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“Eco-mark Era”, “Green-washing” e pubblicità ingannevole

3 Agosto 2021

Simone Davini, Stefano Conti, Carlo Orlandi, Francesco Chrisam

Di cosa si parla in questo articolo

[*] Il fenomeno del Green-washing – inteso come appropriazione di pregi inesistenti in campo ambientale[1] – costituisce una dimensione patologica tipica della Eco-mark Era, sorta già agli inizi del Duemila e caratterizzata da un incremento della comunicazione in punto sostenibilità ambientale da parte degli operatori economici[2].

Tale fenomeno è esploso negli Stati Uniti nel 2007[3], con un’improvvisa espansione del numero di domande di registrazione di marchio recanti i termini “Green”, “Clean”, “Eco” ed “Environment”[4] (i picchi hanno toccato il +100%[5]), attestando così la sempre maggiore attenzione del mercato per i temi ecologici.

Ciò si inserisce, peraltro, nel solco del noto dibattito sul climate change e sul global warming[6], recentemente rilanciato dai fatti di cronaca provenienti dal Canada[7].

A fronte di una crescente sensibilità collettiva sul tema, anche l’Unione Europea si è mossa con la comunicazione “The European Green Deal”[8] datata 11 dicembre 2019, che ha tracciato una vera e propria roadmap, divenuta cardine per lo sviluppo del recovery plan “Next Generation EU” (NGEU).

Tali iniziative si stanno a loro volta riverberando anche a livello nazionale: in Italia, ad esempio, il Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza (PNRR) si apre affermando che “La pandemia di Covid-19 è sopraggiunta in un momento storico in cui era già evidente e condivisa la necessità di adattare l’attuale modello economico verso una maggiore sostenibilità ambientale e sociale”[9] e continua soffermandosi ripetutamente sulla tema della transizione ecologica[10].

Si assiste, pertanto, ad una convergenza “green” tra la propensione all’acquisto dei consumatori, l’autoregolamentazione dei mercati e le politiche economiche dei governi.

Anche a livello finanziario non mancano analoghi riscontri: si pensi, in particolare, all’esperienza dei derivati ESG[11], che “tendono a favorire un maggiore afflusso di capitali verso investimenti c.d. “sostenibili” […] svolgendo una importante funzione di copertura (c.d. “hedging”) di taluni rischi collegati a tali investimenti”[12].

Del resto, contemperare finalità di beneficio comune con quelle lucrative si traduce in maggiori costi organizzativi e rischi, come emerso nella recente esperienza delle “Società benefit”[13].

A fronte di tale partita negativa, si registrano però innumerevoli ritorni positivi, specialmente in termini di marketing e di maggiore attrattiva rispetto ai clienti, agli investitori e ai dipendenti[14].

Proprio un tale potere di attrattiva può spingere i soggetti coinvolti (es. gli amministratori di una società) a costruire un’immagine “green” soltanto di facciata, giovandosi di una comunicazione volta a creare la mera impressione che i prodotti o i servizi commercializzati abbiano un minore impatto ambientale, senza che ciò si fondi su fatti veri o verificabili[15].

In termini analoghi, la volontà di intercettare una maggiore propensione all’investimento in prodotti finanziari “sostenibili” può portare ad eludere gli obblighi di informativa e di trasparenza[16]. E così, ad esempio, la già citata etichetta ESG potrebbe essere indebitamente spesa per commercializzare in modo ingannevole prodotti derivati privi di tali qualità[17].

A ben vedere, il Green-washing non pregiudica soltanto gli interessi dei consumatori e/o degli investitori, ma anche quelli degli altri competitor che, alternativamente, a) non spendono la patente “green”, accettando la perdita di importanti quote di mercato, b) rivendicano pregi reali in campo ambientale, facendosi carico dei maggiori costi e rischi.

Inoltre, la concorrenza sleale apportata dai “free rider” costituisce un rischio concreto per la stessa credibilità e fiducia del mercato nel suo complesso.

Stante la pluralità di interessi in gioco, il fenomeno in esame si trova al centro di un complesso snodo ti tutele.

In particolare, la medesima condotta potrebbe integrare astrattamente:

1) una lesione degli obblighi di informativa specificamente previsti dalle normative di settore[18];

2) una pubblicità ingannevole[19];

3) una pratica commerciale scorretta[20];

4) un atto di concorrenza sleale[21];

5) un illecito autodisciplinare[22].

E ciò anche in ragione di un’espansione del perimetro della pubblicità, che – nell’ampia definizione normativa[23] – comprende “qualsiasi forma di messaggio che è diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi”.

