La sentenza in commento ha deciso una controversia in cui un investitore ha convenuto in giudizio la propria Banca lamentando inter alia la nullità del contratto quadro relativo alla prestazione dei servizi di investimento in base al quale aveva acquistato obbligazioni Argentina poi andate in default. In particolare, con la Sentenza n. 89/2017, la Corte d’Appello di Bologna ha accolto l’impugnazione promossa dal cliente della Banca contro la sentenza che in prime cure aveva rigettato, tra le altre, la domanda di nullità del contratto quadro sopra menzionato. Segnatamente, per quel che rileva ai fini della presente disamina, la domanda di nullità del contratto quadro promossa dall’investitore si basava inter alia sulla scorta del mancato adeguamento del regolamento contrattuale alle norme in materia di investimenti entrate in vigore medio tempore. Con l’atto di citazione in appello, l’investitore appellante ha introdotto per la prima volta un’ulteriore ragione di nullità del contratto quadro, ovverossia il difetto di forma scritta ex art. 23 del TUF (D.L. 58/1998)[1], per assenza della sottoscrizione da parte della banca intermediaria. La C.d.A. ha accolto tale motivo di gravame, rilevando che dalla carenza della sottoscrizione da parte della Banca deriva l’invalidità del contratto quadro per mancanza della necessaria forma scritta ad substantiam e che, pur essendo dedotto il motivo di nullità per la prima volta in sede di appello, la circostanza dell’assenza della sottoscrizione avrebbe dovuto essere oggetto di rilievo ex officio sin dalla fase di primo grado e che, in generale, tale motivo di nullità è rilevabile d’ufficio, anche in assenza di una specifica eccezione di iniziativa della parte nell’interesse di cui la nullità è prevista.
La Sentenza in commento invero suscita non poche perplessità, a tacer d’altro per la ragione che sembra non tener conto affatto della peculiarità dei contratti in questione appiattendosi invece sull’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di perfezionamento dei contratti in generale per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam.
Sulla scorta di tale peculiare presa di posizione della Corte pare opportuno anzitutto analizzare l’“innovativa” tesi avanzata dalla C.d.A. di Bologna sulla rilevabilità d’ufficio anche delle nullità c.d. “relative”, a sua volta mutuata dalla sentenza n. 26242/2014 della S.C. a Sezioni Unite; in secondo luogo, preme nel merito individuare i presupposti che dovrebbero effettivamente integrare la nullità per difetto di forma scritta ex art. 23 TUF: ovverossia se la mera assenza della sottoscrizione dell’intermediario valga a far dichiarare – a prescindere dalla questione dei soggetti titolati all’eccezione – il difetto di forma scritta tout court e quindi la nullità del contratto quadro.
Preliminarmente, dunque, occorre analizzare brevemente l’istituto della nullità relativa, per poi valutare se la stessa possa essere rilevata o meno d’ufficio dal Giudice.
Com’è noto, fra i motivi di invalidità del contratto, vi è (i) la nullità – motivata da irregolarità o gravi mancanze del regolamento contrattuale (art. 1418 c.c.) – rilevabile ex officio e imprescrittibile, e (ii) l’annullabilità, giustificata invece da vizi del consenso e, pertanto, rilevabile soltanto dal contraente il cui consenso si assume, per l’appunto, viziato. Fra i due istituti si pone in posizione intermedia la figura di invalidità contrattuale della c.d. “nullità relativa”, elaborata dalla giurisprudenza[2] e via via sempre più recepita dalle normative speciali a carattere “protettivo” del contraente debole, che pur implicando vizi alla base del regolamento contrattuale che ne potrebbero mettere in dubbio la stessa esistenza (come è caratteristico dell’istituto della nullità), è ideata per la tutela del contraente ritenuto, appunto, parte debole del rapporto ed è rilevabile soltanto da quest’ultimo. Tale nullità quindi è rilevabile d’ufficio soltanto se espressamente stabilito dal legislatore, come dimostra chiaramente ad esempio la disciplina a tutela dei consumatori (D.Lgs. 206/2005), che prevede all’art. 36, relativo alla nullità delle clausole vessatorie non approvate per iscritto (testualmente): “La nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d'ufficio dal giudice”. In questo caso infatti di nullità relativa – prevista dunque soltanto a vantaggio del consumatore – il legislatore ha ravvisato la necessità di precisare esplicitamente la rilevabilità d’ufficio da parte del Giudice di tale nullità, confermando pertanto che, in assenza di una esplicita previsione da parte del legislatore, la nullità relativa può essere eccepita soltanto dal contraente debole a favore del quale è prevista.
