1. Introduzione
Con questo breve scritto si vuole fornire una panoramica completa del contenuto della sentenza n. 2010 – Folio 1456, resa in primo grado, in data 25 giugno 2015, dall’Alta Corte di Londra, a conclusione di un procedimento instaurato nel 2010 da Dexia Crediop S.p.A. contro il Comune di Prato, avente ad oggetto taluni contratti derivati conclusi negli anni 2002-2006 e fornire inoltre ragguagli sulle altre decisioni in materia di derivati analizzate dalle corti inglesi.
La sentenza in commento è stata emanata a seguito dell’azione promossa da Dexia innanzi al foro di Londra, quale foro avente giurisdizione esclusiva ai sensi del relativo ISDA Master Agreement in essere tra le parti, profilo assai rilevante se si considera che gran parte del dibattito e della giurisprudenza italiana formatasi in materia di derivati si concentra su contratti disciplinati dalla legge italiana e non invece su contratti conclusi nell’ambito del c.d. ISDA Master Agreement, che com’è noto rappresenta lo standard internazionale di contratto quadro in materia e che prevede di norma l’applicazione della legge inglese (talvolta dello Stato di New York) e la giurisdizione esclusiva delle corti inglesi.
In questo contesto, la sentenza affronta e statuisce sull’applicabilità dell’una o dell’altra norma di diritto italiano rispetto a due parti di nazionalità italiana ed a contratti stipulati ed eseguiti in Italia, appellandosi ai principi sanciti in materia di obbligazioni contrattuali dalla Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 e successivo Regolamento 539/2008, di cui diremo appresso: si assiste dunque al caso in cui la norma italiana viene in rilievo in contratti disciplinati da una legge straniera (i.e. la legge inglese), laddove entrano in gioco principi di ordine pubblico italiano ovvero, tra gli altri, obblighi relativi alla prestazione di servizi di investimento.
La decisione interviene nell’ambito della lunga saga del contenzioso in materia di derivati tra banche ed enti locali che in questi anni ha visto coinvolti, ad ogni livello, gli organi giurisdizionali italiani; anche i fatti a fondamento della fattispecie presa in esame sono molto rilevanti, in quanto del tutto analoghi ad altri casi su cui i il Consiglio di Stato, la Corte di Cassazione ed alcune Corti di Appello sono state chiamate a decidere.
Il primo quesito posto al giudice inglese consisteva nel verificare se i contratti derivati costituiscano o meno indebitamento ai sensi dell’art. 119, 6 co, della Costituzione (anche sotto il profilo dell’incorporamento, in caso di ristrutturazione di un derivato, del valore del mark to market del precedente contratto nel nuovo derivato) e se, quindi, questi rappresentino o meno una forma di finanziamento in violazione del precetto costituzionale ora richiamato. Al vaglio del giudice è stata posta poi la questione relativa all’interpretazione da dare al dettato dell’art. 41, 2 co, della L. 448/2001 in relazione al c.d. principio di convenienza economica in caso di ristrutturazione del debito dell’ente locale. Al riguardo, è stata sollevata l’argomentazione (cavallo di battaglia di molti enti pubblici negli ultimi anni) per cui, posto che il derivato alla data di sottoscrizione presenta generalmente un valore di mark to market negativo per l’ente, e tale valore non è stato oggetto di disclosure da parte della banca (ricordando che qui si tratta di contratti stipulati in regime pre-mifid, quindi precedenti al 1 novembre 2007, data di implementazione del regime mifid in Italia), lo stesso non viene preso in considerazione ai fini dell’analisi di convenienza economica di cui all’art. 41, 2 co, con la conseguenza che il derivato di riferimento non risulterebbe conveniente per l’ente, in quanto portatore di asseriti costi c.d. occulti a carico di quest’ultimo ed altrettanti guadagni non giustificati per la banca. Di qui, l’ulteriore corollario della violazione da parte delle banche degli obblighi informativi e di trasparenza ai sensi del TUF e della regolamentazione Consob che, tuttavia non vengono affrontati nel caso in esame.
Infine, la terza tematica analizzata dal giudice, anch’essa ricorrente nel quadro giurisprudenziale nazionale, è quella relativa all’interpretazione da dare alle previsioni di cui all’art. 3 del Decreto Ministeriale 389/2003 in tema tra gli altri di valori del cap e del floor rispetto ai derivati con strutture collar, di cui parleremo più diffusamente nel proseguo.
Rispetto a questi temi, tutti esaminati nella prima parte della sentenza in commento, il giudice conclude affermando che gliswaps sottoscritti dal Comune di Prato “non hanno violato la normativa finanziaria italiana che regola l’operatività degli enti locali” e che “le difese sollevate da Prato in relazione a dette tematiche, inclusi gli argomenti secondo cui Prato non aveva i poteri per stipulare gli swaps in questione, sono conseguentemente infondati”.
Nella seconda parte della sentenza, invece, carente a nostro avviso sotto l’aspetto della motivazione sottesa alla decisione raggiunta, la Corte si occupa, dell’applicazione rispetto agli swaps per cui è causa dell’art. 30, 6 e 7 co, TUF, ovvero dell’inclusione nei suddetti contratti della clausola sul diritto di recesso in favore dell’investitore, ritenendo gli stessi nulli stante l’assenza della clausola in questione.
Nel tentativo di offrire al lettore un utile strumento di orientamento, è interessante in questo contesto notare l’approccio tenuto dalla Corte inglese rispetto alla disamina di questioni attinenti squisitamente al diritto italiano. Secondo il diritto inglese, infatti, ogniqualvolta un giudice inglese sia chiamato a statuire su una legge straniera (nel caso di specie quella italiana), le relative questioni di diritto straniero devono essere trattate ed interpretate come “questioni di fatto”, sulla base di specifiche consulenze tecniche rese da esperti all’uopo nominati dalle rispettive parti. Il giudice inglese quindi è chiamato a decidere quale tra le prove (i.e. le relazioni degli esperti) addotte dalle parti risulti “in fatto” più convincente: leggendo la sentenza ci si accorge infatti che il giudice inglese formula le proprie conclusioni attenendosi esclusivamente a quanto riportato nel processo dagli esperti di diritto civile, amministrativo e finanziario, e propendendo per le tesi sostenute dall’una o dall’altra parte a seconda dell’esperto che sia risultato a suo avviso più persuasivo.
In chiusura, e per fornire un panorama completo dell’attuale stato dell’arte della giurisprudenza inglese formatasi in materia, si richiama l’attenzione del lettore su alcune recenti pronunce dell’Alta Corte inglese, vertenti su fatti e tematiche analoghi a quelli oggetto della sentenza in commento ed aventi come controparti enti locali italiani, ed in particolare:
1) la competenza della corte inglese rispetto ai tribunali italiani in virtù della clausola di giurisdizione esclusiva presente nell’ISDA Master Agreement in essere tra le parti (v. Depfa Bank Plc v Provincia di Pisa, in data 25 maggio 2010 e UBS v. Regione Calabria, in data 23 marzo 2012);
2) il legittimo affidamento della banca rispetto alle dichiarazioni generalmente contenute nell’ISDA Master Agreement (Sezione 3, come modificata dalle rispettive Schedule) – e spesso oggetto di contestazione da parte degli enti locali[1] – in cui l’ente ha dichiarato tra l’altro (i) di avere i poteri necessari per concludere le operazioni di swap, di eseguire le relative prestazioni e di aver ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie a tal fine; (ii) di aver fornito alla banca, su richiesta di quest’ultima, le informazioni relative alla propria esperienza in derivati over the counter (oggetto di causa), alla sua situazione finanziaria ed ai suoi obiettivi d’investimento; dove (a) era previsto che l’esecuzione degli swaps di riferimento non violassero alcuna normativa applicabile all’ente e/o i relativi documenti costituzionali, e che le obbligazioni derivanti dall’ISDA Master Agreement fossero valide e vincolanti per l’ente stesso; (b) l’ente ha dichiarato di aver effettuato autonomamente le proprie scelte d’investimento, anche sulla base di consulenze esterne; (c) era previsto che nessuna delle comunicazioni intercorse tra le parti potevano considerarsi garanzia di risultato futuro atteso rispetto ai singoli swap (ciò anche con riferimento a temi noti quali ilmark to market ed i presunti costi impliciti dei derivati) (v. Dexia vs. Provincia di Crotone, in data 8 maggio 2015);
3) rispetto alla presunta violazione di norme del diritto italiano da parte della banca nel concludere i derivati con l’ente locale, è stato ritenuto tra l’altro che: (i) con riferimento al c.d. test di convenienza economica di cui all’art. 41 l. 448/2001, quest’ultimo in sé non specifica o limita il tipo di contratti derivati che possono essere stipulati né indica che gli stessi per essere validi devono raggiungere il risultato di contenere il debito pubblico; (ii) riguardo alla contestazione secondo cui l’art. 3 (2)(f) del Decreto 389/2003 sarebbe tra l’altro finalizzato ad evitare che i pagamenti più ingenti siano concentrati in prossimità della scadenza del contratto, il giudice inglese ha ritenuto che l’articolo in questione non contiene una previsione espressa relativa al profilo di ammortamento dello swap, ma solo che uno swap di ammortamento sia concluso con intermediari che abbiano un adeguato merito di credito, (iii) il Decreto 389/2003 non richiede un’equivalenza tra il valore del cap ed il valore del floor, né a maggior ragione che ove detta equivalenza non sussista il derivato debba ritenersi invalido; (iv) la previsione di cui al c.d. documento rischi (allegato 3) del vecchio regolamento intermediari Consob, secondo cui at inception il valore dello swap deve essere pari a zero, deve essere interpretato nel senso di ritenere che se in astratto alla conclusione del contratto nessuna parte deve corrispondere all’altra alcun pagamento, il derivato può velocemente (i.e. un minuto dopo la sua conclusione) produrre un profitto o una perdita per l’una o per l’altra parte. In ogni caso, tale allegato non prevede che a fronte di un eventuale sbilanciamento di flussi per l’una o per l’altra parte il derivato debba ritenersi invalido (Dexia v. Regione Piemonte, in data 9 ottobre 2014; v. anche HSH Nordbank AG v Intesa Sanpaolo S.p.A., in data 31 gennaio 2014).
