La vicenda sottoposta all’esame della Corte trae origine dall’impugnazione del decreto del Tribunale con cui era stato accolto solo parzialmente il suo reclamo avverso il decreto del giudice delegato del fallimento.
Con il primo motivo di impugnazione, il lavoratore lamenta l’insussistenza di un giustificato motivo oggettivo alla base del proprio licenziamento, nonché la mancata osservanza dell’obbligatorio periodo di comporto da parte del datore di lavoro, trovandosi infatti egli in malattia al momento in cui gli venne intimato il recesso. La Corte evidenzia come, in presenza di licenziamento illegittimo individuale intimato da una società successivamente fallita, il giudice del lavoro risulti competente unicamente quanto alla domanda diretta ad ottenere l’ordine di reintegrazione del posto di lavoro; relativamente alle richieste di natura creditoria, invece, la competenza è del giudice fallimentare.
Parimenti inaccoglibile risulta anche il secondo motivo di ricorso, inerente l’asserita inefficacia del licenziamento perché reso nel periodo di comporto: richiamando un proprio precedente (Cass. n. 11087/2015), gli Ermellini rilevano come lo stato di malattia del lavoratore non impedisca l’intimazione a quest’ultimo del licenziamento da parte del datore di lavoro, mentre incide in via temporanea sull’efficacia dello stesso.
Nel respingere il terzo motivo di ricorso, la Suprema Corte coglie l’occasione per ribadire un proprio consolidato orientamento (in particolare richiamando la nota pronuncia delle Sezioni Unite n. 4213/2013), in base al quale il curatore deve considerarsi soggetto terzo rispetto al rapporto giuridico posto alla base della pretesa che il creditore fa valere con la domanda di ammissione al passivo fallimentare, ragion per cui deve trovare applicazione il disposto di cui all’art. 2704 c.c. e la necessità della certezza della data nelle scritture prodotte dal creditore.
Anche l’ultimo rilievo critico, riguardante l’asserito utilizzo, da parte del datore di lavoro, di un software realizzato dal ricorrente, non trova accoglimento. Il lavoratore, infatti, non ha indicato in cosa consista l’attività inventiva oggetto di indebita appropriazione da parte del datore di lavoro, né i vantaggi che quest’ultimo avrebbe tratto dallo sfruttamento. Il software è, infatti, protetto dalla legge sul diritto d’autore, la quale tutela espressamente (art. 2, comma 1, n. 8) “i programmi per elaboratore, in qualsiasi forma espressi purchè originali quale risultato di creazione intellettuale dell’autore”: originalità che, invece, non risulta ravvisabile nel caso di specie.