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Giurisprudenza

Doveri di condotta dell’associante in partecipazione ed effetti della risoluzione del contratto

8 Ottobre 2019

Luca Serafino Lentini, Dottorando di ricerca in Diritto commerciale, Università Cattolica del Sacro Cuore

Cassazione Civile, Sez. VI, 23 settembre 2019, n. 23608 – Pres. Scaldaferri, Rel. Dolmetta

Il prossimo 21 novembre si terrà a Milano il Convegno di rassegna di giurisprudenza ed orientamenti notarili in materia societaria organizzato da questa Rivista. Per maggiori informazioni si rinvia al link indicato tra i contenuti correlati.

 

L’associato in partecipazione conviene l’imprenditore associante al fine di far dichiarare – a seguito di diffida ex art. 1454 c.c. – la risoluzione del contratto e ottenere la restituzione dell’apporto versato all’inizio del rapporto. Respinte in primo grado, le domande dell’associato vengono parzialmente accolte in Appello. Segnatamente: il mancato investimento dell’apporto dell’associato nell’impresa, nonché alcuni prelievi diretti dalla cassa aziendale, pregiudicano rispettivamente il diritto agli utili pro quota dell’associato e quello relativo alla rendicontazione (espressione del principio d’esecuzione secondo buona fede), costituendo inadempimenti tali da giustificare la risoluzione. Con conseguente diritto alla restituzione dell’apporto iniziale, ma non degli utili medio tempore asseritamente maturati, secondo la regola di retroattività della risoluzione (art. 1458 comma 1 primo periodo c.c.). Ricorre in Cassazione l’associante, lamentando due distinti profili: a) non esiste nel contratto uno specifico dovere di rendicontazione in capo all’associante, a cui anzi spetta esclusiva imputazione del potere discrezionale di direzione dell’impresa (con conseguente scarsa importanza del presunto inadempimento, art. 1455 c.c., b) l’effetto restitutorio puro non può operare nell’associazione in partecipazione posto che l’apporto iniziale funge da “contributo d’ingresso”.

Secondo la Corte, gli interrogativi posti dalla fattispecie concreta sono tali da giustificare la rimessione alla pubblica udienza ex art. 380 comma 3 c.p.c.

E’ da chiedersi, prima di tutto, se l’associante – in ragione della conformazione strutturale del contratto di associazione in partecipazione, come pure del canone di buona fede oggettiva – abbia o meno il dovere di comportarsi senza produrre disordine contabile, posto pure il riflesso di tale circostanza per la successiva definizione degli utili dell’impresa; nonché se la buona fede in executivis venga a integrare il diritto al rendiconto, che è proprio dell’associato, imponendo obblighi di informazione contabile in testa all’associante ulteriori rispetto a quelli segnati nella norma dell’art. 2252 comma 3 c.c. ;

Va chiarito, inoltre, se al contratto di associazione in partecipazione si applichi o meno il secondo periodo del 1 comma dell’art. 1458 sulle prestazioni già eseguite nei contratti di durata: quindi se l’associato abbia diritto alla restituzione piena dell’apporto iniziale, oppure se debbano, invece, venire ‘conteggiati’ utili o perdite maturati fra inizio del contratto e risoluzione. Parrebbero, in effetti, fare propendere per la seconda soluzione alcune considerazioni relative all’attinenza della disciplina della risoluzione alla fase di svolgimento del rapporto (e non a quella della formazione dell’atto); le affinità funzionali del contratto di associazione in partecipazione coi contratti societari, da cui discenderebbe la compartecipazione dell’associato al rischio d’impresa; come pure, sul piano del riscontro disciplinare, la disposizione dell’art. 77 comma 1 legge fall..


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