Significativamente, in nessuno dei casi in questione, le Corti inglesi hanno dovuto occuparsi dell’ambito di applicazione del diritto di recesso previsto dal Testo Unico, perché, a quanto risulta, in nessuno dei casi menzionati la parte convenuta aveva eccepito la mancanza del diritto di recesso nelle clausole contrattuali rilevanti.
2. I fatti e le difese delle parti nel giudizio inglese
La sentenza in commento ha ad oggetto un contenzioso di origini assai remote, risalente agli anni 2002 – 2006, epoca in cui Dexia Crediop S.p.A. ed il Comune di Prato hanno concluso sei contratti derivati di tipo interest rate swap a copertura dell’indebitamento dell’Ente.
In estrema sintesi questa è la sequenza dei fatti.
Nel corso del 2002, il Comune valutava la possibilità di procedere a politiche di ristrutturazione del debito anche attraverso l’utilizzo di strumenti finanziari derivati, quali strumenti alternativi rispetto a quelli tradizionalmente usati. Sulla scorta di questa esigenza, l’amministrazione comunale provvedeva ad indire una procedura competitiva funzionale alla individuazione di un advisor del Comune nella definizione delle strategie di possibile trasformazione dell’indebitamento e nell’assistenza, consulenza e gestione in operazioni di interest rate swap ed a nominare, altresì, una commissione tecnica, composta tra l’altro anche da consulenti esterni, deputata alla valutazione delle proposte di ristrutturazione che sarebbero state presentate dai vari partecipanti (sette banche) alla selezione (proposte tra l’altro successivamente riformulate su indicazione della stessa commissione tecnica).
A conclusione di detta procedura, Dexia fu nominata advisor del Comune di Prato nella definizione delle strategie di possibile trasformazione dell’indebitamento e nell’assistenza, consulenza e gestione in operazioni di interest rate swap. Nel mese di novembre dello stesso anno Dexia ed il Comune sottoscrivevano l’ISDA Master Agreement, e relativa Schedule (contenente la clausola di giurisdizione esclusiva a favore delle corti inglesi), sotto l’ombrello del quale le parti concludevano un mese dopo il primo interest rate swap a copertura di posizioni debitorie preesistenti (mutui) del Comune, mediante scambio di proposta (proveniente dal Comune) ed accettazione (da parte di Dexia) (modalità questa poi reiterata per ciascuno dei sei swaps). In sostanza con questa prima operazione, il Comune “sostituiva”, attraverso l’operazione in derivati, il tasso fisso sui mutui, con un tasso fisso inferiore “con soglia”, oltre la quale l’Ente avrebbe pagato un tasso variabile.
Nel corso del 2003, il Comune, decideva di procedere ad un ristrutturazione dello swap del 2002, mediante estinzione anticipata di quest’ultimo e contemporaneo perfezionamento di nuova operazione di interest rate swap, a fronte del mutato paniere di mutui sottostanti al primo swap, e di concludere altresì un’ulteriore operazione di swap su altri mutui bancari dell’ente,con l’obiettivo di un più efficiente bilanciamento del rischio di tasso di interesse.
Nel 2004, poi, il Comune si determinava a trasformare radicalmente l’indebitamento sottostante agli swap conclusi nel corso del 2003, mediante estinzione dei mutui in essere e contestuale loro rifinanziamento tramite emissione di buoni ordinari comunali (interamente sottoscritti da Dexia) e sostituzione di uno dei due swaps conclusi nel 2003, con 2 swaps di copertura dei suddetti BOC.
La logica sottesa all’operazione era, tra l’altro, quella di coprire, attraverso gli swaps, il rischio di rialzo dei tassi, in un momento storico caratterizzato da tassi al minimo, in vista di una possibile loro crescita, con l’obiettivo di mantenere quindi il costo del debito a livelli di mercato.
Infine, nel 2006, il Comune, anche a seguito della rinegoziazione dei prestiti obbligazionari sopra citati, ritenne opportuno procedere alla ristrutturazione delle operazioni in derivati in essere con Dexia, a copertura dei sopra citati prestiti obbligazionari e di mutui bancari; vennero così ristrutturati, mediante estinzione anticipata, i due swap conclusi nel 2004 a valere sui BOC e lo swap del 2003 a copertura dei mutui, e contestualmente perfezionata un’unica nuova operazione di interest rate swap a valere sui medesimi sottostanti per la copertura dal rialzo dei tassi.
Sulla base di questi elementi di fatto, in sintesi, Dexia ha chiesto nel giudizio inglese che lo swap 2006 venisse dichiarato valido efficace e vincolante nei confronti delle parti, richiedendo il pagamento di quanto dovuto ai sensi dello stesso. In alternativa, ove lo swap 2006 fosse stato dichiarato invalido o inefficace, Dexia ha chiesto al giudice inglese di dichiarare Prato vincolato ai sensi dei precedenti swap (terzo, quarto e quinto), sul presupposto che in caso di invalidità dello swap 2006, i suddetti swap non sarebbero stati estinti.
Il Comune di Prato ha dal canto suo chiesto che gli swaps fossero ritenuti non vincolanti nei suoi confronti o, in alternativa, che non dovessero essere eseguiti sulla base, tra le altre difese, della presunta assenza di poteri in capo al Comune di concludere gli swaps, e del fatto che l’esecuzione delle obbligazioni da parte di Prato ai sensi degli swap sarebbero avvenute in violazione della legge italiana applicabile, anche ai sensi della Convenzione di Roma (art. 3.3). Inoltre, Prato ha chiesto in riconvenzionale la restituzione delle somme corrisposte ai sensi dello swap 2006, ove dichiarato invalido o inefficace, ed il risarcimento dei danni in relazione alle presunte violazioni da parte di Dexia della legge e regolamentazione applicabile in materia di intermediazione finanziaria.
Svolte queste premesse, passiamo ora ad analizzare il contenuto della sentenza.
3. Gli swaps non costituiscono indebitamento ai sensi dell’art. 119, 6 co, della Costituzione
Com’è noto, l’art. 119 della Costituzione detta principi generali in tema di autonomia finanziaria di entrata e di spesa degli enti locali; in particolare, ai fini che qui interessano, il comma 6 prevede che i Comuni, le Province e le Regioni possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento. La domanda centrale che segue a questo principio generale, sottoposta al giudice inglese, è se gli swaps costituiscono “indebitamento” ai fini e nell’ambito dell’art. 119, 6 co., così come sostenuto da Prato e negato invece da Dexia in giudizio.
Per rispondere alla domanda, il giudice parte dall’analisi della sentenza della Corte Costituzionale n. 425/2004, citata dagli esperti di entrambe le parti, a mente della quale al fine di determinare cosa costituisca “indebitamento” ed “investimento” ai fini dell’art. 119 Cost., 6 co, non è sufficiente attenersi al solo dato letterale della norma, bensì è necessario tener conto di quanto al riguardo previsto dal legislatore, deputato in linea generale a stabilire i contenuti di detti concetti anche alla luce dei criteri vigenti in ambito europeo ai fini del controllo del deficit pubblico. E ciò il legislatore italiano ha fatto nell’ambito dell’art. 3, paragrafi 16-19, della Legge 350/2003. Alla luce di tali indicazioni, la domanda successiva che il giudice inglese si pone è quindi quella di verificare se gli swaps rientrano nella definizione di indebitamento di cui all’art. 3, paragrafo 17, della Legge 350/2003.
Com’è noto, l’art. 3, comma 17 della L. 350/2003, specifica quali operazioni finanziarie costituiscano per gli enti locali “indebitamento” agli effetti dell’art. 119, 6 co, Cost., e questo elenco, secondo l’opinione della Corte inglese, non include i derivati. Opinione rafforzata dalla circostanza che nel 2008, tale elenco è stato parzialmente modificato dall’art. 62 D.L. 112/2008, come convertito dalla l. 133/2008, come successivamente modificato dalla l. 203/2008 e dall’art. 1, comma 572, l. 147/2013 (l’Art. 62), includendo “l’eventuale premio incassato al momento del perfezionamento delle operazioni derivate”, e quindi esclusivamente tale componente del contratto derivato ma non il contratto stesso. Questa modifica è anche a parere di chi scrive molto significativa perché conferma che la lista delle operazioni che devono essere considerate indebitamento ai fini dell’art. 119, 6 co, Cost. contenuta nell’art. 3, comma 17 della L. 350/2003 è a contenuto esaustivo, e non meramente esemplificativo, e non lascia dunque spazio all’inclusione di ulteriori operazioni che non siano ivi tassativamente elencate. D’altronde, se così non fosse, non avrebbe avuto alcun senso modificare nel 2008 la Legge 350/2003: tale intervento era infatti necessario per includere nella lista di cui all’art. 3 in commento una specifica tipologia di operazioni che prima evidentemente non vi rientrava.
