Almeno per il momento, la tua colpevolezza si dà per dimostrata. Kafka, Il Processo
[*] 1. Introduzione
La nuova decisione della Corte Suprema sui derivati (la ormai famosa 8770 del 2020) è un esempio sorprendente di come una sentenza possa generare più dubbi di quanti non ne risolva. Rappresenta anche l’incarnazione di uno dei peggiori incubi per qualsiasi sistema finanziario: introdurre regole imprecise e indefinite, non fornire indicazioni sulle modalità di applicazione da seguire e per giunta farlo in modo retroattivo. L’aver fatto tutto questo in un momento di crisi senza precedenti per i mercati e per il sistema finanziario italiano è un altro risultato davvero degno di nota.
Commenterò nel prosieguo le motivazioni della sentenza, che trovo profondamente sbagliate e mal concepite. Vorrei solo soffermarmi brevemente sullo stile della decisione in relazione al fatto che tutti gli operatori del diritto dovrebbero in teoria considerare le decisioni della Corte Suprema (in particolare se emesse dalle “Sezioni Unite”) come una linea guida essenziale per il futuro, proprio per la supposta funzione nomofilattica di tali decisioni.
Due punti fondamentali per avviare il discorso:
- la decisione stabilisce che alcune tipologie di derivati avrebbero dovuto essere approvate dal Consiglio Comunale e non dalla Giunta. Si tratta di un’affermazione piuttosto significativa e al tempo stesso sorprendente in quanto la conseguenza, secondo la Corte Suprema, sarebbe la nullità dell’accordo. Peccato però che la Cassazione non indichi chiaramente quali derivati avrebbero dovuto essere approvati in questo modo. Derivati con upfront dice la Corte, ma “non solo”[1]. Qualunque operatore vorrà a questo punto sapere quali altri. Purtroppo però una lista non è fornita dalla sentenza: solo una vaga affermazione riguardo ai derivati con “estinzione del debito sottostante” (personalmente non ne ho mai sentito parlare) o che lo ristrutturino in maniera significativa.
- La decisione afferma che le banche avrebbero dovuto fornire alcune informazioni all’Ente locale prima di stipulare il contratto. In caso contrario, il contratto è nullo. Niente di particolarmente nuovo in questo caso, in quanto alcune decisioni lo avevano già dichiarato (erroneamente a mio avviso): non la Corte di Cassazione, che aveva sempre sostenuto il contrario. Quindi quali informazioni avrebbero dovuto essere fornite al cliente e, soprattutto, quali dovranno essere fornite in futuro? Anche in questo caso, la sentenza è incredibilmente vaga. Menziona il mark to market iniziale (ma il numero o la formula?), aggiunge un riferimento ai “costi impliciti”, ma non spiega cosa siano (visto che autorevoli precedenti del Consiglio di Stato, come vedremo nel successivo paragrafo III, certificavano la loro inesistenza) e infine, sorprendentemente, perché quasi nessuno li aveva menzionati prima[2], gli “scenari probabilistici”. Va bene, ma quali “scenari probabilistici” dovrebbero essere utilizzati, quali linee guida, quali criteri? Nessuna indicazione da parte della Corte di Cassazione; e vedremo che questo è un gravissimo errore perché parlare di scenari probabilistici senza dire, o sapere, di cosa si sta parlando genera grandissima confusione. Ma la conseguenza per non aver incluso nel contratto degli scenari di cui i giudici non vogliono indicare il contenuto, secondo la Corte, è la nullità dell’accordo. E questo dovrebbe valere anche per i contratti già conclusi, perfino per quelli estinti.
Italo Calvino nelle sue lezioni americane indicava alcuni elementi essenziali dello stile letterario e fra gli altri riservava un ruolo particolare all’esattezza. Si riferiva ovviamente allo stile della letteratura e non certo a quello delle sentenze. Osservava però che un utilizzo rigoroso dello stile avrebbe forse potuto curare una delle epidemie che egli trovava più disdicevole, quella della imprecisione:
“Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. Non m’interessa qui chiedermi se le origini di quest’epidemia siano da ricercare nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio”.
Non è certamente troppo sperare, e magari perfino aspettarsi, che i giudici, soprattutto quelli della Suprema Corte, rileggano il saggio di Calvino e si soffermino sulla necessità non solo funzionale, ma etica, della Esattezza, qualità che nella legge e nelle sentenze dovrebbe essere ricercata come valore primario.
Ma anche se si dedicassero alla rilettura del testo di Calvino, purtroppo, non potrebbero beneficiare dell’ultima lezione, quella sulla coerenza, che l’autore non scrisse. E forse proprio la mancanza di una guida su questa qualità fondamentale spiega il paradosso dei risultati che spesso si raggiungono, in aperto contrasto con i propri precedenti, come vedremo nel prosieguo di questa analisi.
***
Tralasciando la cronistoria della controversia ormai dettagliatamente analizzata da vari articoli e commentari, preme rilevare che con un’ordinanza interlocutoria emessa il 10 gennaio 2019 la Cassazione ha affermato che la controversia avrebbe riguardato materie rispetto a cui erano state emesse in passato pronunce contrastanti ritenendo, pertanto, necessario rinviarla all’esame delle Sezioni Unite. In particolare, l’ordinanza interlocutoria ha sostenuto che le Sezioni Unite avrebbero dovuto pronunciarsi sulle seguenti questioni:
(i) se i contratti di swap, specialmente se:
- contenenti la previsione del pagamento di un upfront;
- conclusi prima delle modifiche apportate alla definizione di “indebitamento” dalla Legge 350/2003, fossero o meno da qualificarsi come forme di indebitamento ai fini dell’Articolo 119 della Costituzione italiana;
(ii) se tali contratti dovessero o meno essere approvati dai Consigli Comunali degli enti interessati, in virtù dell’art. 42 comma 2 TUEL.
2. La parte introduttiva della Sentenza: il derivato come scommessa
E’ utile preliminarmente notare come la sentenza parta dal presupposto concettuale, che si riteneva ormai ampiamente superato, secondo cui i derivati sono scommesse legali. Recita infatti la sentenza:
“il legislatore autorizza questo genere di “scommesse razionali” sul presupposto dell’utilità sociale delle scommesse razionali, intese come specie evoluta delle antiche scommesse di pura abilità”.
Salvo poi contraddirsi immediatamente dopo e sostenere che “appare perciò utile considerare gli swap come negozi a causa variabile, perché suscettibili di rispondere ora ad una finalità assicurativa ora di copertura di rischi sottostanti”.
Da un lato quindi si riducono gli swaps a mere scommesse razionali negando conseguentemente la loro effettiva funzione economico sociale. Dall’altro si riconosce invece proprio quella funzione. Ma è evidente qui il vizio del ragionamento giacché la causa “assicurativa” (peraltro parlare di causa assicurativa per i derivati fa rabbrividire gli esperti, posto che nello swap l’esistenza al momento della stipula del contratto del rischio da cui ci si protegge non è indispensabile) o di copertura è ovviamente inconciliabile con quella della scommessa. E tuttavia si tratta di una contraddizione che la sentenza sceglie tranquillamente di ignorare riconducendo con serenità i derivati di copertura al primo genus (la scommessa) ed imponendo così l’uso retroattivo, come vedremo, degli scenari probabilistici, i quali scenari probabilistici, si badi bene, hanno in comune con la fenomenologia della scommessa una mera allitterazione e una pura suggestione psicologica (probabilità/scommessa). Nella realtà gli scenari probabilistici a cui sembra riferirsi la decisione (risk neutral) non hanno niente a che fare con le probabilità che un evento si verifichi effettivamente (vedi infra).
