1. Premessa
Gli ultimi mesi dell’anno sono dominati, nel dibattito economico-politico-sociale, dal vincolo di presentare, dibattere ed approvare il documento di economia e finanza (DEF), da trasformare nella Legge di Bilancio (LB). Un percorso che avvicina uno Stato alle condizioni tipiche di un’azienda ad azionariato diffuso il quale deve essere preventivamente ed adeguatamente informato in merito agli obiettivi futuri ed alle relative conseguenze economiche. I tempi del processo sono circa un trimestre, lasso coerente con le esigenze di un’azienda complessa e impegnata a gestire flussi annui ormai non lontani da 900 miliardi di euro. Sotto un altro profilo la Legge di Bilancio traduce in numeri (nobile arte suggerita secoli fa da Galileo Galilei) gli intenti operativi del Governo che ha conquistato la propria posizione attraverso un programma che ha raccolto consenso attraverso le elezioni. La simmetria con la disciplina societaria è evidente e il sistema che regola quest’ultima è chiamato corporate governance. Altrettanto parallelo è il concetto che molti elettori/azionisti (con esclusione si spera di quelli istituzionali) non hanno le competenze per valutare i documenti oggetto del consenso, generando un potenziale rischio reputazionale in caso di mancato conseguimento degli obiettivi.
2. Le determinanti del DEF
Ogni governo è pienamente libero di predisporre DEF e LB secondo le proprie inclinazioni. Come nella prassi aziendale, è plausibile che i risultati finali non corrispondano ai budget. Tutto ciò è accaduto costantemente negli ultimi anni.
Assume rilievo la ricerca delle fonti di finanziamento; l’impresa dispone di mezzi propri e di autofinanziamento quali leva per trovare consenso per la copertura del fabbisogno finanziario esterno. Nel caso dello Stato, le fonti interne sono di fatto nulle e la copertura avviene attraverso “tasse e tassi”. Una semplificazione terminologica che ricorda che le entrate derivano dai tributi e dalle emissioni di titoli remunerati con tassi d’interesse idonei a raccogliere consenso nelle sottoscrizioni (il premio al rischio). Le “tasse” sono valutate da tempo eccessivamente elevate rispetto al reddito, statisticamente eluse, erose od evase ed oggetto diffuso di promesse di riduzione.
Per quanto concerne i tassi, le emissioni del debito pubblico coprono il rinnovo delle scadenze e il nuovo debito per un ammontare tra 250 e 400mld€ annui nel prossimo quadriennio. Solo il 5% del debito pubblico è sottoscritto direttamente da privati (era il 57% trenta anni fa): circa un terzo è in mano a soggetti esteri (intermediari o investitori), un quinto in mano a fondi e assicurazioni ed il resto è suddiviso fra le banche italiane e Banca Centrale. È quindi errato ritenere che il risparmiatore italiano sia fulcro sia della sottoscrizione e del timore per l’accentuazione della volatilità delle quotazioni.
Tale perno è rappresentato dal sistema bancario, in forma diretta e indiretta:
- detiene volumi di TdS su tutte le scadenze; gli strumenti indispensabili per gestire operazioni monetarie e di tesoreria con la Banca Centrale;
- (in misura decrescente) partecipano e controllano sgr e sim nel cui portafoglio vi sono consistenti volumi di TdS italiani; l’utente finale è il risparmiatore, ma non partecipa al processo gestorio; si comporta quale cliente, in base ai risultati, al rischio percepito e alla volatilità rilevata;
- le banche centrali detengono quote rilevanti di TdS in ossequio al QE e per policy statutaria e strategica; ne muovono il portafoglio nelle operazioni di mercato aperto e rifinanziamento principale e marginale;
- le banche temono la volatilità dei titoli che detengono, risultando gravoso, per il patrimonio di vigilanza, l’effetto della variazione di valore che ha già inficiato tre trimestri e potrebbe colpire il risultato del bilancio 2018.
Il complesso dei movimenti coinvolge decine di miliardi di euro al giorno, una rotazione multipla dello stock del debito, fattore positivo in termini di liquidabilità e negoziabilità, fattore negativo quando l’oggetto dello scambio presenta condizioni di “rischio”. Questi titoli sono quotati e negoziati presso EuroMOT ed EuroMTS, i due mercati al dettaglio e all’ingrosso più efficienti del mondo nel segmento obbligazionario.
Tensioni e preoccupazioni in merito al debito pubblico espongono le banche a diversi rischi, sotto il profilo contabile in ragione della combinata applicazione delle regole di Basilea, della direttiva CRD IV-CRR, del nuovo principio IFRS 9 (in realtà anche di altri IFRS) e della necessità di procedere alla copertura dei rischi inerenti agli NPL e agli NPE.
Le banche detengono il 27% del totale dei titoli italiani emessi, cioè 500mld€; ogni movimento dei tassi, e dello spread, incide sul valore di bilancio, soprattutto per i titoli di più lunga scadenza. Una variazione media dei prezzi del 5% comporta una diminuzione per 25mld€, solo parzialmente compensata da eventuali acquisti di nuove emissioni con cedola accresciuta, al momento, dell’1,5-2%.