A ciò si aggiunga che né il legislatore né la giurisprudenza o la dottrina hanno mai fornito una definizione specifica di “indebitamento”, ciò che rende l’art. 3 in commento ancor più prezioso, per non dire indispensabile, ai fini della corretta interpretazione della portata dell’art. 119, 6 co: portata che, ad avviso chi scrive, non va oltre il dato normativo dell’articolo de quo che autorizza appunto gli enti locali “a ricorrere all’indebitamento” – i.e. a porre in essere quelle operazioni che sono classificate tali dall’art. 3, comma 17 – “solo per finanziare spese di investimento” – i.e. gli investimenti definiti tali dall’art. 3, comma 18.
Il giudice inglese sposta poi la sua attenzione sulla risoluzione della Corte dei Conti n. 49/2011, avente ad oggetto l’applicabilità del limite all’indebitamento da parte di un ente locale ad una particolare forma di leasing immobiliare c.d. in costruendo, che la Corte dei Conti qualifica come contratto “misto” che ha come principale finalità la costruzione di un’opera, ma che comprende anche un’importante componente di finanziamento (in questo senso la Corte individua il pagamento del relativo canone di leasing non quale “corrispettivo per la locazione del bene, quanto una modalità pattizia per la restituzione di un finanziamento che si presuppone avvenuto per una somma corrispondente al valore dell’operazione economica posta in essere”). Rispetto al contenuto della risoluzione, invocata da entrambe le parti, ma in senso diametralmente opposto, la Corte inglese osserva quanto segue.
In primo luogo, il giudice evidenzia come la Corte dei Conti in quell’occasione abbia precisato come l’art. 3, comma 17, della Legge 350/2003 stabilisce nei confronti degli enti locali quali operazioni finanziarie costituiscono indebitamento, agli effetti dell’art. 119, 6 co, Cost., concludendo che in tale elenco non sono contemplati i contratti di leasing finanziario. Il giudice si sofferma poi su un passaggio della risoluzione in commento – sulla base del quale Prato asserisce che il comma 17 in commento conterrebbe una lista meramente esemplificativa di operazioni che devono essere considerate indebitamento – dove si legge: “una interpretazione formale sulla base del tenore meramente letterale della norma si porrebbe in contrasto con la ratio della stessa, non assoggettando al limite di indebitamento operazioni che sostanzialmente ne hanno la natura. Può quindi ritenersi che la disposizione di cui al citato comma 17 con le parole “assunzione di mutui”, abbia voluto ricomprendere le diverse fattispecie nelle quali si fa ricorso a finanziamenti e quindi anche lo schema di contratto misto in questione possa essere annoverato tra le forme di indebitamento ammesse”; al riguardo il giudice inglese osserva come, se è vero che la Corte dei Conti rispetto all’elenco di cui al comma 17 abbia da una parte assunto un approccio letterale-formale e dall’altra un approccio sostanziale, e quindi in astratto opposto, è pur vero che ciò ha fatto focalizzando la propria attenzione sull’inciso “assunzione di mutui” sul presupposto però che il leasing finanziario all’esame della Corte stessa fosse in sostanza identificabile come un mutuo (analogia non operabile nel caso degli swaps).
In secondo luogo, a fronte delle argomentazioni mosse dalla difesa di Prato rispetto ad un riferimento, contenuto nella risoluzione in commento, alla presenza di un elemento di rischio nell’operazione di leasing finanziario identificabile con il pagamento delle rate del relativo canone da parte dell’ente, che comporterebbe l’inclusione di questo nella lista di cui al comma 17 (facendo quindi indirettamente riferimento ai pagamenti dovuti da Prato ai sensi degli swaps), il giudice inglese precisa come “nell’identificare la sostanza dell’operazione nella circostanza che all’ente locale è stato concesso un finanziamento al fine di acquistare un’immobile, la Corte dei Conti fa riferimento al rischio relativo al completamento ed alla gestione dell’intero progetto cui il leasing immobiliare è collegato, piuttosto che al rischio da parte dell’ente di essere obbligato al pagamento dei canoni. Il punto raggiunto dalla Corte dei Conti è dunque quello per cui il contratto di leasing finanziario immobiliare c.d. in costruendo è una forma di mutuo (e non semplicemente un leasing) dove l’ente pubblico corre anche il rischio di portare a compimento l’opera finanziata.” Secondo il giudice inglese, infatti, è possibile riconoscere che nel precetto di cui all’art. 119, 6 co, Cost non possono essere ricompresi tutti i casi in cui un ente locale assuma un’obbligazione di pagamento, perché se così fosse l’ente violerebbe il precetto costituzionale in questione anche nel caso ad esempio di corresponsione degli stipendi ai suoi impiegati o del pagamento di un premio assicurativo ai sensi di un contratto di assicurazione.
Da ultimo, il giudice inglese non condivide la posizione del Comune di Prato laddove quest’ultimo sostiene che la modifica operata dall’art. 62 D.L. 112/2008, come modificato, mediante la quale è stato incluso nella definizione di indebitamento di cui al comma 17 l’eventuale upfront corrisposto al momento della sottoscrizione di un contratto derivato, costituirebbe un semplice chiarimento alla norma in questione, dal quale desumere che gli swaps rientrano (e sono sempre rientrati) nell’elenco suddetto. Secondo il giudice infatti, gli swaps di cui al caso di specie non costituiscono nella sostanza un mutuo con relativa obbligazione di pagamento in capo al Comune di Prato: questo assunto potrebbe in teoria valere, secondo il giudice, solo se fosse dimostrabile che l’upfront corrisposto ai sensi di un contratto derivato fosse identificabile nella sostanza come un contratto di mutuo, e quindi ricompreso, seguendo il ragionamento della Corte di Conti, nelle parole “assunzione di mutui” di cui al comma 17. Al contrario, ciò che secondo la Corte inglese è cambiato a seguito della modifica legislativa, è che non è stato più necessario da quel momento in poi compiere questo sforzo ermeneutico: infatti se il derivato in sostanza prevede il pagamento di un upfront all’atto della sottoscrizione, allora e solo in questo caso, in virtù della modifica legislativa di cui all’art. 62, tale componente costituisce espressamente indebitamento ai fini dell’art. 119, 6 co, Cost. Tale ragionamento, come riconosciuto dal giudice inglese, è peraltro suffragato da altra decisione della Corte dei Conti (Sicilia) n. 1891/2009 secondo la quale, prima della modifica legislativa, la corresponsione di un upfront non ricadeva nel precetto costituzionale di cui all’art. 119, 6 co.
In conclusione, sulla base delle argomentazioni sopra riportate, la Corte inglese ha ritenuto, a nostro avviso correttamente, che gli swaps non sono ricompresi nella definizione di indebitamento di cui all’articolo 119, 6 co, della Costituzione in quanto essi non sono inclusi nella lista, di natura tassativa, di fattispecie di debito di cui all’articolo 3, 17 co., della Legge 350/2003, e più significativamente non possono essere qualificati quali mutui. Al riguardo, il giudice inglese ha osservato che nessuno degli elementi sostanziali che caratterizzano le fattispecie di debito richiamate dall’art. 3, 17 co., della Legge 350/2003, è presente negli swaps. In particolare, la posizione del Comune negli swaps, in termini di ammontare nozionale da corrispondere alla banca, non è “fissa o cristallizzata” a partire dalla conclusione del contratto sino alla scadenza; e ancora, non vi è un obbligo certo a carico dell’ente di corrispondere somme alla banca, poiché i relativi pagamenti ai sensi degli swaps dipendono dal corso dei flussi monetari durante la vita dei relativi contratti, così come non vi è un versamento iniziale di contante a titolo di nozionale (analoga alla somma finanziata in un mutuo) da parte della banca in favore del Comune, né un’eventuale ristrutturazione degli swaps creerebbe debito a carico dell’Ente. Sotto quest’ultimo profilo, la sentenza arriva ad evidenziare che neppure quando uno swap che ristrutturi lo swap precedente, incorpora il mark to market negativo della precedente operazione poi ristrutturata, esso costituisca un finanziamento e simmetricamente un debito per l’ente per ragioni analoghe a quelle prima identificate.
Per tutte queste ragioni, il giudice inglese conclude che nessuno degli swap per cui è causa può essere qualificato nella sostanza come un mutuo/finanziamento (i.e. indebitamento) e conseguentemente, nel sottoscrivere ed eseguire gli swaps, non vi è stata violazione dell’art. 119, 6 co, Cost.