Fuori dai casi in cui tale potere officioso non è espressamente previsto – e da ciò può muoversi una prima critica alla Sentenza della C.d.A. di Bologna – giurisprudenza[3] e dottrina[4] hanno sempre negato che il giudice, in mancanza di una puntuale eccezione del contraente debole, potesse di propria iniziativa dichiarare la nullità del contratto e ciò alla luce di un principio “cardine” del processo civile di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c. (c.d. principio del “chiesto e pronunciato”): per cui il giudice deve pronunciarsi esclusivamente (salvo che, come detto, le norme non prevedano diversamente) sulle domande proposte dalle parti e non oltre il contenuto delle stesse, ovverossia, dedotta la nullità del contratto per determinati motivi, il giudice non può – secondo l’orientamento tradizionale – rilevarne altri d’ufficio.
Orbene, avuto a riferimento il principio del “chiesto e pronunciato”, è opportuno determinare in che misura – e, soprattutto, se ciò sia giuridicamente consentito – la ratio protettiva sottostante all’istituto della nullità relativa possa giustificare un’iniziativa d’ufficio del giudice in mancanza di un’espressa disposizione di legge in tal senso, come prospettato dalla C.d.A. di Bologna con la Sentenza in commento. Come detto, la nullità relativa implica delle irregolarità del contratto di per sé idonee ad inficiarne la validità se non proprio la stessa esistenza; tuttavia, per evitare un effetto contrario all’intento protettivo del legislatore, il rilievo di tale nullità è lasciato alla discrezionalità del contraente ritenuto “debole”, per la posizione che occupa nel contesto del rapporto contrattuale[5] (per citare alcuni esempi: artista/editore; consumatore/professionista, oppure, come nel caso della Sentenza in commento, investitore/intermediario). Talvolta, come sopra anticipato con l’esempio dell’art. 36 del Codice del Consumo (D. Lgs. 206/2005), la legge prevede espressamente che la nullità relativa possa essere rilevata anche d’ufficio dal giudice.
La soluzione prospettata con la Sentenza in commento implica che lo spirito di protezione alla base dell’istituto della nullità relativa (o anche detta “nullità di protezione”) giustificherebbe un potere d’ufficio di rilevare motivi di nullità non espressamente eccepiti dalla parte “protetta”, anche in assenza di una disposizione di norma che assegni espressamente tale potere al giudice. Tuttavia, anche la dottrina istituzionale – oltre alla giurisprudenza testé citata (vedasi, in particolare, la nota (3)) – pare negare l’esistenza di tale potere officioso (P. Trimarchi: “Perciò la nullità non può essere fatta valere se non dalla parte protetta”.)[6].
Alla luce dei caratteri essenziali dell’istituto della nullità relativa – come elaborati e in seguito sviluppati dalla giurisprudenza sopra descritta secondo la ratio protettiva dell’istituto – la Sentenza in commento pare effettuare una valutazione tranchant sul regime processuale della relativa eccezione, agitando in modo decontestualizzato rispetto al principio del “chiesto e pronunciato” la “vocazione generale” della protezione dell’istituto, come segue: “La ratio di un tale ampliamento dei poteri di rilievo officioso attribuiti al giudice risiederebbe nel fatto che il sistema delle nullità relative, pur essendo primariamente ispirato ad esigenze di protezione di una sola parte (segnatamente, quella più “debole”), ha, ad ogni modo, una vocazione generale” (cfr. pag. 5 della Sentenza in commento). Come si nota, già comunque l’utilizzo dei termini “…tale ampliamento dei poteri…” pare tradire la consapevolezza di una certa forzatura del regime processuale della nullità relativa.