E’ interessante notare come le tesi di una assimilazione dei derivati alla scommessa sia stata da tempo negata dai giudici inglesi, certamente i più esperti nel settore, non fosse altro per il numero di casi di cui si sono dovuti occupare e per il fatto che l’architettura contrattuale più importante, l’ISDA Master Agreement, è per lo più retta dalla legge inglese.
In WW Property v Natwest, la Court of Appeal ha espresso chiaramente il concetto:
“It is to be hoped that the reporting of this judgment dismissing those arguments [that swaps are bets] as giving rise to no real prospect of success will finally lay to rest this ingenious but misguided heresy, so that no further time or money will be wasted on it”. Il Giudice di primo grado aveva rilevato sullo stesso tema “There is no realistic prospect of establishing: (a) that the Swap contract was a wagering contract, given that it was made for the commercial purpose of hedging the risk of increases in Base Rate (the avoidance of an increase in the floating element of Nextia’s borrowing costs being the major consideration for the making of the Swap contract) over the five year period for which it was contemplated that Nextia would be a borrower: Morgan Grenfell v Welwyn [1995] 1 AER 1.”.
Anche in Italia, il tentativo di ricondurre gli swaps alla scommessa sembrava ormai da tempo abbandonato dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente. Ma del resto il derivato ha veramente poco a che spartire con il concetto di scommessa e stupisce che ancora oggi si debba spendere del tempo a dimostrare l’irrealtà di una circostanza palesemente fantasiosa. Vogliamo veramente sostenere che il prodotto finanziario di maggiore diffusione nel mondo, con un valore nominale che rappresenta svariati multipli del GDP mondiale sia una scommessa che le banche allegramente ripetono ogni giorno in centinaia di migliaia di operazioni?
Sappiamo tutti che lato banca il derivato è uno strumento finanziario che nei rapporti con i clienti si realizza in una esposizione immediatamente coperta dalla banca medesima normalmente con una operazione simmetrica, sicché di alea residua ne rimane ben poca (e per fortuna del sistema finanziario non può che essere così). Lato cliente si tratta normalmente di una operazione diretta in qualche modo a proteggere una esposizione sottostante o a trarre vantaggio dalla medesima a seconda delle circostanze, e in entrambi i casi il derivato ha tanti elementi affini alla scommessa quanto il contratto di assicurazione su furto ed incendio, praticamente nessuno.
L’estraneità dei contratti di borsa alla fattispecie della scommessa sembra trovare conforto nella pronuncia delle Sezioni Unite n. 26725 del 2007:
“la mera presenza in un contratto di un intento speculativo o di un certo grado di alea non vale a renderlo assimilabile ad un giuoco o ad una scommessa, cui sia applicabile il regime giuridico dettato dal citato art. 1933 c.c.; inoltre che, quando pure di vero e proprio gioco o scommessa si tratti, l’anzidetta norma è invocabile solo a condizione che vi sia stata partecipazione consapevole al gioco o alla scommessa di tutte le parti del rapporto (cfr., in argomento, Cass. 2 settembre 2004, n. 17689). Ciò premesso, occorre subito osservare che l’acquisto e la vendita a termine di valuta e le altre operazioni finanziarie di cui nel presente caso si discute, pur comportando sicuramente un certo grado di alea e pur potendo essere anche ispirati da intenti speculativi da parte di chi quelle operazioni abbia disposto, non sono di per sé necessariamente riducibili ad una scommessa sul futuro andamento dei tassi di cambio, potendo altrettanto ragionevolmente fungere da strumenti di stabilizzazione del rischio”[3].
Stessa conclusione cui perviene la dottrina prevalente secondo cui l’art. 23, co. 5 TUF ribadisce la natura tipica del derivato, ad ogni effetto qualificato come strumento finanziario, e dunque, per definizione, “refrattario a qualunque classificazione, men che meno a quella di scommessa”[4].
3. I principi di diritto affermati nella Sentenza: i requisiti che i contratti derivati devono avere per poter essere considerati validi ed efficaci ai sensi del Codice Civile
Esaurita la sezione introduttiva, le Sezioni Unite si sono più specificatamente soffermate sulle questioni di diritto rilevanti per il procedimento e hanno, conseguentemente, formulato tre principi di diritto.
A tale riguardo, dopo aver analizzato, ai fini del primo principio di diritto[5] da esse affermato, i limiti entro cui gli enti locali dovevano considerarsi legittimati a concludere contratti derivati, analisi del tutto compilativa che si limita a statuire l’ovvio, e cioè che gli enti locali non potevano stipulare contratti puramente speculativi, successivamente, ai fini del secondo principio di diritto come anticipato, le Sezioni Unite si sono più specificatamente soffermate sui requisiti di diritto privato applicabili ai contratti derivati. E, dunque, sui requisiti che devono essere osservati affinché essi possano essere considerati validi ed efficaci, soprattutto in considerazione delle disposizioni del Codice Civile riguardanti gli elementi essenziali del contratto. E’ qui che la sentenza introduce principi sorprendenti, quasi rivoluzionari, senza peraltro nemmeno sviluppare in maniera completa il ragionamento che avrebbe dovuto sostenere tali conclusioni.
Le Sezioni Unite hanno fatto affidamento sui ben noti principi stabiliti da un filone della giurisprudenza di merito e riguardante la presunta connessione tra il mark to market iniziale di un contratto derivato (e la sua comunicazione da parte della banca) e la causa e/o l’oggetto del medesimo contratto derivato.
Tale giurisprudenza muove dall’assunto che il mark to market iniziale di un contratto derivato – ed in particolare la sua conoscenza da parte dell’investitore – avrebbe rilievo dirimente affinché il contratto derivato stesso possa considerarsi provvisto di causa o, in ogni caso, avere un oggetto determinato o determinabile.
Per quanto riguarda la “causa”, la giurisprudenza di merito che segue tale filone interpretativo sostiene che un contratto derivato debba considerarsi come una sorta di “scommessa” che, tuttavia, per poter essere meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, deve avere carattere “razionale”, e cioè deve essere stipulata in termini tali da far sì che entrambe le parti siano in grado di comprendere le tipologie di rischi sottostanti al contratto e così di apprezzare pienamente la misura del rischio che stanno assumendo.
In questo senso, il valore di mercato (mark to market) iniziale giocherebbe un ruolo fondamentale e, perciò, dovrebbe essere obbligatoriamente comunicato alla controparte non-finanziaria prima di concludere qualsiasi contratto derivato. In mancanza di una simile comunicazione, la scommessa non potrebbe infatti considerarsi razionale e il contratto interessato dovrebbe essere dichiarato nullo per mancanza di causa.