In chiusura si evidenzia che il concetto di indebitamento, con riferimento ai contratti derivati e dunque alla circostanza che questi rappresentino o meno per l’ente locale una “passività”, è stato chiaramente individuato anche dal MEF nei documenti interpretativi prodotti a commento dell’art. 41 L.448/2001 e del relativo Decreto Interministeriale d’implementazione n. 389/2003. In particolare, occorre riferirsi alla Circolare MEF, esplicativa del predetto decreto, che nel delimitare le operazioni in derivati che potevano essere stipulate dagli enti locali a copertura di rischi di tasso derivanti da “indebitamenti/passività” sottostanti (si noti come il termine “indebitamento” sia utilizzato nel decreto e nella circolare come sinonimo di “passività”), ha precisato che: “(…) nessun derivato è configurabile come una passività”.
A conferma dell’impossibilità di configurare i derivati come passività, si evidenzia altresì che lo stesso MEF, con propria Circolare del 28 Giugno 2005 di applicazione dell’art. 1, comma 71 della Finanziaria 2005, nell’elencare gli elementi e le modalità per il calcolo della riduzione del valore finanziario delle passività, non fa alcuna menzione dei derivati. E ancora, la Circolare MEF del 22 giugno 2007 (G.U. 151) relativa alla non applicabilità delle delegazioni di pagamento alle operazioni in derivati concluse da enti territoriali identifica i derivati come “strumenti di gestione del debito e non come indebitamento”[2].
4. Gli swaps non contravvengono alle disposizioni di cui all’articolo 41, 2 co. della Legge 448/2001 – il mark to market o i c.d. costi impliciti degli swaps sono irrilevanti ai fini dell’analisi di “convenienza economica” poiché non rappresentano costi effettivi corrisposti dall’ente locale
All’esame della Corte inglese è stato sottoposto l’ulteriore quesito se gli swaps siano stati conclusi in violazione o meno dell’articolo 41, 2 co., della Legge 448/2001. Il giudice si è pronunciato nel senso di escludere che gli swaps in questione siano stati sottoscritti in violazione del suddetto articolo, ritenendo, tra l’altro (in linea con quanto deciso dal Consiglio di Stato nel caso Pisa – sentenze n. 5628/2011 e 5962/2012 – e dalla Corte di Appello di Milano nel caso del Comune di Milano, con sentenza n. 1937/2014) che il c.d. test di convenienza economica di cui all’art. 41, 2 co., non sia applicabile agli swaps isolatamente, ma solo nell’ambito della valutazione economica complessiva di un’operazione di ristrutturazione del debito a cui (alcuni degli) swaps sono collegati, mediante assunzione di nuovo debito.
Di seguito si illustrano le ragioni enucleate nella sentenza a supporto di tale conclusione.
Il primo comma dell’art. 41, di cui si tralascia ai fini del presente articolo la disamina, si limita a enunciare il principio generale per cui è attribuito al MEF il compito di approvare, tra l’altro, norme ad hoc per l’utilizzo di strumenti derivati da parte degli enti locali al fine di contenere il costo dell’indebitamento e di monitorare gli andamenti di finanza pubblica.
Il secondo comma, oggetto di valutazione da parte del giudice inglese, così dispone: “fermo restando quanto previsto nelle relative pattuizioni contrattuali, gli enti possono provvedere alla conversione dei mutui contratti successivamente al 31 dicembre 1996, anche mediante il collocamento di titoli obbligazionari di nuova emissione o rinegoziazioni, anche con altri istituti, dei mutui, in presenza di condizioni di rifinanziamento che consentano una riduzione del valore finanziario delle passività totali a carico degli enti stessi, al netto delle commissioni e dell’eventuale retrocessione del gettito dell’imposta sostitutiva di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, e successive modificazioni”.
Ad avviso di chi scrive, la norma, enunciando il c.d. principio di “convenienza economica”, autorizza dunque gli enti locali a convertire il proprio debito derivante da mutui contratti successivamente al 31 dicembre 1996, a patto che il valore delle passività post ristrutturazione sia inferiore al valore delle passività ante ristrutturazione. Il presupposto per l’applicazione del principio di convenienza economica di cui all’Art. 41, 2 co, è dunque, a nostro avviso (ma anche secondo il giudice inglese), che un mutuo esistente sia convertito, cioè estinto mediante contrazione di un nuovo debito[3].
E sia consentita qui una breve digressione circa i presupposti per l’applicazione del principio di convenienza economica di cui all’Art. 41, 2 co, che traggono la loro essenza dalla genesi storica di tale articolo, che ne giustifica la portata e consente di comprenderne appieno la finalità. Infatti, l’Art. 41 viene concepito nel 2001 (entrando poi in vigore il 1 gennaio 2002), anno in cui si registrò una forte discesa dei tassi d’interesse. Di talché gli enti locali, i cui portafogli includevano per lo più mutui a tasso fisso, si trovarono nella necessaria condizione di rinegoziare detti mutui per usufruire di condizioni economiche più agevolate presenti nel mercato dell’epoca. L’articolo in commento consentì quindi agli enti locali di convertire i predetti mutui (ove contratti successivamente al 31 dicembre 1996), anche mediante il collocamento di titoli obbligazionari di nuova emissione o rinegoziazioni del debito a patto che detta manovra fosse mirata a, e dunque consentisse, una riduzione del valore finanziario delle passività totali a carico dell’ente. E’ dunque in questo perimetro che il c.d. principio di convenienza economica trae la sua origine e deve dunque essere ricompreso ed osservato.
Tornando al contenuto della sentenza, la Corte apre il dibattito evidenziando come il principio di convenienza economica fosse applicabile ai derivati, solo a certe condizioni:
(a) la prima: che sia attuata la conversione di un debito esistente, mediante estinzione del medesimo e contrazione di un nuovo debito. Al riguardo il giudice inglese ha precisato che lo scopo dell’art. 42, 2 co, è quello di consentire nuovo indebitamento da parte dell’ente locale sul presupposto di una ristrutturazione del debito preesistente. A supporto di tale tesi, la Corte inglese cita le sentenze rese (i) dal Consiglio di Stato nel caso Pisa, che sul punto hanno precisato come i derivati fossero (e dovessero essere considerati) strutturalmente collegati al debito sottostante al fine di raggiungere l’obiettivo di cui all’art. 41, 2 co; (ii) dalla Corte di Appello di Milano in sede penale nel caso del Comune di Milano, la quale ha ribadito che dalla lettura dell’art. 41, 2 co, si evince che il test di “convenienza economica” si applica solo in caso di rifinanziamento di mutui preesistenti, ma non rispetto alla possibile isolata rinegoziazione dell’eventuale derivato collegato a detti mutui, e che la regola impone che venga valutata post-ristrutturazione l’effettiva e complessiva riduzione del debito. Per tali ragioni, il giudice ha escluso che derivati costituenti mere ristrutturazioni del derivato precedente in assenza di rifinanziamento del debito sottostante, debbano soddisfare il requisito di cui all’art. 41, 2 co;
(b) la seconda, terza e quarta condizione secondo il giudice inglese prevedono, sul presupposto che il derivato sia strutturalmente collegato alla ristrutturazione di un debito,
(i) che siano analizzati i costi globali del rifinanziamento del debito, considerando il derivato quale parte integrale e sostanziale del rifinanziamento stesso;
(ii) che il derivato non possa essere esaminato isolatamente, ma solo nell’ambito dell’operazione di rifinanziamento nel suo complesso;
(iii) che ai fini dell’analisi di convenienza economica non debbano essere presi in considerazione né il mark to market ne i c.d. “costi impliciti” del derivato, siccome irrilevanti poiché teorici. A sostegno di tale tesi, di cui il giudice si fa portatore, viene citata la sentenza del Consiglio di Stato sul caso Pisa n. 5962/2012, nella quale viene spiegato che “i c.d. “costi impliciti” dello swap ….non rappresentano affatto un costo effettivo, vale a dire una somma effettivamente sostenuta dall’amministrazione provinciale, rappresentando soltanto il valore che lo swap avrebbe potuto avere in una astratta ed ipotetica (ma assolutamente irrealistica e non vera) contrattazione”[4] (affermazione poi condivisa anche dalla Corte di Appello di Milano nel caso Comune di Milano, la quale ha altresì precisato come (i) all’epoca dei fatti, i.e. nel regime pre-mifid, non sussisteva un obbligo a carico delle banche di scorporare ed esplicitare i costi del derivato e (ii) fosse a carico dell’ente l’onere di valutare la convenienza economica dell’operazione, inclusi i derivati ad essa collegati[5]).
La Corte inglese precisa altresì al riguardo che l’essenza della questione è che sono esclusivamente i termini commerciali dello swap (e cioe’ i tassi pattuiti) ad avere “un effetto continuativo nel tempo”. Non rileva, dunque, a questi fini il valore del mark to market nel giorno zero, né ha alcuna incidenza il fatto che il mark to market, o altro fattore di riferimento relativo al pricing del derivato, non sia stato comunicato, o non scorporato dal prezzo finale del derivato stesso. Se il requisito di convenienza economica è soddisfatto o meno dipende dunque esclusivamente dalla circostanza che i termini commerciali dell’operazione nel suo complesso.