Né pare aver maggior collegamento con la precedente esperienza giurisprudenziale e dottrinale la sentenza delle SS.UU. 26242/2014, da cui la C.d.A. di Bologna ha mutuato il dictum in parola. Anzi, pure la stessa tradisce una certa forzatura, ad esempio nella parte in cui afferma: “In altri termini, è come se il legislatore, predisposta una struttura normativa "significante", destinata espressamente alla tutela del singolo soggetto, abbia poi voluto sottendere a quella medesima struttura un ulteriore e diverso "significato", non espresso (ma non per questo meno manifesto), costituito, appunto, dall'interesse dell'ordinamento a che certi suoi principi-cardine (tra gli altri, la buona fede, la tutela del contraente debole, la parità di condizioni quantomeno formale nelle asimmetrie economiche sostanziali) non siano comunque violati.”
Ma v’è di più – con ciò collegandosi alla specifica fattispecie di nullità relativa di cui alla Sentenza in commento, ovverosia la nullità di cui all’art. 23 TUF (D.Lgs. 58/1998), in relazione a cui la Sentenza ne sostiene la rilevabilità ex officio – in quanto, se le SS.UU. affermano l’esistenza di un presunto “ulteriore e diverso significato non espresso”, la norma testé citata, in antitesi a molte altre discipline che esplicitano il potere d’ufficio del giudice (come nel sopra richiamato Codice del Consumo) indica esattamente il “contrario”: ossia che “Nei casi previsti dai commi 1 e 2 la nullità può essere fatta valere solo dal cliente” [7].
Dunque si pone una questione più ampia e dalla portata dirimente, in quanto la C.d.A. di Bologna ha interpretato una norma di legge il cui dato testuale, invero, non lascia margine di dubbio (e i termini utilizzati dal legislatore “solo dal cliente” lo confermano), di tal ché la Sentenza si pone in aperta violazione con un ulteriore principio “cardine” dell’ordinamento (oltre a quello del “chiesto e pronunciato”), ovverosia il principio di interpretazione delle norme cristallizzato all’art. 12 delle Preleggi, in particolare, il primo criterio, secondo cui, com’è noto: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”.
Tutto ciò senza tacere poi che a ben vedere non è affatto detto che l’orientamento fatto proprio dalla Corte di Appello di Bologna vada in realtà inequivocabilmente sempre a beneficio dell’investitore-contraente debole: si pensi ad esempio all’investitore che chiede il risarcimento danni per inadempimento agli obblighi informativi da parte della Banca con riferimento solo ad un determinato e specifico investimento (non avendo alcun interesse ad agire invece per tutti gli altri che hanno prodotto degli utili) e il giudice – al contrario – rilevi d’ufficio la nullità del contratto quadro per carenza della sottoscrizione della Banca e con esso quindi di tutti gli investimenti operati dal cliente, ivi compresi dunque quelli produttivi di guadagni; in questo caso è più che evidente che l’intervento officioso del giudice va chiaramente a danneggiare la posizione del contraente debole, in aperto contrasto quindi con la ratio della nullità di protezione in questione e con il diritto dell’investitore a vedersi tutelato anche soltanto per singole operazioni di investimento, senza dover subire la dichiarazione di nullità indistintamente per tutti i suoi investimenti. È chiaro infatti che, se fosse confermato l’orientamento espresso dalla Sentenza in discorso, gli investitori-contraenti deboli sarebbero certamente disincentivati a far valere i propri diritti in giudizio con riferimento soltanto a ben determinati investimenti, posto che si esporrebbero al rischio di vedersi invalidati in via officiosa anche tutti gli altri investimenti realizzati e mai contestati.