Secondo una teoria alternativa (ma che conduce, sostanzialmente, a risultati analoghi) il mark-to-market anderebbe invece ricollegato all’oggetto del contratto derivato. In particolare, in assenza di una effettiva comunicazione di tale valore, la controparte non-finanziaria non sarebbe in grado di determinare l’esatta estensione delle obbligazioni contrattuali da essa assunte, per cui il contratto sarebbe da considerarsi nullo per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto.
A nostro parere, il mark-to-market non ha niente a che vedere né con la causa, né con l’oggetto di un contratto derivato. Si tratta infatti del mero valore di mercato dello strumento finanziario, valore di mercato peraltro variabile nel tempo e dipendente dalle modalità di calcolo seguite, potendo di conseguenza essere diverso, nello stesso momento, a seconda dei metodi di calcolo utilizzati. Sostenere che il MtM sia un elemento essenziale del contratto derivato è di fatto assai simile a dire che nei contratti di compravendita immobiliari con società di real estate queste ultime abbiano l’obbligo a pena di nullità di indicare il valore di mercato dell’immobile compravenduto, o che le compagnie assicurative debbano indicare, sempre a pena di nullità del contratto, il valore di mercato della polizza rispetto al premio pagato. Assurdità che nessuno ha mai veramente sostenuto. Peraltro, anche se gli intermediari finanziari fossero di fatto tenuti a comunicare tale valore ai propri clienti[6], ogni eventuale omissione di tale comunicazione potrebbe al più essere qualificata come una violazione di un dovere informativo, passibile di dare adito ad un’azione per risarcimento danni e non certo alla nullità del contratto.
Per quanto ci consta, questa è anche la posizione che la Corte di Cassazione (anche tramite le sue Sezioni Unite) ha seguito prima della Sentenza. Le Sezioni Unite, infatti, hanno ripetutamente affermato (almeno dal 2007, tramite le ben note sentenze “gemelle”[7]) che l’inosservanza di doveri informativi non può mai determinare l’invalidità di un contratto, a meno che l’invalidità stessa non sia prevista espressamente dalla legge[8]. La Corte di Cassazione ha peraltro pronunciato anche alcune sentenze riguardanti i contratti derivati (che saranno meglio approfondite di seguito) e, per quanto ci risulta, non ha mai qualificato il mark-to-market come un elemento essenziale del contratto.
Del resto, contrarie alla decisione della Cassazione, vi sono alcune importantissime sentenze di organi di uguale autorevolezza. In particolare, si segnala il ben noto precedente del Consiglio di Stato sui derivati stipulati dalla Provincia di Pisa[9].
Ai fini di tale sentenza, il Consiglio di Stato ha categoricamente escluso che la mancata comunicazione, da parte della Banca interessata, del valore mark to market dei contratti derivati e dell’importo dei cosiddetti costi occulti potesse costituire una violazione di obblighi informativi effettivamente imposti dalla normativa applicabile.
E – infatti – secondo il Consiglio di Stato, quando i contratti di swap sottoposti al suo esame erano stati stipulati non sussisteva alcun obbligo giuridico in tal senso per gli intermediari finanziari. Il Consiglio di Stato, quindi, non ha rinvenuto “alcuna prova, neppure indiziaria, di un preteso comportamento scorretto, non diligente e poco trasparente, finalizzato a non servire al meglio l’interesse del cliente (ex art. 21 del D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, invocato dalla difesa dell’amministrazione), né può assumersi che le banche appellanti abbiano agito senza acquisire le informazioni necessarie dai clienti e senza operare in modo che essi fossero sempre adeguatamente informati, ciò essendo smentito dalle stesse peculiarità…degli swap stipulati, evidentemente calibrati sulle specifiche esigenze dell’amministrazione provinciale”.
Inoltre, con più specifico riguardo ai costi occulti, sempre il Consiglio di Stato ha affermato che “va notato che i cosiddetti “costi occulti” dello swap …. non rappresentano affatto un costo effettivo, vale a dire una somma effettivamente sostenuta dall’amministrazione provinciale, rappresentando soltanto il valore che lo swap avrebbe potuto avere in una astratta ed ipotetica (ma assolutamente irrealistica e non vera) contrattazione (contrattazione del resto che non sarebbe neppure giuridicamente possibile, essendo a tal fine necessaria evidentemente un’autorizzazione legislativa del tutto analoga a quella contenuta nell’art. 41 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, che ha consentito la rinegoziazione dei mutui già contratti)”.
Il Consiglio di Stato ha inoltre rilevato che non potevano esistere simili obblighi informativi in capo alle banche, in quanto “il contratto [pur non indicando ne’ il mtm iniziale ne’ la scomposizione del “prezzo” n.d.r.] conteneva tutti gli elementi per poter quantificare il MtM a condizioni mid-market e consentire una consapevole valutazione dell’operazione, nonché richiedere alla banca le valutazioni interne fatte, il rischio di credito e le altre variabili al fine di aprire una eventuale fase negoziale sui parametri che la banca ha inserito nel calcolo del fair value”. (enfasi aggiunta).
Le considerazioni del Consiglio di Stato di cui sopra sono chiaramente in contrasto con le affermazioni delle Sezioni Unite, ma – stranamente, anche considerata l’autorevolezza attribuita alle decisioni del Consiglio di Stato in generale e a quella qui commentata, in particolare – non sono neppure menzionate nella Sentenza (né tantomeno confutate).
Su questa base, non si può escludere che i giudici di merito, nell’affrontare gli stessi argomenti su cui si è espressa la sentenza, possano ritenere che i principi di diritto in essa enunciati vadano letti congiuntamente con la posizione opposta che è stata, tuttavia, espressa sul medesimo argomento dal Consiglio di Stato.
In aggiunta a quanto sopra, si segnala che la Corte di Cassazione italiana, anche se non attraverso le sue Sezioni Unite, ha emesso alcune sentenze sui contratti derivati che sembrano significativamente in contrasto con le affermazioni della Sentenza. A questo proposito, si consideri in particolare:
- la sentenza n. 47421/2011 emessa dalla II Sezione Penale della Corte di Cassazione (relativa ai contratti derivati stipulati dal Comune di Messina), nella quale essa ha indicato che è innegabile che il mark to market di un contratto derivato “non esprime affatto un valore concreto ed attuale, ma esclusivamente una proiezione finanziaria basata sul valore teorico di mercato in caso di risoluzione anticipata. Il valore del mark-to-market, infatti, è influenzato da una serie di fattori ed è quindi sistematicamente aggiustato in funzione dell’andamento dei mercati finanziari […]. Dunque per poter stabilire se quel dato rappresenti o meno un vantaggio o un danno per l’ente contraente, occorre procedere ad una disamina a posteriori, allorché, cioè, il contratto abbia raggiunto la sua normale scadenza […].”;
- la sentenza n. 9644/2016, nella quale la Corte di Cassazione ha affermato che “il mark to market rappresenta un’espressione che si riferisce – per approssimazione – ad un metodo di valutazione delle attività finanziarie […]. Esso consiste nell’attribuire a tali attività il valore che esse riceverebbero in caso di rinegoziazione del contratto o di risoluzione del rapporto prima della sua naturale scadenza. […]. In effetti, il valore del mark to market è influenzato da vari fattori ed è quindi sistematicamente aggiustato in funzione dell’andamento dei mercati finanziari”;
- la sentenza n. 18724 del 13 luglio 2018, che, anche se sotto un’angolazione parzialmente diversa da quella rilevante ai fini della Sentenza, si è soffermata sulla causa dei contratti derivati, rilevando come essa debba considerarsi meritevole di tutela, allorché il relativo contratto derivato abbia la finalità di preservare la controparte non finanziaria da un rischio che, al momento della stipula del contratto, sia da considerarsi, almeno in teoria, esistente (come potrebbe essere il caso del rischio costituito dall’aumento dei tassi di interesse).