Riassumendo, la sentenza conferma l’importante orientamento già espresso dal Consiglio di Stato nel caso Pisa secondo cui il mark to market degli swaps ed i c.d. costi impliciti non sono costi effettivi sostenuti dal Comune, ma esclusivamente valori teorici e, pertanto, in quanto tali, irrilevanti ai fini della valutazione di convenienza economica ex art. 41, 2 co, Legge 448/2001. Al riguardo, il Giudice ha confermato che l’unico elemento che rileva ai fini della suddetta valutazione sono gli importi effettivamente corrisposti dalle parti ai sensi degli swaps, sulla base dei tassi d’interesse ivi previsti. In tale prospettiva, il giudice nega quindi qualunque rilevanza alla sussistenza dei c.d. “costi impliciti”. Da tale principio segue l’ulteriore corollario, non espresso dal giudice inglese, ma implicitamente ricavabile dal ragionamento ora esposto, per cui non sussisteva all’epoca dei fatti, ovvero in regime pre-MIFID, alcun obbligo di discloure dei costi del contratto da parte della banca, o per meglio dire di scomposizione di tutti gli elementi costitutivi del prezzo finale del derivato.
5. Gli swaps sono conformi alle previsioni di cui all’art. 3 del D.M. 389/2003
Altro tema oggetto di analisi da parte del giudice inglese è quello relativo alla conformità o meno degli swaps alle previsioni di cui all’art. 3 del D.M. 389/2003, e relativa circolare esplicativa del MEF datata 27 maggio 2004.
In particolare, sono stati sottoposti all’attenzione del giudice gli art. 3.2(d), 3.2(f) e 3.3. del predetto decreto che rispetto alle operazioni in strumenti derivati consentite agli enti locali (in aggiunta a quelle prevista dal primo comma del medesimo articolo) prevedono: (i) ex art. 3.2(d), l’acquisto di “collar” di tasso d’interesse, laddove all’acquirente viene garantito un livello di tasso da corrispondere che oscilla tra un minimo (c.d. floor) ed un massimo (c.d. cap) prestabiliti; (ii) ex art. 3.2 (f), la conclusione di “altre operazioni derivate finalizzate alla ristrutturazione del debito, solo qualora non prevedano una scadenza posteriore a quella associata alla sottostante passività. Dette operazioni sono consentite ove i flussi con esse ricevuti dagli enti interessati siano uguali a quelli pagati nella sottostante passività e non implichino, al momento del loro perfezionamento, un profilo crescente dei valori attuali dei singoli flussi di pagamento, ad eccezione di un eventuale sconto o premio da regolare al momento del perfezionamento delle operazioni non superiore a 1% del nozionale della sottostante passività”; (iii) ex art 3.3,che “le operazioni derivate sopra menzionate sono consentite esclusivamente in corrispondenza di passività effettivamente dovute…”.
Orbene, rispetto all’art. 3.2(d), e’ stato sostenuto che in presenza di un collar, il valore del floor at inception dovesse essere uguale al valore del cap, basandosi su un passaggio della circolare interpretativa del MEF che indica come “è implicito nell’acquisto del collar l’acquisto di un cap e la contestuale vendita di un floor, consentita unicamente al fine di finanziare la protezione dal rialzo dei tassi di interesse fornita dall’acquisto del cap”. Il giudice ha ritenuto di non accogliere questa tesi per il semplice motivo che né il disposto dell’art. 3.2 (d) né tanto meno il passaggio della circolare ora citata impongono, o anche solo suggeriscono, un’equivalenza economica tra il valore del cap ed il valore del floor in un contratto derivato, laddove in ogni caso, evidenzia il giudice, non vi è inconsistenza tra il dettato dell’art. 3.2(d) che esclude la possibilità di vendere un floor senza l’acquisto di un cap e la circostanza che detti valori possano essere diversi.
La conclusione del giudice è condivisibile. Infatti, la circolare MEF non aggiunge alcun ulteriore requisito o particolare principio applicativo rispetto al Decreto 389, sull’utilizzo del cap e/o del collar da parte degli enti locali, limitandosi a chiarire che, nel caso di contratti derivati collar come quello in questione, la vendita del floor debba essere effettuata all’unico scopo di “finanziare la protezione dal rialzo dei tassi di interesse fornita dall’acquisto del cap”; la circolare, quindi, certamente non impone ad avviso del giudice inglese, che sussista alla data di conclusione del contratto un’uguaglianza, o anche solo un “ragionevole equilibrio”, tra i livelli di cap e di floor.
D’altronde, la ratio di questa previsione – contenuta, ricorda il giudice inglese, in un documento che ha pur sempre una valenza puramente esplicativa e dunque limitata a fornire delucidazioni sull’interpretazione da dare al Decreto 389 e non avente perciò stesso carattere giuridico vincolante- è evidente ed è quella di evitare che l’ente venda un floor a meri fini speculativi, senza alcun intento di copertura dei rischi finanziari. Tuttavia essa non ha alcuna attinenza con il preteso obbligo affermato dal Comune di una necessaria equivalenza finanziaria tra i due valori, in mancanza della quale gli swaps sarebbero stati gravati da un costo c.d. “implicito”.
Non può quindi che concludersi, secondo il giudice inglese, che la Circolare del MEF non si presta ad altre interpretazioni, e che se il MEF avesse voluto dare indicazione circa la necessita’ di un presunto valore di equivalenza tra il cap e il floor in un contratto swap con collar, certamente lo avrebbe fatto all’interno del Decreto 383.
Del resto, come sarebbe possibile desumere un obbligo di equivalenza economica di cap e floor? Occorre, infatti, domandarsi sulla base di quali criteri un giudice dovrebbe stabilire questa equivalenza. La legge non lo dice. Quale meccanismo si dovrebbe utilizzare per verificare questa equivalenza? La legge tace. Si dovrebbe fare una valutazione pre-contrattuale o post-contrattuale? E cosa succederebbe se l’equivalenza così verificata nel giorno uno scomparisse il giorno successivo, come è normale che sia nei contratti aleatori, come sono gli swaps in questione? Ovviamente nessuna norma fornisce risposta al riguardo semplicemente perché il principio dell’equivalenza economica delle prestazioni non esiste. Se esistesse, le norme ci avrebbero dato i riferimenti da utilizzare.
Analogamente, il giudice inglese esclude che gli swaps fossero contrari al requisito di cui all’art. 3.2 (f) del Decreto 389. Al riguardo, la Corte da un lato nega che gli swaps avessero un profilo di pagamento crescente tale da concentrare i potenziali flussi negativi per il Comune in prossimità della scadenza degli swaps medesimi; e dall’altro lato, ritiene che non vi sia stata violazione del divieto di versamento a favore del Comune di un up front in misura superiore all’1% del nozionale dello Swap di riferimento, sull’assunto che l’inclusione del mark to market del precedente swap nel nuovo swap non equivale in alcun modo al versamento di un up front. Rispetto a quest’ultimo punto, infatti, il giudice precisa come non vi sia traccia nel decreto o nella circolare di una qualche previsione che suggerisca che il mark to market di un derivato costituisca lo “sconto o premio” di cui all’art. 3.2 (f): al contrario, tale inciso indica soltanto, per usare le parole del giudice, “qualcosa che viene pagato”.
Infine, sulla base dell’art. 3.3. (a mente del quale le operazioni in derivati sono consentite esclusivamente in corrispondenza di passività effettivamente dovute), il giudice affronta le questione del se, in caso di variazione del debito sottostante, qualunque eventuale ristrutturazione del derivato di riferimento non debba implicare una perdita per l’ente, riferendosi al valore negativo di mark to market e/o ai costi impliciti del nuovo swap. Il giudice ha negato semplicemente che questo fosse il contenuto dell’articolo in questione, rilevando a buon diritto come non vi sia traccia nella legge italiana di una disposizione di tale portata.
6. Gli swaps in questione non hanno natura speculativa
Secondo il giudice inglese, gli swaps conclusi nella controversia in esame non hanno natura speculativa, i. La Corte ha sul punto confermato la posizione secondo cui se è vero che i derivati hanno un inerente carattere di rischiosità, tale caratteristica non li rende tout court speculativi quando, come nel caso di specie, essi hanno lo scopo di fornire copertura, c.d. hedging, rispetto alla passività sottostante dell’ente.
Sul punto è opportuno evidenziare che non solo l’art. 3 Del Decreto 389, sopra commentato, ma anche l’art. 1 della Legge Finanziaria 2007 ha specificato che le operazioni di gestione del debito degli enti locali tramite utilizzo di strumenti derivati possono essere concluse solo in corrispondenza di passività effettivamente dovute, avendo riguardo al contenimento dei rischi di credito assunti. A tale ultimo proposito, il fatto che il derivato sia collegato a “passività effettivamente dovute” é l’elemento centrale, anche ad avviso di chi scrive, per affermare che un derivato non sia speculativo.
Questa conclusione è stata anche confermata anche dalla Consob nella Comunicazione n. 99013791/99, dove la Commissione ha chiarito che un’operazione può essere considerata “di copertura” (e dunque non speculativa) quando, tra l’altro “sia elevata la correlazione tra le caratteristiche tecnico-finanziarie (scadenza, tasso d’interesse, tipologia etc.) dell’oggetto della copertura e dello strumento finanziario utilizzato a tal fine”, correlazione che ad opinione del giudice sussisteva nel caso di specie.