* * *
Passando al merito della decisione in commento, preme subito rilevare come la Corte con tale sentenza abbia segnato un drastico cambio di rotta rispetto all’orientamento sempre prevalso in passato nella giurisprudenza anche di legittimità.
L’atteggiamento della Corte sembra non tener conto non solo del dato testuale dell’art. 23 TUF, ma anche della ratio seguita dal legislatore nel prevedere la nullità prescritta da tale norma.
La Corte di Bologna muove dall’errato presupposto della coincidenza tra la forma scritta del contratto, prevista dall’art. 23 del TUF, e la sua sottoscrizione da parte dei due contraenti. Invero, la sottoscrizione non è un elemento essenziale dell’atto scritto, posto che la sua normale funzione è l’individuazione dell’autore del documento e l’assunzione della paternità dello scritto. L’art. 2702 c.c., infatti, non stabilisce che la scrittura privata è quella (i) redatta per iscritto e (ii) sottoscritta dalle parti: tale articolo afferma invece che la scrittura privata fa piena prova, sino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione ovvero se questa è legalmente ritenuta come riconosciuta. E del resto, l’art. 214 c.p.c. afferma che colui contro il quale è prodotta una scrittura privata, se intende disconoscerla, è tenuto a negare formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione: pertanto potrebbe esservi una scrittura privata anche senza sottoscrizione, che varrebbe come tale fino al suo disconoscimento.
A ben vedere quindi l’art. 23 del TUF prevede, come unica causa di nullità del contratto quadro, la mancanza di forma scritta, nel senso di mancanza fisica del documento contrattuale e non la carenza della sottoscrizione di una delle parti contraenti, laddove la mancata sottoscrizione del contratto da parte di uno dei contraenti può essere supplita da una chiara ed inequivocabile manifestazione di volontà di avvalersi del contratto da parte di chi non l’ha sottoscritto, purché tale manifestazione di volontà giunga prima dell’eventuale revoca del consenso della controparte. Nel caso dunque di mancata sottoscrizione da parte della Banca, la chiara ed inequivocabile manifestazione di volontà di avvalersi del contratto-quadro potrebbe essere fornita ricevendo e dando esecuzione agli ordini di compravendita di titoli provenienti dall’investitore.
D’altro canto è pacificamente riconosciuto che la nullità in parola è una nullità c.d. “di protezione” (che – come detto – può essere fatta valere solo dal cliente): protezione finalizzata in particolare a garantire la conoscibilità, da parte dell’investitore, (i) del tipo di attività che verrà prestata in suo favore e (ii) delle condizioni contrattuali applicabili per la prestazione dei servizi di investimento, al precipuo fine di eliminare quello squilibrio informativo che connota i rapporti contrattuali in discorso.
Ora, nel caso in cui il contratto-quadro venga sottoscritto solo dal cliente appare chiaro che la predetta finalità di protezione in favore dell’investitore sia stata pienamente rispettata, e che quindi non può essere ravvisata la sussistenza di alcuna nullità di protezione, in quanto appunto sarebbe in palese contrasto con la ratio della norma.
Ove il contratto-quadro fosse soltanto privo della sottoscrizione da parte della Banca, il cliente non può ravvisare alcuna lesione del proprio interesse sostanziale, posto che, da un lato, è una mancanza che non priva di contenuto il contratto e la conoscibilità per il cliente delle regole in esso scritte e, dall’altro, la sola mancanza formale della sottoscrizione non potrebbe in ogni caso legittimare la Banca ad impugnare il contratto-quadro in quanto vietato dall’art. 23, comma 3, del TUF. L’investitore quindi in questo caso è privo di legittimazione ad agire, posto che le sue esigenze di tutela sono state pienamente rispettate. La sottoscrizione anche della Banca in questa situazione è completamente inutile: al più la stessa potrebbe rilevare in termini di accettazione dell’incarico di intermediazione finanziaria, ma nelle controversie portate all’attenzione del Giudicante, come quella in commento, non si contesta che la Banca si sia sottratta al mandato ricevuto, ma soltanto che l’abbia eseguito in maniera non corretta.