Chiarito quanto sopra, il ragionamento seguito delle Sezioni Unite nei passi successivi della Seconda Parte della Sentenza è di difficile comprensione, anche in considerazione delle diverse affermazioni contraddittorie e fuorvianti che vi sono riportate. Sulla base della ricostruzione da noi effettuata, siamo del parere che le Sezioni Unite ritengano che i doveri informativi asseritamente imposti sugli intermediari possano considerarsi assolti (così che il contratto abbia una causa valida e un oggetto determinabile), fornendo ai clienti le informazioni relative:
- al mark-to-market iniziale ma non è chiaro qui se la sentenza si riferisca al “numero” del MtM come sembra sostenere nella enunciazione del principio di diritto, o invece alla formula necessaria per il calcolo del medesimo;
- ai cosiddetti “costi impliciti”;
- ai cosiddetti “scenari probabilistici” (senza che, tuttavia, vengano fornite più puntuali indicazioni su che cosa debba effettivamente intendersi per scenari probabilistici – un problema che come vedremo tra poco, rende difficile comprendere anche quali obbligazioni debbano essere adempiute in pratica). Sembrerebbe, infatti, che secondo l’opinione delle Sezioni Unite, in presenza di tali elementi il cliente possa essere considerato in grado di apprezzare correttamente i rischi del contratto, e, così concludere una scommessa “razionale”.
Tuttavia, se comprendiamo correttamente le affermazioni riportate dalle Sezioni Unite all’interno della Sentenza, la mancata comunicazione di tali informazioni non determinerebbe necessariamente, di per sé, l’invalidità del contratto. Infatti, le Sezioni Unite sembrerebbero affermare che, al fine di verificare se il cliente abbia avuto effettiva contezza dei rischi inerenti alla sottoscrizione di un contratto derivato (in modo tale che quest’ultimo presenti effettivamente una causa valida ed un oggetto determinato) sia necessario condurre una valutazione caso per caso, riguardante il concreto contesto fattuale in cui il contratto derivato è stato stipulato. Pertanto, ogni qual volta insorga una controversia riguardante i contratti derivati, il giudice sarebbe chiamato a determinare, sulla base di un’analisi concreta di tale particolare contesto fattuale, se il cliente sia stato effettivamente messo in condizione tale da comprendere a pieno i rischi derivanti dal contratto.
Ma torniamo agli scenari probabilistici.
Come visto sopra, ai fini del secondo principio di diritto, le Sezioni Unite hanno sostenuto che – ferma restando, come si è detto, la necessità di condurre una valutazione caso per caso – la mancata comunicazione di tali scenari probabilistici potrebbe determinare la nullità dei contratti derivati.
A prescindere dalla discutibilità di tale affermazione (per quanto si è detto in precedenza e si dirà ancora infra nella nostra analisi del secondo principio di diritto) occorre notare che è lo stesso concetto degli scenari probabilistici a risultare estremamente controverso, in ragione dell’assenza nel nostro ordinamento di disposizioni specifiche atte a chiarirne finalità e contenuto.
Purtroppo, la Sentenza non fornisce, come sarebbe stato altresì auspicabile, ulteriori chiarimenti a riguardo, limitandosi a sostenere che gli scenari probabilistici (quali? come?) debbano (anzi in passato avrebbero dovuto) essere comunicati al cliente, al fine di garantire che quest’ultimo sia adeguatamente consapevole dei rischi dell’operazione.
In proposito, è bene osservare che, per quanto di nostra conoscenza, un riferimento “ufficiale” agli scenari probabilistici è stato inserito per la prima volta in alcuni documenti (non vincolanti) pubblicati dalla Consob nel 2009 e riguardanti le informazioni da fornire nell’ambito dei prospetti informativi per l’offerta al pubblico di una certa tipologia di titoli[10].
A tale riguardo, gli scenari probabilistici sono stati descritti come indicatori sintetici da redigere in modo facilmente comprensibile per gli investitori e finalizzati a fornire loro informazioni in merito:
- ai rendimenti attesi;
- al complessivo livello di rischio del prodotto al momento della sua sottoscrizione e successivamente nel corso del periodo di investimento consigliato;
- al periodo di investimento consigliato, da determinarsi sulla base delle specifiche caratteristiche dei prodotti, del relativo profilo di rischio e dei costi.
Come ben noto, i contratti derivati non sono soggetti alla specifica disciplina prevista in relazione all’offerta pubblica di titoli e, in questo senso, non erano impattati dalle disposizioni di cui sopra. Tuttavia, nel marzo 2009 la Consob ha emanato un’altra raccomandazione indirizzata in generale ai cosiddetti “prodotti illiquidi” – inclusi, quindi, i contratti derivati – negoziati con la clientela al dettaglio[11].
Tale raccomandazione comprendeva anche la seguente indicazione: “per illustrare il profilo di rischio di strutture complesse, è utile che l’intermediario produca al cliente anche le risultanze di analisi di scenario di rendimenti da condursi mediante simulazioni effettuate secondo metodologie oggettive (ossia rispettose del principio di neutralità al rischio)”.
Non è chiaro se, tramite il riferimento sopra menzionato alle “analisi di scenario”, la Consob intendesse effettivamente fare riferimento agli scenari probabilistici. E sottolineiamo, ancora una volta, che ci riferiamo ad una mera raccomandazione, come confermato anche dalla terminologia utilizzata dalla Consob (“è utile che l’intermediario finanziario fornisca […]”).
Ulteriori elementi significativi da tenere in considerazione sono i seguenti:
- l’ex presidente della Consob, con una nota del 2016, ha evidenziato che gli scenari probabilistici non sono mai stati formalmente introdotti nel quadro normativo italiano, in quanto potrebbero contenere informazioni fuorvianti per gli investitori[12];
- in relazione all’attuazione del c.d. regolamento PRIIPS (ed in particolare all’insieme delle informazioni da includere nel c.d. Documento Informativo Chiave), gli scenari probabilistici sono stati sostanzialmente sostituiti con i cc.dd. “scenari di performance”, basati sulla differente metodologia “what if”[13].
Va pure notato che non più tardi dell’ottobre 2009, e cioè pochi mesi dopo la possibile prospettazione da parte di Consob di un uso degli scenari probabilistici, il CESR (Committee of European Securities Regulators, l’organismo precursore dell’ESMA) respingeva gli scenari stessi come mezzo di rappresentazione dei rischi e dei rendimenti da inserire nel KIID (il Documento con le informazioni-chiave da fornire nel collocamento dei fondi comuni di investimento) ai sensi della direttiva UCITS. Il CESR preferiva il metodo cosiddetto “what if” (o metodo deterministico) che non si traduce in “scenari probabilistici”, bensì in “scenari di performance”[14].
