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Attualità

Dichiarazione di fallimento di società ammessa a concordato preventivo omologato

13 Aprile 2021

Francesco Autelitano, Partner, Trifirò & Partners Avvocati

Di cosa si parla in questo articolo

1. La questione di massima di particolare importanza

Con ordinanza del 31 marzo 2021, n. 8919, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha esaminato approfonditamente la questione di grande importanza nel diritto della crisi d’impresa, concernente la possibilità che una società ammessa a concordato preventivo, andato a buon fine con l’omologazione e, successivamente, inadempiente a proprie obbligazioni, possa essere sottoposta direttamente a istanza di fallimento da parte dei creditori, senza passare per la preventiva risoluzione del concordato stesso.

Il tema assume rilievo, in particolare, sotto un duplice profilo.

Da un lato, vi è il caso di inadempimento alle obbligazioni assunte dalla società con il concordato stesso, nei confronti del ceto creditorio, obbligazioni formalizzate nella proposta oggetto, appunto, di approvazione dei creditori e di omologazione da parte del Tribunale.

D’altro lato, specialmente nell’ambito dei concordati preventivi in continuità, vi sono le fattispecie inerenti agli inadempimenti di obbligazioni ulteriori, sorte successivamente all’omologazione del concordato.

Il rilievo della complessiva, sopra detta questione è già da tempo emerso nel dibattito dottrinale e in alcuni precedenti giurisprudenziali, tuttavia esso assume evidenti profili di rinnovata attualità, nel presente momento storico caratterizzato dall’emergenza sanitaria che ha, tra l’altro, prodotto noti effetti e conseguenti interventi legislativi proprio inerenti a svolgimento ed esecuzione delle procedure concorsuali minori già ammesse e/o omologate.

2. L’approfondimento della questione da parte della Prima Sezione della Corte di Cassazione

La Corte Suprema – dopo aver ricordato taluni precedenti giurisprudenziali che si sono pronunciati (espressamente o, spesso, implicitamente) a favore dell’ammissibilità della diretta istanza di fallimento, senza passare per la previa risoluzione del concordato preventivo (c.d. omissio medio) – ha esposto le ragioni per le quali si rende necessario, nel contesto normativo ed ermeneutico attuale, un approfondimento specifico della tematica, analizzando compiutamente tutti i profili critici della medesima.

I Supremi Giudici hanno anzitutto ricordato che, in dottrina, si sono sollevate molti voci autorevoli nel senso dell’inammissibilità della dichiarazione del fallimento dell’impresa ammessa al concordato preventivo omologato ineseguito, senza la preventiva risoluzione del concordato stesso.

A fondamento di quest’ultimo indirizzo interpretativo si è osservato che occorre considerare, in primo luogo, la mancanza di una norma che, nell’ambito del nostro ordinamento positivo, autorizzi i soggetti, legittimati ai sensi degli artt. 6 e 7 l. fall., a chiedere la “conversione” in fallimento di un concordato inadempiuto ma non risolto, a differenza di quanto invece espressamente previsto dal legislatore nelle diverse ipotesi di cui agli artt. 162, secondo comma, e 173, secondo comma, l. fall.

Inoltre, il sopra citato art. 186 I. fall. si pone in rapporto di specialità rispetto alla norma di carattere generale di cui all’art. 6 della stessa legge (che indica i soggetti in linea di principio legittimati a presentare istanza di fallimento) sicchè proprio la specifica previsione della risoluzione del concordato (quale tipico rimedio esperibile in caso di inadempimento del debitore) non consentirebbe di agire nei confronti di quest’ultimo, direttamente, per farne dichiarare il fallimento.

E’ stato così osservato, a sostegno della tesi dell’inammissibilità della declaratoria di fallimento nelle ipotesi qui in discussione, che, in realtà, lo stato di crisi posto alla base della procedura concordataria, è rimosso dall’effetto esdebitatorio dell’omologazione, da cui discende il ritorno in bonis dell’impresa ammessa alla procedura pattizia, con la conseguenza che, secondo la dottrina sopra ricordata, non sarebbe sufficiente il pur conclamato inadempimento a concretare un’insolvenza, che, invece, soltanto la risoluzione del concordato può far legittimamente riemergere.

Ne consegue ancora che l’impresa, ammessa al concordato omologato, non potrebbe essere dichiarata fallita se non sulla base di una nuova insolvenza, determinata per l’effetto di obbligazioni contratte successivamente all’omologazione e rimaste comunque inadempiute.

Dal punto di vista pratico dovrebbe essere altresì considerato che, in difetto di risoluzione del concordato, l’eventuale successivo stato passivo fallimentare non potrebbe riflettere il venir meno dell’esdebitazione (essendo esso, appunto, una conseguenza giuridica specifica della risoluzione ex art. 186 cit.).