Detto altrimenti, anche l’adempimento di obblighi informativi imposti ex lege può costituire un veicolo per la diffusione di messaggi finalizzati alla promozione di prodotti o servizi: si pensi, ad esempio, al campo della pubblicità legale, laddove si ravvisa una “curvatura commerciale”[24] stante la sempre maggiore attuazione tramite il sito internet delle Società.

Analogamente, anche la dichiarazione o l’evocazione di benefici di carattere ambientale o ecologico che sia finalizzata ad intercettare una maggiore propensione all’acquisto o all’investimento – come nel caso già citato dell’etichetta ESG – può soggiacere alla normativa pubblicitaria.

Con riferimento al settore finanziario, AGCM ha chiarito da lungo tempo che “Il principio di fondo che orienta l’attività dell’Autorità, per quanto di sua competenza, è che la pubblicità delle operazioni finanziarie, nella sua strutturazione ideale, dovrebbe consentire ai destinatari, anche se privi di specifica preparazione, di compiere le proprie scelte in modo consapevole. A tale riguardo, il messaggio dovrebbe fornire informazioni chiare ed esaurienti circa il soggetto proponente, la natura della proposta, le condizioni dell’operazione e i rischi connessi”[25].

Tale orientamento costituisce peraltro un dato già acquisito del Codice di Autodisciplina pubblicitaria, che all’art. 27 si esprime in termini del tutto analoghi, prevedendo specificamente che “La comunicazione commerciale diretta a sollecitare o promuovere operazioni finanziarie […] deve fornire chiare ed esaurienti informazioni onde non indurre in errore circa il soggetto proponente, la natura della proposta, la quantità e le caratteristiche dei beni o servizi offerti, le condizioni dell’operazione, nonché i rischi connessi, onde consentire ai destinatari del messaggio, anche se privi di specifica preparazione, di assumere consapevoli scelte di impiego delle loro risorse”[26].

Dunque, in entrambi i casi (enforcement amministrativo di AGCM e soft law[27] dello IAP), emerge in modo chiaro e distinto l’obbligo di informare correttamente l’utente della pubblicità, senza indurlo in errore in merito alle caratteristiche del prodotto o del servizio, anche finanziario.

Tornando specificamente al tema del Green-washing, la possibilità di sussumere la medesima fattispecie concreta in una pluralità di norme giuridiche diverse, offre all’interprete plurimi strumenti di inquadramento del fenomeno.

E così, valorizzando i principi generali, vi è chi suggerisce che “Ove si consideri, come ritenuto da alcuni, che il principio di tutela dell’ambiente, e più in generale dello sviluppo, trovi in Italia una tutela costituzionale, seppur in una forma timida nella versione di origine della Carta costituzionale, il “green-washing” potrebbe generare anche una responsabilità extra-contrattuale per violazione di norme di ordine pubblico”[28].

Al riguardo, va notato, per completezza, che la Carta costituzionale Italiana si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali, secondo la dottrina di settore, rientra anche il principio dello sviluppo sostenibile[29]

Passando invece dai principi generali alle previsioni particolari, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria non si è accontentato di applicare le regole già esistenti[30], ma ha fronteggiato l’inedita espansione del fenomeno introducendo una disposizione ad hoc, destinata a svolgere il ruolo di apripista[31].

Con l’entrata in vigore dell’edizione del 27 marzo 2014, al Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale è stato aggiunto un inedito art. 12, rubricato “Tutela dell’ambiente naturale”, per cui “La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”[32].

In ciò si conferma il ruolo di prevenzione giocato dall’Istituto, che – prima ancora che per ragioni sanzionatorie[33] – ha emendato il proprio Codice per motivi essenzialmente “pedagogici”, in modo da i) diffondere tra gli operatori del settore una maggiore consapevolezza per contrastare il fenomeno Green-washing, e ii) promuovere l’adozione spontanea di best practice in tema di messaggi a carattere ambientale.

Analizzando la giurisprudenza autodisciplinare è possibile ricavare alcune interessanti linee di indirizzo.

Alcuni casi appaiono particolarmente lineari, con la rivendicazione del carattere biologico o ecologico di prodotti risultati invero privi di ingredienti biologici o di origine naturale[34].

Sul punto, va peraltro sottolineato che l’onere della prova incombe sull’inserzionista, giusto il disposto dell’art. 6 c.a., ai sensi del quale “Chiunque si vale della comunicazione commerciale deve essere in grado di dimostrare, a richiesta del Giurì o del Comitato di Controllo, la veridicità dei dati, delle descrizioni, affermazioni, illustrazioni e la consistenza delle testimonianze usate”.