Nel 2010, l’opinione del CESR veniva quindi riflessa nelle disposizioni del Regolamento UE n. 583/2010 (attuativo della direttiva UCITS IV, n. 2009/65). In particolare l’art. 36 del Regolamento UE 583 (che implementava la direttiva UCITS per quanto riguarda le informazioni chiave per gli investitori) contemplava l’obbligo di indicazione degli scenari di performance; il comma 3 prevedeva infatti: “La spiegazione di cui al paragrafo 2 è accompagnata da un’illustrazione che riporta almeno tre scenari di performance potenziale dell’OICVM. Gli scenari sono scelti in maniera da mostrare le circostanze nelle quali la formula può dare all’investitore un rendimento basso, medio o alto, o, se del caso, negativo”.
Torniamo quindi agli effetti della sentenza sui contratti in essere. La Cassazione ha statuito che le banche avrebbero dovuto inserire in contratti stipulati negli anni 2000 (i derivati della causa Cattolica erano del 2002 e del 2003) informazioni (gli scenari probabilistici) che nessuno, nemmeno la Consob, avrebbe suggerito di introdurre fino al 2009 e che appena introdotti, peraltro non per i contratti derivati, venivano ritenuti potenzialmente misleading e sostituiti dagli scenari what if. E la conseguenza per non avere le banche introdotto (facendo ricorso a doti divinatorie di cui è noto che esse dispongano in larga misura) nei contratti derivati degli indicatori che sarebbero stati sviluppati solo molti anni dopo e peraltro disattesi subito, sarebbe la nullità (presumiamo insanabile) dei contratti. Personalmente non credo che qualcuno possa ritenere logica o equa una conclusione di questo tipo.
E vi è di più: qualunque economista potrà spiegare che i cosiddetti scenari probabilistici (risk neutral) cui sembra fare riferimento la sentenza non indicano affatto le probabilità che un evento si verifichi (nessuno e’ in grado di sapere o quantificare tali probabilità e ipotizzare il contrario di Ostia quanto poco si conoscano e comprendano i meccanismi che regolano il funzionamento dei mercati) e sono dunque informazioni poco rilevanti per la controparte. Gli scenari probabilistici risk neutral sono invece diretti a stabilire il prezzo dell’hedging per le banche, prezzo non collegato alle probabilità dell’evento ma alle dinamiche del mercato[15]. Il risultato della sentenza è insomma quello di comminare la nullità per non aver fornito una informazione che, secondo la tesi della sentenza, doveva consentire una migliore comprensione del rischio, ed invece nella realtà elimina proprio, ai fini del pricing, il rischio medesimo.
Ma le conseguenze non finiscono qui. Come vedremo anche in seguito, l’effetto della sentenza è di creare sconcerto negli operatori per l’impossibilità di sapere con quali forme e secondo quali criteri gli scenari probabilistici possano essere inseriti nei contratti da stipulare da oggi in poi (nella ipotesi che si voglia estendere prudenzialmente anche ai corporate il trattamento che la SC riserva agli enti locali). Anzitutto per i contratti retail esiste ormai una consolidata struttura informativa sostanzialmente riconducibile alla MIFID che impone una approfondita disclosure che non include affatto gli scenari probabilistici, ma piuttosto gli scenari di performance. E tutti sanno che le due tipologie di scenari conducono a risultati difformi. Ma anche ove si volessero fornire entrambi, quali scenari si dovrebbero usare? Con quali modalità, con quali criteri?
4. La terza parte della Sentenza: il concetto di indebitamento e l’organo avente il potere di autorizzare la conclusione dei contratti derivati
Nell’ultima parte della Sentenza, le Sezioni Unite si sono infine (e in tre sole pagine) concentrate sulle domande che erano state loro poste con l’Ordinanza Interlocutoria. Peraltro, come anticipato, le Sezioni Unite hanno dato di fatto una risposta (esaustiva) soltanto alla seconda questione posta dall’Ordinanza Interlocutoria.
A riguardo, le Sezioni Unite hanno, anzitutto, provveduto ad indicare se, all’epoca dello svolgimento dei fatti, l’upfront dovesse effettivamente essere qualificato come una forma di indebitamento assunta dall’ente. La risposta data è stata affermativa e ciò anche con riguardo ai pagamenti di upfront effettuati in base a contratti derivati stipulati prima del 2008 (quando, come detto, sono state apportate le modifiche alla definizione di indebitamento di cui alla Legge 350/2003, facendosi, per la prima volta, riferimento al premio pagato in relazione a contratti derivati).
Tuttavia – e questo è francamente sorprendente, considerata la natura della controversia e i contenuti dell’Ordinanza Interlocutoria – le Sezioni Unite non hanno spiegato su quali basi si fondi tale conclusione.
Inoltre, le Sezioni Unite non hanno in alcun modo indicato gli effetti che la qualificazione dell’upfront come forma di indebitamento dovrebbe avere sui contratti derivati.
Infatti, il Paragrafo 10.1.4 afferma che “Peraltro, se il denaro ottenuto con l’upfront è da considerare indebitamento, lo stesso non può dirsi degli IRS conclusi dagli enti pubblici, i quali, eventualmente, possono presupporre un indebitamento”. Tale affermazione apparentemente implica che i contratti derivati, anche quando prevedano il pagamento di un upfront, non possano essere normalmente considerati come indebitamento (come invece era stato sostenuto dal Comune di Cattolica, ai fini della controversia).
In questo senso, posto che l’upfront dovrebbe, invece, essere considerato come una forma di indebitamento, le Sezioni Unite non hanno chiarito:
- se i contratti derivati che prevedano una tale clausola siano o meno da considerare conclusi in violazione dell’art. 119 della Costituzione e dell’art. 30 della Legge 289/2002, ove i proventi non siano utilizzati per finalità di investimento (un’argomentazione controintuitiva dal momento che la Corte stessa riconosce che i derivati sono utilizzati per scopi di copertura del rischio, e i relativi flussi di pagamento sono utilizzati per ripagare un debito esistente), e dunque
- se tali contratti derivati siano da considerarsi nulli nella loro interezza o, viceversa, solo in relazione alle disposizioni riguardanti il pagamento dell’upfront.
Va ricordato che le Sezioni Unite hanno comunque espresso l’opinione che, diversamente dall’upfront, i contratti derivati non possono essere considerati di per sé come forme di indebitamento. A riguardo, secondo il ragionamento seguito dalle Sezioni Unite, il potere di autorizzare la conclusione di contratti derivati spetterebbe al consiglio comunale solo allorché:
- i contratti derivati prevedano il pagamento di un upfront – dal momento che quest’ultimo è da considerarsi una forma di indebitamento;
- anche in mancanza di una clausola di upfront, i contratti derivati conclusi in relazione ad un mutuo o ad altra forma di indebitamento dell’ente locale abbiano l’effetto di determinare l’estinzione anticipata di tale mutuo (ipotesi del tutto incomprensibile e mai vista nella realtà) o una sostanziale modifica dei suoi termini e condizioni (ma cosa si intende per modifica sostanziale non è dato sapere. La sentenza fa riferimento al caso in cui si modifichi la durata dell’indebitamento ma non fornisce ulteriori indicazioni.). I contratti derivati con tali caratteristiche – la cui conclusione non sia stata espressamente autorizzata dal Consiglio comunale – dovrebbero dunque essere considerati nulli.