3. Le interrogazioni retoriche poste dalla Suprema Corte circa l’ammissibilità dell’istanza di fallimento

Nel descritto contesto, l’ordinanza interlocutoria della Corte di Cassazione ha evidenziato la necessità di esaminare attentamente una serie di problematiche applicative e sistematiche, enunciate dalla Corte medesima con alcuni quesiti (cfr. il paragrafo 3.11 dell’ordinanza) che tuttavia – va osservato – appaiono espressi in forma di interrogazione retorica: la formulazione dei quesiti stessi, idonei di per sé a porre in luce seri dubbi circa la fondatezza dell’ammissibilità dell’istanza di fallimento omissio medio, in uno con la decisione di sollecitare l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, implica un’evidente opzione a favore della tesi contraria a tale ammissibilità.

Sono in tal senso significative le seguenti questioni.

Anzitutto, la Corte si interroga circa il fatto che l’eventuale ammissibilità dell’istanza di fallimento possa determinare “un aggiramento dei presupposti applicativi e dei termini previsti dall’art. 186 l. fall.” sia in merito all’accertamento della sussistenza di inadempimenti di non scarsa importanza addebitabili al debitore che con riferimento al termine di decadenza di un anno previsto dalla norma citata per la domanda di risoluzione.

La dichiarazione di fallimento “omissio medio solleverebbe altresì dubbi di “compatibilità sistematica” in relazione alla disciplina complessiva prevista dalla legge quanto al coordinamento tra diverse procedure (cfr. artt. 162, 173, 179 e 180 I. fall.), anche alla luce dei precedenti delle Sezioni Unite 15 maggio 2015, nn. 9935 e 9936, che hanno cristallizzato il principio del c.d. “coordinamento asimmetrico” tra la procedura concordataria e quella fallimentare, ammettendo la possibilità di dichiarare il fallimento, in pendenza di una procedura concordataria, solo allorquando il concordato sia stato definito con esito negativo.

Sempre la Prima Sezione della Corte di Cassazione rileva che l’eventuale ammissibilità dell’istanza di fallimento potrebbe risultare incoerente con “la portata del vincolo obbligatorio del concordato per i creditori discendente dal disposto normativo di cui all’art. 184 l. fall.” incidendo così anche sullalegittimazione attiva alla declaratoria di fallimento.

Inoltre andrebbe affrontata la problematica legata alla coesistenza di due procedure con due distinte masse, quella concordataria originaria e quella fallimentare successiva, che potrebbe includere anche i beni eventualmente non considerati nella proposta di concordato.

4. Le nuove disposizioni del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (in breve CCII)

Un ultimo ma non meno importante ordine di considerazioni, riguardo al tema qui esaminato, attiene alla nuova disciplina introdotta dal CCII, di cui al d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14.

In particolare, l’art. 119, co. 7, CCII (come integrato dal d.lgs., 26 ottobre 2020, n. 147) risolve espressamente la problematica sopra esaminata, prevedendo che “il tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo”.

Pertanto la disciplina di diritto positivo risultante dal CCII indirizza verso la soluzione di non consentire la dichiarazione di fallimento omissio medio rendendo necessario, per i creditori che dovessero lamentare l’inadempimento del debitore alle obbligazioni concordatarie, l’utilizzo del rimedio all’uopo previsto dal legislatore (i.e. la risoluzione del concordato) implicante l’accertamento dei relativi presupposti in fatto e in diritto e lo svolgimento del corrispondente giudizio inerente all’importanza dell’inadempimento contestato.

Al contempo, la stessa norma di cui all’art. 119 CCII prevede la possibilità di proporre direttamente domanda di fallimento allorchè, invece, lo stato di insolvenza consegue all’inadempimento di nuove obbligazioni, sorte successivamente all’omologazione del concordato preventivo (tendenzialmente nell’ipotesi di concordato in continuità che sfoci in un’ulteriore fase di crisi).

Ciò premesso, la giurisprudenza ha già evidenziato, riguardo ad altre disposizioni del CCII, che anche anteriormente alla completa entrata in vigore di quest’ultimo (attualmente prevista per il 1 settembre 2021) le relative norme costituiscono un utile criterio interpretativo della disciplina vigente (cfr. Cass., Sez. Un., 24 giugno 2020, n. 12476).

In definitiva, l’ordinanza qui commentata ha rilevato che la tematica in esame assume i connotati della «questione di massima di particolare importanza» (art. 374, co. 2, cod. proc. civ.) come tale da sottoporsi alla decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione medesima, al fine di individuare i principi da applicare in modo uniforme nella fattispecie.

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