerandola “elusiva” ai sensi dell’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973 vigente ratione temporis, per ragioni legate alle tempistiche dell’operazione e ai rapporti tra cedente, cessionaria e debitrici cedute, che avrebbe configurato, a parere dell’A.f., un gruppo economico tra società.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso della contribuente, ritenendo non applicabile, come invocato, il regime ordinario di deducibilità delle minusvalenze previsto dall’art. 101, comma 1, TUIR, secondo cui le minusvalenze “sono deducibili se sono realizzate ai sensi dell’articolo 86, commi 1, lettere a) e b), e 2”.
Viceversa, aderendo ad un filone di legittimità in via di consolidamento, la Corte ha stabilito che alla fattispecie va applicato l’art. 101, comma 5, TUIR: pertanto, è onere del contribuente – ai fini della deduzione – allegare e dimostrare gli “elementi certi e precisi” che generano la perdita, in modo tale che “tale cessione corrisponda ad una effettiva riduzione di valore reale del credito stesso, che non può essere giustificata se non con una riduzione della garanzia patrimoniale generale offerta dalla società debitrice in misura tale da rendere impossibile la realizzazione completa del credito in questione”.
Va precisato che, per ragioni di diritto intertemporale, al caso in esame non è stata applicata la vigente versione del comma 5 dell’art. 101, a mente del quale “Gli elementi certi e precisi sussistono inoltre in caso di cancellazione dei crediti dal bilancio operata in applicazione dei principi contabili”.
Inoltre, posto che la minusvalenza dedotta era connotata da un “ingiustificato rilevante differenziale” tra prezzo di cessione e valore del credito, tale da rendere l’operazione “platealmente antieconomica”, secondo la Corte si profila, oltre all’elusività dell’operazione, anche la sua non inerenza, benché, da quanto risulta, questa non era stata espressamente contestata dall’Ufficio.
Ciò in quanto “l’incongruenza di un onere sulla base del parametro medio dell’imprenditore può costituire un forte indicatore della non inerenza della componente negativa e del suo carattere erogatorio, anziché produttivo”.