Da notare che, anche sotto questo specifico profilo riguardante l’organo titolato ad autorizzare la stipula di contratti derivati, le Sezioni Unite hanno fornito ben poche spiegazioni circa le ragioni che le hanno portate a formulare simili conclusioni. In particolare, esse non hanno nemmeno menzionato i precedenti – riportati nell’Ordinanza Interlocutoria – con cui il Consiglio di Stato aveva raggiunto, sull’identica questione, conclusioni di segno opposto[16].
Altra importante conseguenza della decisione, che pure sul tema specifico contiene affermazioni contraddittorie, è che se i derivati non sono indebitamento allora non rileva né la questione dell’articolo 119 della Costituzione circa l’utilizzabilità dei flussi per spese non di investimento (che pure era uno dei temi centrali dell’Ordinanza) né la questione, spesso dibattuta dell’applicabilità dell’articolo 41, secondo comma, della Legge 28 dicembre 2001 n. 448 circa la convenienza economica del derivato. E’ vero che la Sentenza dice che il derivato dovrebbe essere economicamente conveniente, ma lo dice in relazione alla sua natura di contratto di protezione e non speculativo[17]. Non pare che il riferimento alla convenienza sia quindi ricollegabile alla previsione del citato articolo 41, o, se lo fosse, dovremmo allora nuovamente lamentarci della poca chiarezza di questa decisione visto che non ci spiega in alcun modo come questo test di convenienza economica sia applicabile ad un contratto stipulato a scopo di hedging.
Le SS.UU. nemmeno si sono occupate, di fronte alla ipotetica questione della nullità del negozio, degli effetti di una possibile ratifica successiva da parte del consiglio stesso, per esempio attraverso l’approvazione anno per anno del bilancio di esercizio che include i flussi dei derivati nonché della nota allegata al bilancio stesso[18], descrittiva in dettaglio della struttura del derivato e dei flussi ricevuti e versati. Possibile che il Consiglio abbia ogni anno approvato tali spese senza che ciò costituisca ratifica del contratto sottostante? Difficile crederlo. E del resto la tesi della nullità per approvazione dell’organo non competente contrasta apertamente con una consolidata giurisprudenza di segno opposto, diretta a classificare la fattispecie come inefficacia o annullabilità con conseguenti ampie possibilità di sanatoria.
5. Considerazioni preliminari relative al tipo di controparte che può essere interessata dalla Sentenza (cioè, enti locali o società di capitali)
Al fine di analizzare la concreta applicazione dei principi affermati dalla Sentenza da parte dei Tribunali Italiani, dovremmo ovviamente distinguere la posizione degli enti locali da quella di controparti private, come le società di capitali.
A riguardo, dobbiamo rilevare che, com’è noto, la Sentenza è stata pronunciata nel contesto di una controversia avviata da un ente locale italiano. E, infatti, il primo e il terzo principio di diritto riguardano norme specificamente applicabili in relazione agli enti locali e, come tali, possono avere un impatto esclusivamente con riferimento a procedimenti giudiziari che coinvolgano detti enti locali.
Di contro, il secondo principio di diritto riguarda i concetti di “causa” e “oggetto”, nozioni di diritto civile che, come tali, potrebbero, in astratto, rilevare anche in relazione a contratti derivati sottoscritti da controparti private.
E’ bene tuttavia rilevare che all’interno della Sentenza vi sono alcuni elementi che permettono di rigettare tale conclusione: il più ovvio è che la controversia di cui si occupa la Sentenza riguardava contratti derivati conclusi da un ente locale. Ed, infatti, come si è visto, essa era stata deferita alle Sezioni Unite, tramite l’Ordinanza Interlocutoria, proprio al fine di risolvere questioni strettamente attinenti alla conclusione di contratti derivati da parte degli enti locali.
A ciò è bene aggiungere che, nel contesto del ragionamento svolto dalle Sezioni Unite in relazione al secondo principio di diritto ivi formulato, vi sono effettivamente alcuni passaggi che consentono di sostenere che esso vada applicato esclusivamente con riferimento ai contratti derivati conclusi con enti locali.
Sul punto, si faccia riferimento in particolare alla formulazione usata dalle Sezioni Unite ai fini del secondo principio di diritto che, come visto sopra, recita quanto segue:
“in tema di contratti derivati, stipulati dai Comuni italiani sulla base della disciplina normativa vigente fino al 2013 (quando la L. n. 147 del 2013, ha escluso la possibilità di farvi ulteriore ricorso) e della distinzione tra i derivati di copertura e i derivati speculativi, in base al criterio del diverso grado di rischiosità di ciascuno di essi, pur potendo l’ente locale procedere alla stipula dei primi con qualificati intermediari finanziari nondimeno esso poteva utilmente ed efficacemente procedervi solo in presenza di una precisa misurabilità/determinazione dell’oggetto contrattuale, comprensiva sia del criterio del mark to market sia degli scenari probabilistici, sia dei cd. costi occulti, allo scopo di ridurre al minimo e di rendere consapevole l’ente di ogni aspetto di aleatorietà del rapporto, costituente una rilevante disarmonia nell’ambito delle regole relative alla contabilità pubblica, introduttiva di variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa riportati in bilancio.”
Attenendosi alla formulazione adoperata dalle Sezioni Unite, si può, dunque, sostenere che il secondo principio di diritto sia, quantomeno sulla base di un’interpretazione letterale della statuizione sopra riportata, riferibile ai soli Comuni italiani. E le ragioni per una tale limitazione potrebbero effettivamente essere rinvenute nell’ultima frase del medesimo secondo principio di diritto, ove le Sezioni Unite sostengono che la mancanza di consapevolezza da parte dell’ente locale circa i rischi derivanti dal contratto sarebbe in grado di compromettere le regole di contabilità pubblica, in particolare per ciò che riguarda la (necessaria) certezza degli impegni di spesa.
Infatti, gli enti locali si troverebbero in una situazione tale da non essere in grado di prevedere e determinare le spese, cui sarebbero esposti nel corso della durata del contratto. E ciò potrebbe incidere sulle disponibilità in capo agli enti locali di adeguate risorse finanziarie, e, più in particolare, sull’effettivo utilizzo di tali risorse, per il perseguimento di interessi pubblici, che sono comunque tutelati dalla Costituzione italiana, come è notato in altre sezioni della Sentenza.
Partendo da queste considerazioni, si può quindi concludere che, anche a voler accedere alle tesi della Cassazione, espressa peraltro in maniera davvero sintetica e criptica, secondo cui la nostra Costituzione perseguirebbe particolari esigenze di protezione degli enti locali e che tali specifiche esigenze imporrebbero che la sottoscrizione da parte di questi ultimi di contratti derivati sia accompagnata dal rilascio di determinate informazioni, la stessa situazione non si rinviene nel caso di contratti derivati stipulati da altre categorie di soggetti (ed in primis, dalle società di capitali). In quest’ultimo caso, pertanto, i contratti derivati potrebbero essere considerati validi pur in mancanza dell’adempimento degli obblighi informativi che troverebbero, invece, applicazione in relazione agli enti locali (o pur presenza di comunicazioni che presentino un minor livello di dettaglio rispetto a quanto affermato dalla Sentenza).