Non a caso, peraltro, l’art. 23 del TUF parla di “redatto” per iscritto e non ‘stipulato’, laddove la redazione indica la stesura del testo contrattuale mentre la stipulazione ha un significato più specifico di assunzione del vincolo negoziale.
Questo nuovo orientamento sbilanciato verso un'eccessiva e ingiustificata tutela dell'investitore rischia quindi di non difendere un'effettiva esigenza meritevole di tutela, favorendo invece azioni meramente opportunistiche introdotte soltanto in caso di perdite dovute alla normale aleatorietà dei mercati. Con ciò andando contro anche ai generali principi di buona fede nella conclusione dei contratti e nella loro esecuzione. Principi che verrebbero violati ancora di più se si seguisse quell’ulteriore orientamento secondo cui il cliente avrebbe addirittura la facoltà di scegliere gli effetti di tale nullità: ossia di scegliere quali operazioni porre nel nulla e quali no, in aperta violazione appunto dei più basilari principi di buona fede nell’agire.
Alla luce di quanto sopra appare quindi auspicabile che nelle successive decisioni la giurisprudenza ripensi in maniera più attenta alla questione in commento – come sembra stiano in effetti facendo di recente alcune Corti di merito[8] – prendendo una posizione decisamente più equilibrata, nel precipuo interesse sia degli stessi investitori che del mercato finanziario in generale.
[1] Come noto, trattasi di nullità relativa ex art. 23, commi 1-3, del TUF a mente del quale: “1. I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, escluso il servizio di cui all’articolo 1, comma 5, lettera f), e, se previsto, i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti. La Consob, sentita la Banca d'Italia, può prevedere con regolamento che, per motivate ragioni o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma. Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo. 2. E' nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico. In tali casi nulla è dovuto. 3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2 la nullità può essere fatta valere solo dal cliente”.
[2] E’ il caso, ad esempio, della nullità prevista nell’originaria formulazione dell’art. 122, V comma, della legge sul diritto d’autore (L. 633/1941), che nella sua formulazione originaria prevedeva la nullità in ipotesi di assenza di indicazione sul contratto di edizione del numero minimo di esemplari da eseguire. Per questa disposizione, la giurisprudenza ebbe ad elaborare la possibilità che tale nullità fosse rilevabile soltanto dal contraente “debole”, per evitare che detta ipotesi di nullità potesse nuocere al contraente in difesa di cui era stata concepita.
[3] Così Cass. n. 9877/1997:
“In proposito va osservato che il giudice d’appello non avrebbe potuto rilevare d’ufficio la nullità del contratto, come preteso dai ricorrenti, per motivi diversi da quelli originariamente prospettati, giacché, come questa Corte ha già avuto occasione di precisare, il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità ex art. 1421 c.c. va coordinato con il principio della domanda fissato dagli artt. 99 e 112 c.p.c., con la conseguenza che, solo ove sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto, la cui validità rappresenta un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare in qualsiasi stato e grado del giudizio, e indipendentemente dall’attività assertiva delle parti, l’eventuale nullità dell’atto stesso, mentre, qualora il tema della controversia, come nella specie, verta sull’illegittimità di questo, una diversa ragione di nullità non può essere rilevata d’ufficio o dedotta per la prima volta in grado d’appello, trattandosi di domanda nuova e diversa da quella originariamente proposta dalla parte nell’esercizio del suo diritto di azione (v. Cass. 7 aprile 1995, n. 4064; Cass. 22 aprile 1995, n. 4607; Cass. 15 febbraio 1991, n. 1589; Cass. 12 dicembre 1986 n. 7402; Cass. 25 giugno 1985 n. 3820; Cass. 24 gennaio 1984 n. 596; Cass. 6 marzo 1978 n. 1100).”.