Da notare, in chiusura, che il profilo della speculatività di un contratto derivato nell’ambito della finanza pubblica, è stato spesso e più di recente collegato all’ulteriore argomentazione dell’asserita assenza di causa negli swaps. Al riguardo, si vuole qui evidenziare, come già[6] correttamente rilevato da attenta giurisprudenza, che il fine speculativo o di copertura di uno swap è di per sé irrilevante al fine di stabilire se quest’ultimo abbia o meno ha una valida causa, in quanto sia gli swap di copertura che quelli speculativi sono riconosciuti dall’ordinamento italiano come meritevoli di tutela e quindi aventi una causa lecita e tipica consistente “nello scambio di pagamenti il cui ammontare è determinato sulla base di parametri di riferimento diversi” (Cfr. Trib. Verona, 3 marzo 2010, in www. ilcaso.it.).
7. Osservazioni sull’applicabilità del diritto di recesso ex art. 30, 6 e 7 co, TUF
Sulla base dell’art. 3, comma 3, della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 (e successivo Regolamento CE 593/2008), il giudice inglese, nonostante la scelta delle parti di assoggettare gli swaps alla legge inglese in virtù della clausola di giurisdizione esclusiva contenuta nell’ISDA Master Agreement[7], ha ritenuto applicabile alle stesse (in quanto entrambe di nazionalità italiana) la legge italiana, ed in particolare l’art. 30, 6 e 7 co, TUF, quale norma di natura inderogabile: e ciò in considerazione del fatto che nella fattispecie tutti gli elementi dei contratti di swaps, ad eccezione appunto della legge inglese, sono collegati all’Italia, ovvero il paese nel quale entrambe le parti hanno sede, dove è stato intrattenuto il rapporto negoziale e dove sono stati conclusi ed eseguiti gli swaps.
Su tali presupposti, e sulla circostanza che Prato è stato classificato dalla banca quale cliente al dettaglio (in caso di classificazione quale cliente professionale infatti la norma, com’è noto, non avrebbe potuto in radice trovare applicazione), la Corte ha ritenuto che, ai sensi dell’art. 30, 6 e 7 co., del TUF, doveva essere dichiarata la nullita’ degli swap poiché gli stessi non contemplavano la facoltà di recesso in capo al Comune, nei setti giorni successivi alla stipula degli stessi.
La conclusione raggiunta dalla Corte inglese sul punto, senz’altro da ritenersi un caso isolato sia in Italia[8] che in Inghilterra, si basa sostanzialmente su un’interpretazione a nostro avviso del tutto parziale del contenuto della nota sentenza della Corte di Cassazione n. 13905/2013[9] sul diritto di recesso ex art. 30 TUF; leggendo la sentenza inglese si ha infatti l’impressione che il processo interpretativo seguito dalla Corte su questo particolare profilo difetti di alcuni collegamenti essenziali che rendono la decisione stessa spuria sotto molteplici profili.
Com’è noto, il principio generale enucleato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel caso citato, e che si basa su un’interpretazione estensiva e non esclusivamente letterale del termine “collocamento” di cui all’art. 30 TUF, è quello per cui il diritto di recesso ex art. 30, comma 6, del TUF, e la conseguente nullità dei contratti che non contemplano quel diritto, viene esteso non solo ai casi di vendita fuori sede, a clienti non professionali, di contratti conseguenti al servizio di collocamento di cui all’art. 1, 5 co, lett c) e c-bis) del TUF, ma anche di vendita fuori sede di strumenti finanziari nell’ambito dello svolgimento di qualsiasi tipo di servizio di investimento; a condizione che (anche in questo secondo caso) ricorra la stessa esigenza di tutela sottesa alla norma in questione, ovvero quella di rafforzare la tutela offerta al consumatore in situazioni in cui, come vedremo, si presume che questi non abbia avuto il tempo di effettuare una consapevole scelta d’investimento[10].
Il giudice inglese ha tuttavia estrapolato dalla massima ora enunciata la regola generale per cui sarebbe il rischio associato all’esecuzione di un contratto fuori sede che giustificherebbe l’applicazione dell’art 30, 6 e 7 co, poiché si presumerebbe che in tale circostanza l’investitore non abbia avuto tempo sufficiente per riflettere adeguatamente sulla sua scelta d’investimento. Secondo la Corte inglese è dunque la circostanza che l’operazione sia stata conclusa fuori dalla sede dell’intermediario che renderebbe tout court necessaria la maggior protezione accordata dalla norma, perché tale circostanza indicherebbe che generalmente l’iniziativa dell’investimento non proviene dall’investitore. Di qui l’ulteriore corollario per cui non sarebbe compatibile con la ratio della norma (e dunque non sufficientemente cautelativo per il consumatore) ritenere che l’applicazione o meno del diritto di recesso debba essere preceduta dall’analisi delle specifiche circostanze che di volta in volta si presentano, al fine di stabilire se l’investitore sia stato effettivamente colto di sorpresa e debba o meno essere messo nella condizione di potersi pentire del proprio investimento.
Su tali basi, la Corte inglese ha evidenziato che la “modalità” con cui il contratto viene concluso sarebbe per lo più irrilevante; altrettanto irrilevante sarebbe ad avviso del giudice inglese la circostanza che gli swaps siano stati predisposti sulla base delle specifiche esigenze indicate dal Comune (c.d. prodotti “tailor made”), durante le numerose negoziazioni che hanno preceduto la loro conclusione, ed autorizzati da apposite deliberazioni comunali. Di poco peso, infine, è stato anche ritenuto l’elemento della provenienza dell’iniziativa d’investimento, se cioè lo stesso sia stato effettuato a seguito di una specifica attività di promozione da parte dell’intermediario ovvero su richiesta dell’investitore, ciò in quanto a detta del giudice inglese la sentenza in commento non si sarebbe di fatto soffermata su questo profilo.
La conclusione raggiunta dalla Corte inglese, che sembra assumere più la veste di una regola “meccanica” applicabile sulla base di una presunzione generale che non ammette eccezioni (se un contratto è concluso fuori sede, questo deve contenere il diritto di recesso, perché si presume che in questo caso l’iniziativa “commerciale” non provenga dall’investitore e vi sia dunque il rischio che l’investitore non abbia avuto il tempo di riflettere adeguatamente sul prodotto offerto), impone qualche riflessione, poiché appare non aderente ad avviso di chi scrive né con il dato letterale dell’art. 30 TUF né con quanto affermato dalla Corte di Cassazione.
L’art. 30 TUF, intitolato “offerta fuori sede”, definisce tale (in sintesi) la promozione ed il collocamento presso il pubblico da parte di soggetti autorizzati (banche, sgr etc) di strumenti finanziari e di servizi ed attività di investimento in luogo diverso dalla sede dell’intermediario, e prevede la facoltà di ripensamento da parte dell’investitore entro sette giorni, facoltà da indicarsi “nei moduli o formulari consegnati all’investitore”, e la cui omissione comporta la nullità dei relativi contratti. Volendosi attenere per il momento al dato normativo, la facoltà di recesso presuppone quindi che (i) vi sia stata un’offerta di strumenti e/o servizi finanziari; (ii) che tale offerta sia stata formulata da un intermediario autorizzato al di fuori della propria sede e che l’offerta sia rivolta “al pubblico” sulla base di condizioni economiche più o meno prestabilite.
Sull’argomento la Cassazione si era già espressa nel 2012[11] individuando la ratio legis sottesa al diritto di recesso di cui al sesto comma dell’art. 30 TUF nell’esigenza di offrire una più ampia tutela a quegli investitori che avessero effettuato un investimento in prodotti finanziari non già recandosi presso la sede dell’offerente, bensì per essere stati da questo raggiunti al di fuori della sede stessa. Ciò in quanto, secondo la Cassazione, è intuitivo distinguere la posizione di “colui che si reca presso l’offerente con l’obiettivo di impiegare un risparmio [e che quindi per ciò stesso]ha maturato una propria convinta determinazione circa l’utilità dell’iniziativa adottata”, da chi decide di effettuare l’investimento per essere stato raggiunto dall’intermediario al di fuori della sede di quest’ultimo. Con la facoltà di recesso nei sette giorni successivi alla conclusione del contratto, secondo la Suprema Corte, “il legislatore ha dunque ritenuto di poter correggere le eventuali distorsioni negoziali derivanti dall’eventuale effetto sorpresa subito dall’acquirente”, con la conseguenza che “in tanto può trovare ragionevole applicazione la disciplina dello ius poenitendi in quanto si sia verificata una situazione in cui il risparmiatore sia stato esposto al rischio di assumere iniziative e prendere decisioni poco meditate” (enfasi aggiunta).
La successiva sentenza della Corte di Cassazione del 2013, oggetto di valutazione nel giudizio inglese, partendo dalla medesima ratio legis già espressa nel 2012, focalizza la propria attenzione sulla definizione del concetto di “collocamento” che viene ampliata al fine di ricomprendere nella più ampia tutela offerta dall’art. 30, 6 comma, anche servizi d’investimento diversi (cioè servizi che fino a quel momento non vi erano stati inclusi), a condizione che nello svolgimento degli stessi “ricorrala stessa esigenza di tutela” dei primi. La Corte di Cassazione ribadisce in questo contesto, con ciò in nulla discostandosi dalla precedente, che la ragion d’essere dello ius poenitendi di cui si discute s’identifica nella “circostanza che l’operazione di investimento si sia perfezionata al di fuori della sede dell’intermediario”, circostanza che rende necessaria “una speciale tutela per l’investitore al dettaglio …perché ciò significa che, di regola, l’iniziativa non proviene da lui”. “E’ logico cioè presumere” precisa la Corte di Cassazione “che in simili casi…l’investimento… costituisca il frutto di una sollecitazione proveniente [dal promotore]; sollecitazione che, perciò stesso, potrebbe aver colto l’investitore impreparato ed averlo indotto ad una scelta negoziale non sufficientemente meditata” (enfasi aggiunta). In questa logica, il diritto di recesso previsto dal sesto comma dell’art. 30 TUF mira appunto “a ripristinare, a posteriori, quella mancanza di adeguata riflessione preventiva che la descritta situazione potrebbe aver causato” (enfasi aggiunta); infatti, quando l’iniziativa all’investimento non provenga dall’investitore “ sussiste in ogni caso …il rischio che il medesimo investitore si sia trovato ad essere destinatario di una proposta che potrebbe averlo colto di sorpresa”.