6. La necessità di condurre una valutazione caso per caso
Resta infine da esaminare in particolare, la sezione 9.7 della Sentenza. Tale paragrafo indica che, al fine di stabilire se gli enti locali abbiano o meno ricevuto informazioni adeguate per valutare pienamente i rischi dell’operazione (in modo tale da poter ritenere che il relativo contratto abbia una causa valida e/o un oggetto determinabile), è necessario svolgere un’analisi caso per caso.
Su tale base, anche in mancanza delle informazioni specifiche a cui la Sentenza si riferisce (ad esempio, il valore mark to market, gli scenari probabilistici, i costi occulti), si può sostenere che la controparte interessata abbia, comunque, ricevuto (altre) informazioni idonee a consentirgli un’adeguata valutazione dei rischi. Ed infatti, dovendosi procedere, secondo quanto indicato dalla Sentenza, ad un’analisi “caso per caso”, ogni controversia potrebbe presentare un particolare contesto di fatto passibile di essere differenziato da quello che è stato preso in considerazione ai fini della Sentenza, così da consentire al tribunale investito dalla controversia di giungere a conclusioni differenti da quelle cui sono pervenute le Sezioni Unite sulla particolare fattispecie sottoposta al loro esame.
A questo proposito, a nostro avviso occorrerebbe, in particolare, analizzare le informazioni che sono state comunicate prima della stipula del contratto e, più specificatamente, valutare in che misura tali informazioni – anche in mancanza di indicazioni specifiche su MtM, costi occulti e scenari probabilistici – potevano consentire al destinatario interessato di valutare i possibili rischi derivanti dall’operazione.
A tal fine possono essere rilevanti anche le delibere assunte dagli enti interessati al fine di approvare la stipula di contratti derivati. In particolare, tali delibere potrebbero consentire di determinare in quale misura l’ente fosse in grado di comprendere – ed abbia effettivamente compreso tali rischi.
Si noti inoltre che la Sentenza omette di prendere in considerazione le differenze esistenti tra i clienti degli intermediari finanziari, in funzione della loro classificazione, quali clienti professionali o al dettaglio, classificazione che era, di contro, prevista tanto dalla normativa pre-MiFID che da quella post MiFID. Come infatti ben noto, tale classificazione era ed è, tuttora, espressamente finalizzata a determinare la competenza finanziaria e la capacità degli investitori di comprendere e sostenere i rischi di operazioni finanziarie e si traduce in un diverso livello di dettaglio degli obblighi informativi, a seconda delle esigenze di tutela di ogni specifico investitore.
A tale riguardo, si può concludere che qualsiasi analisi caso per caso da effettuarsi da parte del Tribunale competente circa il rispetto degli obblighi informativi asseritamente applicabili in relazione ai contratti derivati dovrebbe necessariamente tenere conto del fatto che gli enti locali/società che soddisfacevano i requisiti per essere identificati come clienti professionali dovevano essere trattati in modo diverso dai clienti al dettaglio.
I clienti professionali, infatti, (così come riconosciuto dalla normativa), dovrebbero presentare esigenze di tutela significativamente inferiori rispetto a quelle dei clienti al dettaglio; con la conseguenza che – procedendo come richiesto dalla Sentenza ad una valutazione, caso per caso – nel caso dei primi, un’informativa attenuata rispetto agli specifici elementi menzionati nella Sentenza potrebbe essere considerata pur sempre adeguata a far sì che detti clienti professionali, al tempo della stipula del contratto, fossero in grado di apprezzare i rischi concretamente discendenti dall’operazione.
7. L’applicazione dei principi della Sentenza in relazione ai contratti derivati soggetti alla legge inglese
È infine sicuramente da valutare se la sentenza possa avere un impatto significativo rispetto ai contratti derivati regolati dalla legge inglese.
Allo stato infatti ogni situazione di potenziale conflitto tra la legge italiana e quella inglese (come nel caso di contratti soggetti alla legge inglese ma conclusi tra due parti stabilite in Italia) sarebbe soggetta alle disposizioni del cosiddetto Regolamento Roma I.
Secondo il Regolamento Roma I, le obbligazioni contrattuali sono di norma subordinate alla legge che è stata scelta dalle parti (e, quindi, nel caso dei contratti derivati a cui si riferisce questo paragrafo, alla legge inglese), con alcune limitate eccezioni, previste dall’articolo 3, paragrafo 3, del Regolamento Roma I, secondo cui “Qualora tutti gli altri elementi pertinenti alla situazione siano ubicati, nel momento in cui si opera la scelta, in un paese diverso da quello la cui legge è stata scelta, la scelta effettuata dalle parti fa salva l’applicazione delle disposizioni alle quali la legge di tale diverso paese non permette di derogare convenzionalmente”.
A questo proposito, ci preme rammentare che esistono diversi precedenti delle corti inglesi in merito all’interpretazione della suddetta disposizione[19].
8. Conclusioni
La funzione nomofilattica delle sentenze della Corte di Cassazione, particolarmente quando sia assolta dalle Sezioni Unite, richiede che la Corte operi un particolare sforzo per fornire principi di diritto chiari, precisi ed utilizzabili dai soggetti che intendano porre in essere rapporti giuridici soggetti alla particolare interpretazione della Corte.
La sentenza in esame, dimenticando le qualità di esattezza e coerenza cui si faceva riferimento nelle premesse, manca a mio avviso totalmente di svolgere questa funzione. Introduce infatti principi vaghi ed imprecisi (gli scenari probabilistici, quali e come, l’approvazione dell’organo consiliare per alcuni derivati, ma quali, il carattere o meno di indebitamento dei contratti in questione), che rendono letteralmente impossibile per gli operatori uniformarsi per il futuro ai dettami espressi dalla Corte (ove volessero estendere ai soggetti corporate i principi espressi per gli enti locali) ed impongono un intervento legislativo, o, auspicabilmente, nuove decisioni che limitino gli effetti potenzialmente dirompenti della decisione.
Il fatto che poi la sentenza abbia un effetto potenzialmente retroattivo, mettendo in discussione contratti stipulati in tempi in cui, come documentato, nessuno avrebbe potuto, neppure utilizzando capacità extrasensoriali, fornire tipologie informative al tempo del tutto ignote (mi riferisco in particolare agli scenari c.d. probabilistici), non può che indurre gli operatori del diritto a chiedersi se sia davvero ragionevole, e perfino sensato, applicare i principi espressi nella decisione.
[*] Ringrazio il mio collega Ettore Frustaci per l’aiuto indispensabile fornito nella redazione del presente articolo.
[1] “Ne deriva che non è censurabile la sentenza impugnata che ha ritenuto pienamente fondato il rilievo del Comune per il quale il contratto di swap ed in particolare — ma non solo — quello che prevedeva una clausola di iniziale upfront, costituisse, proprio per la sua natura aleatoria, una forma di indebitamento per l’ente pubblico, attuale o potenziale.”
