In caso di fallimento, il divieto di riconoscimento degli interessi moratori commerciali ai sensi della l. 231/2002 nelle ipotesi in cui essi sono dovuti, decorre – come nella generalità dei casi afferenti ai crediti chirografari – solo dal momento della dichiarazione di fallimento, fermo restando il diritto al riconoscimento di quelli già maturati antecedentemente all’accertata insolvenza del debitore. Tali interessi, infatti, si producono automaticamente e senza la necessità formale della messa in mora del debitore.
La disciplina dei crediti nati nelle cd. «transazioni commerciali» tra imprese ha uno statuto peculiare, imposto dal diritto comunitario (direttiva 2000/35/CE), e di natura speciale rispetto alle preesistenti disposizioni comuni nel diritto concorsuale (artt. 54 e 55 l. fall.), che non può essere oggetto di interpretazioni abroganti da parte del giudice comune: ogni diversa interpretazione di tali regole si pone in contrasto con il principio di effettività del diritto comunitario. I presupposti per l’applicazione del diritto comunitario (ossia l’automatico addebito degli interessi moratori nei rapporti a cui è applicabile la direttiva menzionata) ricorrono, proprio perché imposti ex lege e senza necessità di un provvedimento giudiziale, fino a quando non intervenga la cd. dichiarazione di fallimento dell’impresa ad essa assoggettata e senza che quella possa avere effetto retroattivo, disponendo la cancellazione del relativo ammontare ormai legittimamente maturato.
Il giudice delegato, in mancanza di una sentenza passata in giudicato che abbia accertato il credito maturato a titolo di interessi moratori, deve compiere detto accertamento in sede di ammissione al passivo del credito, secondo le regole stabilite dalla legge speciale, attuativa della direttiva 200