Doveri di correttezza e buona fede – Diligenza professionale – Violazione – Risarcimento del danno.
La discrezionalità tecnica di cui gli intermediari dispongono nella gestione del credito non può tradursi in arbitrarietà e deve svolgersi nel perimetro delineato dai doveri di correttezza e buona fede e dal grado di professionalità dell’intermediario. La prova della violazione di detti doveri, onde ricevere adeguato ristoro, è posta a carico del ricorrente attraverso l’esibizione di adeguata documentazione.
La decisione in commento induce a riflettere sul tema delle richieste di risarcimento danni derivanti da istruttorie «mal gestite» da parte degli intermediari. Sul punto il Collegio ha rilevato in altre occasioni (cfr., ad esempio, la decisione del Collegio Roma, n. 212 del 14 gennaio 2013; come pure specificato nel Bollettino di Vigilanza della Banca d’Italia n. 10, dell’ottobre 2007), che, «qualora l’intermediario, nell’ambito della propria autonomia gestionale, decida di non accettare una richiesta di finanziamento, è necessario che fornisca riscontro con sollecitudine al cliente».
Del resto, lo stesso Arbitro ha avuto occasione di chiarire che una corretta applicazione del principio di buona fede, richiamato dall’art. 1337 c.c., implica che la banca, ferma restando la sua autonomia imprenditoriale in ordine alla concessione (o meno) di un finanziamento, sia in ogni caso tenuta a svolgere l’istruttoria a ciò finalizzata in tempi quanto più possibilmente celeri (cfr. Collegio di Roma, decisioni n. 1131 del 13 aprile 2012 e n. 2851 del 27 dicembre 2011), e che comunque deve provvedere ad una puntuale e tempestiva informazione nei confronti del cliente, specie quando essa si sia determinata (o si stia determinando) a non erogare il finanziamento.
Il Collegio, già espressosi sul punto, accoglie il principio secondo cui la non eccessiva durata della fase istruttoria, debba essere dimostrata dall’intermediario attraverso documentazione che non risulti scarna, relativamente all’assolvimento dei doveri informativi (cfr. ancora la già citata decisione n. 212 del 14 gennaio 2013).
Nel caso di specie, che attesta il ritardo nell’espletamento dell’istruttoria sui dodici mesi circa, l’arbitro, invertendo l’onere della prova, pone a carico del ricorrente di fornire documentazione idonea a dimostrare la violazione dei detti doveri da parte dell’intermediario, limitando la portata risarcitoria al solo rimborso del costo della perizia.
Il tema ruota senz’altro attorno al grado di discrezionalità tecnica di cui gli intermediari dispongono nella gestione del credito, che, come lo stesso Arbitro sottolinea, non può ovviamente tradursi in arbitrarietà e deve perciò svolgersi all’interno del perimetro delineato dai doveri di correttezza e buona fede – secondo la costante elaborazione giurisprudenziale dei relativi principi codicistici (v. ex plurimis: Cass. 24/09/2009, n. 20543; Cass. 4/05/2009, n. 10182; Cass. 24/0920/09, n. 20543; Cass. 8/10/2008, n. 24795) – e dallo specifico grado di professionalità del c.d. bonus argentarius loro richiesto (v. Cass. 12/06/2007 n. 13777; Trib. Roma, 18/02/2002; Collegio Milano, 27 maggio 2010, n. 444).
Ma il tema pone l’accento anche sul fondamento giuridico qualificante la prassi istruttoria affidata (e, potrebbe dirsi, che obbliga) l’intermediario.
Non può ritenersi ammissibile che un operatore professionale, in base all’ulteriore principio della diligenza prevista dall’art. 1176, comma 2, c.c. (del c.d. «bonus argentarius»), possa tralasciare valutazioni di convenienza delle operazioni poste in essere per conto della clientela che sarebbero di intuitiva percezione anche per il cosiddetto uomo della strada, il che rende certamente sindacabile, limitatamente a tali profili, la condotta degli stessi nello svolgimento della detta attività (v. le decisioni n. 27/12/11 n. 2851 del Collegio di Roma e del 26 maggio 2010, n. 437 ad opera dello stesso Collegio; per un approfondimento delle possibili linee di estensione della diligenza professionale delle banche v. Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Milano, 2013, p. 215 ss.).
Per quanto palesemente discutibile, la condotta dell’intermediario, per giustificare un risarcimento, deve aver arrecato un pregiudizio al cliente (ingiusto arricchimento e/o indebito vantaggio), difficilmente dimostrabile, visto il ridottissimo numero di decisioni che liquidano danni che vadano oltre il costo della perizia (qualora disposta) o l’addebito delle spese di giudizio a carico dell’intermediario. Sul punto, il Collegio si limita ad invitare l’intermediario a mostrare, di volta in volta, indicazioni utili a favorire le relazioni con la clientela (decisione n. 3996 del 25 luglio 2013 del Collegio di Milano).
E’ innegabile che «occorre […] che dagli atti risultino elementi oggettivi di carattere lesivo, la cui proiezione futura nella sfera patrimoniale del soggetto sia certa, e che si traducano, in termini di lucro cessante o in perdita di chance, in un pregiudizio economicamente valutabile ed apprezzabile, che non sia meramente potenziale o possibile, ma che appaia invece – anche semplicemente in considerazione dell’id quod plerumque accidit – connesso all’illecito in termini di certezza o, almeno, con un grado di elevata probabilità» (Cass. 8/11/2007, n. 23304), ma è altrettanto vero che se si decide di viaggiare sul terreno contrattuale individuando, attraverso un’interpretazione estensiva dell’art. 1173 c.c., il ritardo (nell’espletamento dell’istruttoria) in inadempimento, più agevole risulterebbe per il ricorrente far valere il suo diritto al risarcimento del danno, non dovendo neppure fornire alcuna prova effettiva del pregiudizio subito (Trib. Savona, 05/06/2013; Cass., 22/3/2013, n. 7283).