[2] Il primo riferimento agli “scenari probabilistici” è da individuarsi nella sentenza della Corte d’Appello di Milano, 18 Settembre 2013. Est. Carla Romana Raineri.
[3] Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 23-10-2007) 19-12-2007, n. 26725.
[4] Emilio Girino, I contratti derivati, 2001.
[5] Che recita quanto segue: “il riconoscimento della legittimazione dell’Amministrazione a concludere contratti derivati, sulla base della disciplina vigente fino al 2013 (quando la L. n. 147 del 2013, ne ha escluso la possibilità) e della distinzione tra i derivati di copertura e i derivati speculativi, in base al criterio del diverso grado di rischiosità di ciascuno di essi, comportava che solamente nel primo caso l’ente locale potesse dirsi legittimato a procedere alla loro stipula”.
[6] E nella nostra opinione, al momento in cui i contratti del Comune di Cattolica sono stati conclusi, nessuna disposizione di legge italiana imponeva una simile obbligazione.
[7] Sentenze SS.UU. nn. 26724 e 26725 del 2007.
[8] Questo è, per esempio, il caso dell’inadempimento all’obbligo di informare la controparte non-finanziaria sul diritto di recedere dai contratti sottoscritti fuori sede. Come ben noto, l’articolo 30 del TUF prevede espressamente che i contratti che non includono tale informazione (e che, dunque, sono stati conclusi senza l’osservanza in capo all’intermediario finanziario interessato) debbano considerarsi nulli. Secondo il principio affermato dalle Sezioni Unite nelle cc.dd. “Sentenze Gemelle”, una simile sanzione non potrebbe essere applicata nel caso in cui l’articolo 30 del TUF non la prevedesse espressamente.
[9] Consiglio di Stato, sentenza 27 novembre 2012, n. 5962.
[10] Il Quaderno di finanza n. 63 – aprile 2009: “Un approccio quantitativo risk-based per la trasparenza dei prodotti d’investimento non-equity” ed il documento di consultazione “Raccomandazione sul prospetto d’offerta o di ammissione alle negoziazioni dei prodotti finanziari non rappresentativi di capitale, diversi dalle quote o azioni di OICR e dai prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione: modalità di presentazione e contenuti dell’informativa sul profilo di rischio-rendimento e sui costi” del 14 luglio 2009.
[11] Comunicazione CONSOB n. 9019104 del 2 marzo 2009.
[12] La nota prevede, tra l’altro, quanto segue: “La Consob non ha mai abrogato l’obbligo di inserire gli scenari probabilistici di rendimento nei prospetti informativi delle obbligazioni bancarie per il semplice fatto che non è mai stato introdotto, né a livello nazionale né a livello europeo, alcun obbligo di includere nei prospetti questa informativa.”
[13] Tale metodologia consiste nel determinare i possibili effetti che qualsiasi variazione di un fattore esterno (ad es. il tasso di interesse) potrebbe avere sui pay-offs dello strumento finanziario in questione.
[14] Si veda il “CESR’s technical advice to the European Commission on the level 2 measures related to the format and content of Key Information Document disclosures for UCITS” (Ref.: CESR/09-949) del 28 ottobre 2009.
[15] “Risk-neutral probabilities are used to try to determine objective fair prices for an asset or financial instrument. You are assessing the probability with the risk taken out of the equation, so it doesn’t play a factor in the anticipated outcome. By contrast, if you tried to estimate the anticipated value of that particular stock based on how likely it is to go up or down, considering unique factors or market conditions that influence that specific asset, you would be including risk into the equation and thus would be looking at real or physical probability. The benefit of this risk-neutral pricing approach is that once the risk-neutral probabilities are calculated, they can be used to price every asset based on its expected payoff. These theoretical risk-neutral probabilities differ from actual real-world probabilities, which are sometimes also referred to as physical probabilities. If real-world probabilities were used, expected values of each security would need to be adjusted for its individual risk profile”. https://www.investopedia.com/terms/r/risk-neutral-probabilities.asp#:~:text=Risk%2Dneutral%20probabilities%20are%20probabilities%20of%20possible%20future%20outcomes%20which,an%20asset%20or%20financial%20holding.
[16] “A tale indirizzo […] si contrappone, però, una recente pronuncia del Consiglio di Stato con cui è stato escluso che ai contratti di swap si correli la fattispecie delle spese pluriennali prevista dell’art. 42, comma 2, lett. i) T.U.E.L.. Dopo aver premesso che la competenza consiliare sui medesimi atti è una conseguenza della collocazione del medesimo organo al vertice del ciclo di programmazione economica e finanziaria dell’ente, in virtù della quale ad esso è attribuito il potere decisionale sui “bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni” ex art. 42, comma 2, lett. b), T.U.E.L., il Consiglio di Stato ha osservato che gli swap si collocano al di fuori di questo schema. Infatti – è precisato – “la loro funzione consiste […] nella riduzione degli oneri finanziari legati all’indebitamento già contratto e dunque alla diminuzione dei rischio ad essi legato”. Viene aggiunto: “Gli swap possono dunque rivestire la finalità di ristrutturare il debito, ed in particolare quello avente un orizzonte pluriennale, allineandone le condizioni economiche ai tassi di mercato esistenti, così da ottenere risparmi di spesa e, in particolare per gli enti locali, liberare risorse a carico del bilancio già impegnate. Da questa notazione si evince che le ragioni che conducono alla stipula di questi contratti è addirittura antitetica a quella che presiede all’attribuzione al consiglio comunale della competenza sulle spese pluriennali ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. i) T.U.E.L., su cui si fonda l’annullamento d’ufficio”. Ne discenderebbe che la conclusione di swap non possa essere considerata un atto di assunzione di una spesa pluriennale, dovendosi piuttosto qualificare come “atto di gestione dell’indebitamento dell’ente locale con finalità di riduzione degli oneri finanziari ad esso inerenti, legittimamente adottabile dalla giunta comunale in virtù della sua residuale competenza gestoria del Testo Unico di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 48, comma 2” (Cons. Stato 30 giugno 2017, n. 3174)”.
[17] Si vedano i punti 8.1 e 10.4.1 della Sentenza: “Innanzitutto, il derivato per essere ammissibile, doveva essere economicamente conveniente essendo vietato concludere derivati speculativi” e “ove il Comune intenda procedere ad un’operazione di ristrutturazione del debito, deve individuare le principali caratteristiche e le modalità attuative di essa e, poi, selezionare con una gara la migliore offerta in relazione non solo allo scopo che mira a raggiungere, ma anche alle modalità che vuole seguire, dovendo la P.A. conformare la sua azione ai principi di economicità e convenienza economica”.
[18] L’obbligo per gli enti locali di allegare tale nota al bilancio è stato introdotto con l’art. 1, comma 383, della legge 244/2007 ed è oggi disciplinato dall’art. 11 del D.lgs. 118/2011.
[19] Si vedano “Dexia Crediop SpA v Comune di Prato [2017] EWCA Civ 428 (15 June 2017)” e “Banco Santander Totta SA v Companhia Carris De Ferro De Lisboa SA & ors [2016] EWCA Civ 1267”.