La conclusione che si trae facilmente dalla lettura dell’art. 30 TUF (il cui dettato, almeno al primo comma, risulta tutt’altro che ambiguo) e della giurisprudenza ora citata è che in tanto il diritto di ripensamento potrà avere un senso, e quindi essere correttamente utilizzato, in quanto si sia di fronte ad un’offerta di strumenti o servizi finanziari su iniziativa dell’intermediario (e non viceversa su iniziativa del cliente), che abbia raggiunto l’investitore al di fuori dalla propria sede commerciale, cogliendolo effettivamente di sorpresa[12]: di fronte quindi ad un’offerta inaspettata, l’investitore potrebbe non aver avuto il tempo di meditare sufficientemente sulla bontà del proprio investimento ed avere dunque diritto a “ripensare” alla propria scelta siccome “indotta” dall’intermediario[13].
Se è dunque condivisibile sostenere che la Corte di Cassazione abbia voluto con la sentenza in commento ampliare il concetto di collocamento per massimizzare la tutela offerta al consumatore (a prescindere ad esempio dall’eventuale “fissità delle condizioni di vendita” oppure dall’esistenza di un pregresso accordo quadro tra l’intermediario ed il cliente), tuttavia tale esigenza non giustifica a nostro avviso il voler attribuire all’art. 30, 6 co, una portata applicativa più ampia, al punto da ricomprendervi anche situazioni in cui l’iniziativa all’investimento non provenga dall’intermediario, bensì dal consumatore: in questo caso, infatti, cadono i presupposti applicativi della norma ovvero l’iniziativa ad opera della banca e la presenza del rischio sorpresa a carico del consumatore. Del resto, tale interpretazione e’ confermata dall’esame della norma comunitaria da cui l’articolo 30 trae origine. La Direttiva 577/85 CEE che introdusse per prima il diritto di recesso del consumatore per i contratti conclusi fuori sede, escludeva l’applicabilita’ del recesso nelle ipotesi in cui il contratto concluso fuori sede derivasse da un invito iniziale o una richiesta fatta dal consumatore nei confronti della banca proprio perche’ in tale ipotesi veniva meno l’elemento della potenziale sorpresa a danno del consumatore.
E ciò appare ancora più vero se si consideri, a prescindere da ogni altra considerazione aderente al caso concreto, che l’elemento dirimente dell’effetto sorpresa non può per definizione sussistere nel caso di contratti conclusi dai enti locali, i quali possono procedere alla stipula solo dopo uno specifico (e non sempre breve) processo di approvazione, previsto ex lege, che richiede l’intervento di uno o più organi deliberanti muniti dei necessari poteri e che scongiura ab origine il “rischio sorpresa” che solo giustifica l’applicazione della facoltà di recesso. Il funzionamento burocratizzato della “macchina pubblica” è dunque incompatibile con le previsioni di cui all’art. 30 che mirano a proteggere l’investitore “sprovveduto” dalla conclusione di un contratto e/o dall’acquisto di un prodotto, sollecitato in maniera del tutto inaspettata e pertanto priva di quel necessario periodo di riflessione e valutazione che la norma è tesa appunto a garantire.
Appare quindi esercizio di non poco conto quello effettuato dal giudice inglese che ha invocato l’applicabilità del 30, 6 comma, in circostanze in cui sembra indubitabile sussistere l’iniziativa del cliente nei confronti della banca. Del resto, in identiche circostanze di fatto, la Corte di Appello di Bologna[14] ha raggiunto conclusioni opposte affermando l’inapplicabilità dell’art. 30, 6 co, TUF nel caso di un contratto derivato stipulato da un ente locale. La Corte d’Appello, richiamando peraltro le motivazioni espresse dalla Corte di Cassazione nella sentenza del 2013, ha escluso, alla luce delle complesse procedure previste per la stipula di contratti da parte degli enti locali, che la conclusione di un contratto da parte di un ente locale sia equiparabile a quella di un “consumatore sprovveduto che possa essere [stato] colto di sorpresa dall’intermediario”.
E’ dunque mancata, da parte del giudice inglese, quell’indagine tesa ad accertare se nel caso concreto, nello svolgimento di servizi diversi da quello del collocamento per così dire “puro”, l’attività di negoziazione in conto proprio di strumenti over the counter, determinasse “la stessa esigenza di tutela” che l’art. 30, 6 co, è sempre stato chiamato a soddisfare anche quando, il suo ambito di applicazione era limitato ai soli contratti conclusi mediante attività di collocamento in senso stretto.
[1] Ad esempio perché l’ISDA Master Agreement in questione è originariamente redatto in inglese (ma poi quasi sempre tradotto in italiano), o perché contiene termini non facilmente intellegibili o comunque generali e predefiniti e dunque non negoziabili – circostanza questa peraltro smentita dalla struttura contrattuale di tale accordo quadro che prevede che lo stesso possa essere oggetto di libera negoziazione tra le parti mediante apposita Schedule.
[2] Nuovamente, in data 7 ottobre 2011, il MEF tornava sul tema in relazione ad una vicenda sottoposta al suo esame dal Comune di Ferrara, concernente la rinegoziazione di due prestiti obbligazionari e la contestuale estinzione di una operazione di interest rate swap perfezionata a copertura dei medesimi. Nel fornire il proprio parere sulla percorribilità dell’operazione, il MEF ha affermato in modo cristallino che “l’articolo 41, comma 2, riguarda la rinegoziazione di mutui preesistenti…pertanto stando al tenore letterale della disposizione, essa sarebbe applicabile esclusivamente al debito propriamente inteso (segnatamente mutui ed obbligazioni) ma non anche ai contratti di swap che sono qualificati dalla normativa nazionale e dalle regole Eurostat non come debito ma come strumenti di gestione del debito, finalizzati a variare la valuta di denominazione del debito originario (nel caso di swap di tasso di cambio) o il tipo di tasso al quale sono indicizzati i flussi di interesse (nel caso di swap di tasso di interesse);… che gli swap non siano debito ma strumenti di gestione del debito è stato più volte ribadito anche da questa Direzione: al riguardo si veda la circolare esplicativa 22 giugno 2007 […]; – il giudizio di convenienza economica di cui all’art. 41, 2 co., della legge 448/2001 non è quindi applicabile all’ipotesi di stipula degli swap, bensì esclusivamente alla rinegoziazione di debiti attraverso nuovi debiti, nel qual caso la norma impone di valutare se, per effetto dell’avvenuta rinegoziazione, il costo del finanziamento si è ridotto”. Non sorprende, poi, che la Cassa Depositi e Prestiti, che pure ha disciplinato dettagliatamente le modalità di rinegoziazione e di rifinanziamento dei propri mutui con gli enti locali, non tenga in alcuna considerazione l’eventuale (anche se probabile) esistenza di derivati di copertura che insistano su mutui oggetto di rinegoziazione o di rifinanziamento. Le circolari della Cassa Depositi e Prestiti (in particolare, le Circolari nn. 1257 e 1262 del 2005 e Circolare n. 1265 del 2006) si limitano, infatti, ad indicare che l’ente locale che intenda procedere alla conversione dovrà selezionare i mutui che intende convertire in nuovi prestiti; ciò sta a dimostrare come, anche per la Cassa Depositi e Prestiti, l’eventuale convenienza del rifinanziamento del debito non può essere impedita, né aiutata, dall’esistenza di eventuali derivati di copertura ad esso preesistenti, concomitanti o successivi né tantomeno da eventuali differenziali negativi in essi presenti.
[3] Curiosamente, ma in maniera appropriata, il giudice inglese puntualizza al riguardo che la dicitura “convenienza economica” debba essere tradotta in inglese come “financial advantage” piuttosto che “economic convenience”, a rilevare che il principio di cui si discute è incentrato sul vantaggio finanziario che l’operazione contemplata dall’art. 41, 2 co. mira ad ottenere, piuttosto che sulla “convenience” che, tradotto in italiano, equivale a, e si limita ad indentificare, qualcosa di “utile” o “appropriato”.
[4] Il Consiglio di Stato ribadisce poi in un altro punto della medesima pronuncia, la “pur decisiva considerazione” della “impossibilità di parlare di “costi impliciti”, a proposito di quelli indicati dalle parti ….rappresentando [essi] il valore dello swap e non un costo effettivamente sopportato dall’amministrazione”.