La rischiosità del portafoglio è quindi aumentata, pur considerando vantaggi dalla vendita di titoli con plusvalenze prima dell’aumento dello spread, sostituiti con titoli più brevi con rendimento accresciuto. Resta l’ipotesi “speculativa” di acquistare titoli oggetto dei ribassi, confidando nella loro futura crescita e puntando su rendimeni immediati, non offerti dal mercato.
Il portafoglio titoli è pertanto generatore di maggiore liquidità, ma anche di minusvalenze, maggiori riserve ed assorbimento del margine di intermediazione realizzato nell’attività corrente.
Sarò determinante nel 2019 la crescita della domanda di credito richiamata da investimenti virtuosi, il grande dubbio che circonda lo sviluppo della manovra di bilancio in discussione. Il costo del debito sarà maggiore sia per lo scenario internazionale di tassi crescenti sia per l’effetto dello spread sia per condizioni congiunturali del ciclo. Le imprese italiane, anche quando intendessero indebitarsi per inseguire ipotesi di sviluppo, soffrirebbero di un costo delle fonti rispetto ai competitori internazionali.
Dobbiamo considerare l’ipotesi condivisa, di un rallentamento della congiuntura mondiale. Tralascio, considerandola ipotesi non percorribile in concreto e non auspicandola, l’ipotesi di abbandono dell’area €, che comporterebbe uno scenario difficilmente prevedibile nelle aree crediti, titoli e cambi. Il costo della libertà dai vincoli comunitari risulterebbe insostenibile, per la perdita dei fondi comunitari e l’obbligo di compensare – uscendo – i saldi negativi di TARGET 2, altrimenti solo figurativi. Gli oneri della rottura del patto.
Ragioni di equilibrio nell’analisi impongono di valutare lo scenario favorevole e cioè un impulso positivo della manovra di bilancio per il 2019. Si individuano interventi che potrebbero manifestare effetti propulsivi: il ricambio occupazionale ipotizzato dal pensionamento di circa 500.000 soggetti e dalla nuova occupazione generata, in caso di successo, dal reddito di cittadinanza, proposto nell’ottica di maggiori e più diffusi consumi. Tale ipotesi non copre però l’anno 2019 nella sua interezza, quanto solo sviluppo progressivo, con effetti che lo stesso DEF individua realizzabili nel 2021. L’effetto complessivo sarebbe differente (costo ridotto per il bilancio pubblico e minore impulso al sistema) da quello sperato per l’equilibrio dei conti pubblici e gli effetti micro-economici. La manovra appare compatibile con una condizione complessiva “macro” diversa da quella attuale. Gli investimenti ipotizzati avrebbero dovuto avere già luogo e la distribuzione di maggiore reddito dovrebbe essere già presente. Il reddito di cittadinanza rischia di risultare una spesa costante e prolungata, non un investimento come auspicato.
Per quanto riguarda l’impatto sulle banche, dobbiamo ipotizzare che i flussi distribuiti siano indirizzati più verso i consumi che verso il risparmio e premiassero aziende produttrici e distributrici di beni e servizi con basso valore aggiunto, mentre la diminuzione dei redditi, per i soggetti colpiti dalle misure su pensioni e redditi di maggiore importo, impatterebbe sui consumi apportatori di maggiore valore aggiunto. Possiamo immaginare una diminuzione dello stock medio dei depositi (movimentati in misura maggiore a causa dei consumi del reddito di cittadinanza, un maggior costo della raccolta per i maggiori depositi ed un utilizzo dei crediti più remunerativo per volumi, ma più rischioso e generatore di assorbimento del capitale (da quest’anno calcolato in prospettiva futura e non rispetto ai dati del passato).
La manovra avrebbe dovuto essere impostata 25 anni fa, con un rapporto debito/PIL inferiore di circa 30 punti, 1000mld€ di debito in meno e la prospettiva di un ciclo di sviluppo favorevole (gli anni ’90). In quegli anni veniva consentito in Italia un rapporto Deficit/PIL mediamente quadruplo del contestato 2,4%, una delle ragioni però determinanti del deterioramento registratosi successivamente.
Altri profili che possono impattare sull’operatività bancaria quali il downgrading del rating, dal peggioramento del clima relazionale nella UE, dal deflusso di capitali sia da parte di risparmiatori italiani che di investitori esteri, dall’opposizione (tecnica e non solo politica) nella valutazione di fattibilità della manovra. La preoccupazione più rilevante non concerne il giudizio politico quanto l’ipotesi suggerita da OCSE e FMI, prima della conoscenza dei contenuti del DEF, in merito al quadro macroeconomico previsionale, inferiore rispetto a quanto in precedenza previsto e auspicato.
Gli utenti finali del DEF, i cittadini, hanno un motivo miope condivisibile nel sostenerne il progetto. La correzione ottica lascia intravedere uno scenario incerto e rischioso qualora non avesse successo.
Questa è una valutazione tecnica, quella politica non mi compete, ma il costo socio-economico dell’insuccesso impone severe valutazioni delle probabilità.