Rispetto ad una fattispecie in cui si discuteva della responsabilità di un intermediario ex art. 43 Legge Assegni per aver consentito l’incasso di un assegno a soggetto diverso dal legittimo prenditore previa identificazione tramite esibizione della sola carta d’identità, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha anzitutto ricordato l’orientamento delle Sezioni Unite (sent. n. 12477/2018) secondo il quale la natura contrattuale di siffatta responsabilità (già affermata da Cass., S.U., n. 14712/2007) rende non più sostenibile la tesi secondo cui l’istituto di credito debba rispondere comunque, anche a prescindere dalla sussistenza dell’elemento della colpa nell’errore sulla identificazione del prenditore, essendo sempre ammesso a provare che l’inadempimento non gli è imputabile per avere assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’art. 1176, comma 2, c.c. (si configura comunque la responsabilità ex art. 43, comma 2, Legge Assegni, in ragione della qualità di operatore professionale dell’istituto di credito, ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., anche in caso di colpa lieve).
Tanto considerato, la Suprema Corte si è così soffermata sull’accertamento della sussistenza dell’elemento della colpa, concludendo per la sua inesistenza nel caso di specie, avendo l’istituto di credito provato di aver identificato il prenditore del titolo previa esibizione della carta di identità e del tesserino attributivo del codice fiscale. Siffatte tipologie di documento (così come il passaporto, la patente o comunque ogni altro documento valido di identificazione), ad avviso della Corte, costituiscono difatti strumenti sufficienti per compiere una diligente identificazione, sempreché, comunque, sul documento esibito non siano rilevabili segni o altri indizi di falsità.
Più in particolare, siffatta conclusione è raggiunta sulla base delle seguenti considerazioni: (i) la carta d’identità costituisce nel nostro ordinamento il fondamentale strumento di identificazione personale; (ii) come già rilevato in altra pronuncia (Cass. n. 34107/2019), l’attività di identificazione delle persone fisiche avviene normalmente tramite il riscontro di un solo documento d’identità personale (carta d’identità, passaporto ovvero patente di guida), sia nell’ambito delle attività aventi rilevanza pubblicistica (come l’attività di identificazione svolta dagli organi di polizia giudiziaria), sia nell’ambito dell’attività negoziale tra privati (come le attività collegate a scambi commerciali, ovvero quelle, più in generale, di natura contrattuale che presuppongano la corretta identificazione dei soggetti contraenti). Una regola di condotta che imponga prudenzialmente ulteriori accertamenti non risulta pertanto rintracciabile neppure negli standard valutativi di matrice sociale ovvero ricavabili all’interno dell’ordinamento positivo; (iii) infine, proprio con riferimento ai rapporti tra intermediari e clientela (in cui rientra il caso in esame, dal momento che l’abusivo prenditore del titolo, prima di provvedere al suo incasso, aveva aperto un libretto di risparmio postale su cui poi aveva versato l’assegno), il d.lgs. n. 231 del 2007 all’ art. 19 (c.d. legge antiriciclaggio), avente ad oggetto le modalità di adempimento degli obblighi di adeguata verifica della clientela, prevede, al comma 1 lett a), che l’identificazione e la verifica della clientela debba essere svolta, in presenza del cliente, con il semplice controllo del documento di identità non scaduto prima della instaurazione del rapporto continuativo; mentre è imposto alla lett. b), che l’identificazione e verifica dell’identità del cliente avvenga mediante l’adozione di misure adeguate e commisurate di rischio, anche attraverso il ricorso a pubblici registri, elenchi, etc., solo se la clientela sia costituita da persone giuridiche, trust o soggetti analoghi, al fine di individuare i soggetti dotati di poteri rappresentativi. Non si prevede pertanto il ricorso per l’identificazione “ad ogni possibile mezzo”, né alcuna indagine presso il Comune di nascita.