[5] Sul punto interessante notare come la Corte d’Appello di Milano nel Caso Comune di Milano afferma che un ente pubblico sa, o deve sapere che tali “costi impliciti” hanno molto poco a che vedere con l’”occulto”; sa che i contratti swap “par” sono considerati, dalla prassi dei mercati internazionali, inesistenti in rerum natura; sa bene che, dopo aver determinato il livello di prezzo teorico (sulla base del quale il valore attuale delle prestazioni a carico di una parte è equivalente a quello delle prestazioni a carico dell’altra), tale valore è modificato al fine di tenere conto dei costi sostenuti dalla Banca nonché della componente di profitto che l’attività di intermediazione finanziaria richiede. Per la Corte d’Appello di Milano, gli addebiti relativi ai costi impliciti muovono, quindi, da un equivoco concettuale di fondo: “le Banche sono imprese di lucro e devono giocoforza guadagnare. Se offrissero i propri servizi gratuitamente, tradirebbero il loro oggetto sociale, guai se le autorità di vigilanza lo venissero a sapere”. Ne consegue che le componenti di prezzo sopra richiamate non possono essere considerate “costi impliciti”, ma piuttosto oneri legittimamente tenuti in considerazione da parte delle banche nel determinare il prezzo del prodotto. Conseguentemente, fermo restando quanto illustrato, l’esistenza o meno di c.d. “costi impliciti” è irrilevante, perché ciò che conta ai fini contrattuali civilistici è esclusivamente il prezzo concordato nel contratto.
[6] Il principio generale, sotteso a questa argomentazione, è che la causa sottesa ai negozi finanziari stipulati dagli enti pubblici deve conformarsi alle superiori esigenze di natura pubblicistica. Tale principio generale, declinato con particolare riguardo alla fattispecie dei contratti derivati, comporterebbe che questi debbano essere finalizzati alla neutralizzazione/riduzione del rischio finanziario (i.e. di tasso) dell’indebitamento assunto dall’ente pubblico, che non presentino carattere speculativo, e che siano collegati con il relativo sottostante. L’assenza di tale finalità di copertura, inciderebbe, tra le altre, sulla stessa struttura causale del contratto derivato. A nostro avviso, secondo i principi generali del nostro ordinamento, il concetto di causa del contratto ai sensi dell’art. 1325 c.c. si riferisce alla funzione economico-sociale che il contratto stesso assolve (e che si distingue dai motivi che hanno determinato ciascuna parte a contrarre, e che, proprio perché esulano dal comune intendimento delle parti rispetto al contratto, sono del tutto irrilevanti ai fini della determinazione della causa di un negozio giuridico) e che deve essere ricercata con riferimento ai fatti e al tempo in cui il contratto è stato concluso. Di conseguenza, la causa di un contratto potrà dirsi assente solo laddove il contratto non svolga alcuna funzione o se la funzione che il contratto mira ad assolvere sia possibile solo in astratto. Ora, i derivati c.d. “di copertura” stipulati dagli enti locali, come quelli per cui è causa, svolgono la funzione di contenere i rischi finanziari (i.e. oscillazioni dei tassi d’interesse) e limitare così il costo dell’indebitamento dell’ente cui il singolo contratto si riferisce. In particolare, rispetto agli interest rate swaps, la loro “causa concreta” andrà individuata “nello scambio di due rischi connessi, riferiti e parametrati ai sottostanti…[laddove] nella sostanza l’accordo [i.e. l’interest rate swap] contempla espressamente il rischio delle fluttuazioni e l’alterazione delle reciproche prestazioni…” (Trib. Milano, sez IV, 19 aprile 2011, n. 5443). Illuminante sul punto è poi un’altra recente ordinanza del Tribunale di Milano del 28 novembre 2014 che, in un caso del tutto simile a quello in commento, così afferma: “lo schema astratto negoziale [delle operazioni in derivati consiste] in uno scambio di flussi finanziari convenuto dalle parti sulla scorta della variazione nel tempo dei tassi di interesse (in ciò palesandosi l’intrinseca aleatorietà dello strumento, connaturata alla durata degli effetti in un arco temporale anche notevole ed alla portata degli stessi in dipendenza da fattori esterni e mai certi per alcuna delle parti)”. Ne consegue che “ferma la necessaria bilateralità dell’elemento aleatorio”, è irrilevante il fatto che “il rischio sia ugualmente ripartito tra i contraenti ovvero sopportato in misura maggiore da uno di essi, dipendendo pur sempre da fattori estranei alla signoria delle parti (la variazione, in questo caso, dell’Euribor trimestrale); sicché, quand’anche venissero fissate soglie il cui raggiungimento appare ex ante difficile da pronosticare, permane il requisito imprescindibile dell’aleatorietà….Sotto il profilo della causa in concreto, anche laddove i contratti derivati in parola facessero genericamente riferimento all’esposizione debitoria della ricorrente, senza specificare i singoli rapporti cui offrire “copertura”, non perciò tale funzione deve ritenersi preclusa, avendola le parti calibrata per relationem in modo da eliminare per [la cliente] il rischio di innalzamento dei tassi di interesse e quindi degli oneri finanziari da essa sopportati in relazione ad un ammontare debitorio predeterminato ed individuato con precisione”. Secondo il Tribunale, poi, nei derivati a c.d. “copertura condizionata” – in cui il possibile guadagno del cliente si colloca all’interno di un dato range (quantificato nella differenza tra tasso fisso e tasso soglia)” non viene meno la funzione di copertura del contratto, né “l’alea bilaterale intrinseca” allo stesso. D’altronde, conclude il Tribunale “la perdita subita ex post da uno dei contraenti – evidentemente collegata alla mancata concretizzazione delle prospettive sull’andamento del mercato attese in sede di stipula del contratto – non può contribuire ad innervare un preteso squilibrio tra le obbligazioni concordate tra le parti, giacché rientra nella normale alea di siffatta tipologia di negozi, nei quali la prestazione dipende da un evento futuro ed incerto quale l’oscillazione dei parametri di riferimento”.
[7] Anche la circostanza che la banca avesse concluso con controparti straniere dei c.d. mirror swaps, speculari agli swaps in essere con il Comune, per coprire a sua volta la propria esposizione nei confronti dell’ente (c.d. rischio di credito), è stata ritenuta insufficiente al fine di sostenere l’esistenza di elementi di internazionalità nella vicenda in questione.
[8] La sola pronuncia in linea con le conclusioni del giudice inglese che si rinviene al riguardo, peraltro precedente alla sentenza della Corte di Cassazione del 2013, è quella del Tribunale di Rimini del 12 ottobre 2010 in un caso relativo proprio al comune di Rimini.
[9] La sentenza statuisce in merito all’applicabilità o meno della facoltà di recesso ex art. 30, 6 co, TUF rispetto all’acquisto da parte di un privato di obbligazioni corporate vendute dalla banca Mediolanum, a seguito di sollecitazione di un promotore della banca stessa.
[10] A seguito di questa sentenza, con D.L. 69/2013 (art. 56 quater), il legislatore ha ritenuto di regolare gli effetti della pronuncia delle Sezioni Unite prevedendo che per i contratti sottoscritti a decorrere dal 1°settembre 2013 la disciplina del diritto di ripensamento si applica anche al servizio di negoziazione per conto proprio (previsto dall’art. 1, comma 5, lett a) del TUF). A seguito di tale modifica normativa, gli operatori del settore avevano implicitamente ritenuto che, prima del 1°settembre 2013, il diritto di ripensamento trovasse applicazione solo per il servizio di collocamento (e di gestione individuale di portafogli). Tuttavia, con la sentenza n. 7776/2014 (di cui parleremo nel proseguo), la Corte di Cassazione, se da un lato, ha ribadito la correttezza dell’interpretazione precedentemente fornita dalle Sezioni Unite nel giugno 2013, dall’altro, ha precisato che la predetta interpretazione estensiva non potesse ritenersi modificata dalla modifica legislativa del 2013.
[11] Cass. Civ., Sez I, 14 febbraio 2012, n. 2065.
[12] Tale posizione, peraltro, è supportata anche dalla Consob che in varie occasioni ha avuto modo di precisare che: (i) è il c.d. “effetto sorpresa” a giustificare l’applicazione della disciplina dell’offerta fuori sede (Comunicazione n. DIN 4045379/2004); (ii) l’art. 76, 2 co, del Regolamento Intermediari esenta espressamente l’intermediario dai propri obblighi rispetto alla fattispecie dell’offerta fuori sede, ove l’attività sia svolta su iniziativa dell’investitore (Comunicazione n. DI/99052838 del 7/7/1999); (iii) l’istituto dello ius poenitendi in commento che “appare volto a garantire l’investitore da tecniche di vendita effettuate in modalità tali da poter indurre a decisioni non sufficientemente ponderate”…”è nella sua funzione di consumers’ protection, istituto tipico dei settori caratterizzati dalla ricorrenza di tecniche di contrattazione con il consumatore lato sensu “sorprendenti”, all’interno dei quali finisce per assurgere al rango di regola fondamentale…” (Comunicazioni n. DIN/12030993/2012 e DIN/3080530/2003).
[13] L’art. 30 tra l’altro parla anche di “moduli o formulari” (profilo poi ripreso anche dalla successiva sentenza della Corte di Cassazione n. 7776/2014), aspetto questo che non può che rimarcare il concetto per cui la previsione in commento presuppone offerte formulate dalla banca nei confronti dell’investitore (e non il contrario).
[14] Sentenza n. 734/2014.