Così pure Cass. 2772/1998, secondo cui:
“La nullità, come l’inesistenza, di un contratto, può rilevarsi d’ufficio anche per la prima volta in appello. Il potere del giudice di dichiarare la nullità ex art. 1421 c.c. va però coordinato con il principio della domanda fissato dagli artt. 99 e 112 c.p.c., nel senso che solo se sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare in qualsiasi stato e grado del giudizio, indipendentemente dall’attività assertiva delle parti, l’eventuale nullità dell’atto stesso. Se poi la contestazione attiene direttamente alla illegittimità dell’atto, una diversa ragione di nullità non può essere rilevata d’ufficio, né può esser dedotta per la prima volta in grado d’appello, trattandosi di domanda nuova e diversa da quella ab origine proposta dalla parte (Cass. 12.12.1986, n. 7402; 27.4.1987, n. 4068; 9.1.1993, n. 141; 10.10.1997, n. 9877).”.
[4] Così P. Rescigno, Trattato di Diritto Privato Vol. 10, UTET 2002 (622):
“Promosso un giudizio volto ad ottenere la pronuncia di nullità per una data ragione, non sarebbe possibile dichiarare la nullità per una causa di nullità diversa”.
[5] Così P. Trimarchi, Istituzioni di Diritto Privato, GIUFFRE’ 2011 (240):
“Qui la regola generale, secondo la quale la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (nullità assoluta) potrebbe talvolta consentire alla stessa controparte di giovarsene contro l’interesse della parte protetta. In queste ipotesi, ad evitare un siffatto risultato contrario alle finalità della legge, la nullità può essere pronunciata solo su domanda della parte protetta, perché la si vuole lasciare arbitra di decidere se valersene, oppure no (nullità relativa).”
[6] Così, ancora, P. Trimarchi, Istituzioni di Diritto Privato, GIUFFRE’ 2011 (241):
“In qualche caso, tuttavia, la legge si spinge fino a proteggere la parte anche nella conduzione del giudizio e perciò, pur disponendo che la nullità può essere fatta valere solo dalla parte protetta, consente al giudice di rilevare la nullità d’ufficio, peraltro solo quando la nullità operi in concreto a vantaggio della parte protetta (art. 36, comma 3, cod. cons.)”.
[7] Si riporta di seguito il testo integrale della norma di cui all’art. 23 TUF:
“1. I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, escluso il servizio di cui all’articolo 1, comma 5, lettera f), e, se previsto, i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti. La Consob, sentita la Banca d'Italia, può prevedere con regolamento che, per motivate ragioni o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma. Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo.
2. E' nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico. In tali casi nulla è dovuto.
3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2 la nullità può essere fatta valere solo dal cliente.
4. Le disposizioni del titolo VI, capo I, del T.U. bancario non si applicano ai servizi e attività di investimento, al collocamento di prodotti finanziari nonché alle operazioni e ai servizi che siano componenti di prodotti finanziari assoggettati alla disciplina dell’articolo 25-bis ovvero della parte IV, titolo II, capo I. In ogni caso, alle operazioni di credito al consumo si applicano le pertinenti disposizioni del titolo VI del T.U. bancario140.
5. Nell'ambito della prestazione dei servizi e attività di investimento, agli strumenti finanziari derivati nonché quelli analoghi individuati ai sensi dell'articolo 18, comma 5, lettera a), non si applica l'articolo 1933 del codice civile141.
6. Nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l'onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta.”
[8] Si veda ad esempio Trib. Napoli n. 1924 del 13.2.2017 e Trib. Bergamo n. 26 del 11.1.2017, entrambe in www.expartecreditoris.it.