E così è stato evidenziato come “il mancato assolvimento dell’onere probatorio crea una lacuna che si riflette negativamente sulla valutazione di liceità del messaggio in ordine alle affermazioni in esso contenute e determina necessariamente una presunzione di ingannevolezza delle stesse”[35].

In altri casi, seppure in presenza di elementi documentali a supporto (es. studi scientifici), è stata comunque affermata la necessità che il claim non sia generico, poiché la ratio e il disposto dell’art. 12 c.a. richiedono “che la comunicazione commerciale nel prospettare un beneficio ambientale debba “consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzati i benefici vantati si riferiscono”. Ciò in ragione del fatto che la sensibilità verso i problemi ambientali è oggi molto elevata e le virtù ecologiche decantate da una impresa o da un prodotto possono influenzare le scelte di acquisto del consumatore medio. Ne consegue che non è conforme ad un’esigenza di effettiva tutela dell’ambiente che i vanti ambientali divengano frasi di uso comune, prive di concreto significato ai fini della caratterizzazione e della differenziazione dei prodotti.”[36].

Più in generale, la giurisprudenza autodisciplinare (decisioni del Giurì e ingiunzioni definitive del Comitato di Controllo) ha posto in rilievo che la pubblicità ambientale può fare riferimento, implicitamente o esplicitamente: alla relazione tra prodotto e ambiente; alla promozione di uno stile di vita eco-compatibile; alla presentazione di un’immagine aziendale caratterizzata dall’impegno ambientale. E ciò, mediante l’utilizzo di dichiarazioni ambientali “verdi” che devono essere chiare, veritiere, accurate e non fuorvianti, basate su dati scientifici presentati in modo comprensibile.

In conclusione, a fronte di un’espansione rapida del fenomeno patologico del Green-washing, si registra la convergenza di una pluralità di soggetti regolatori e di normative di riferimento, tutte accomunate dall’obiettivo di garantire il rispetto di un principio generale di verità del messaggio che abbia anche carattere pubblicitario[37].

E qui, l’introduzione di una previsione ad hoc quale l’art. 12 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale e lo sviluppo di una corposa giurisprudenza autodisciplinare possono costituire un elemento di traino, sia de iure condendo (nell’ottica di futuri interventi da parte del legislatore) sia de iure condito (contribuendo a ridefinire il perimetro delle best practice e dei principi di correttezza professionale che gli operatori del mercato sono chiamati a implementare).

 

[*] Simone Davini, Head of Legal & Corporate Affairs, Credit Agricole Corporate & Investment Bank, Italy; Stefano Conti, C&P Law / Tax Founder; Carlo Orlandi – Presidente del Comitato di Controllo dell’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria; Francesco Chrisam, C&P Law / Tax – Dottore di ricerca in Diritto privato, Proprietà intellettuale e Concorrenza all’Università degli Studi di Pavia.

[1] Il Green-washing è un neologismo dall’inglese “Green” (“ecologico”) e “Whitewashing” (“imbiancare”, “mascherare”), con cui si allude alla “Strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo” (così Treccani online).

[2] Cfr. Mario Libertini, La comunicazione pubblicitaria e l’azione delle imprese per il miglioramento ambientale, in Giur. comm., 2012, 331 ss..

[3] Sul punto v. ex multis Eric L. Lane, Consumer Protection in the Eco-mark Era: A Preliminary Survey and Assessment of Anti-Green-washing Activity and Eco-mark Enforcement, 9 J. MARSHALL REV. INTELL. PROP. L. 742 (2010).

[4] Invero descrittivi.

[5] I dati relativi al deposito dei marchi “green” negli USA sono forniti nello studio di Glen A. Gunderson, 2008 Dechert LLP Annual Report On Trends In Trademarks 1–2, (2008).

[6] Si pensi, ad esempio, al difficile cammino dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici del 2015, entrato in vigore il 4 novembre 2016 a seguito della ratifica da parte di un numero di Stati tale da rappresentare almeno il 55% delle emissioni globali di gas a effetto serra; accordo internazionale su cui ha inciso non poco il revirement dell’amministrazione americana sotto il Presidente Trump (particolarmente nota la polemica con l’attivista Greta Thunberg), con successiva nuova adesione del 19 febbraio 2021 con la presidenza Biden.

[7] L’intera provincia nord-occidentale della British Columbia è stata martoriata tra la fine di giugno e l’inizio di luglio 2021 da temperature oltre i 50° Celsius, con centinaia di morti e di incendi, e la conseguente distruzione del villaggio simbolo di Lytton. Sul punto cfr. l’eloquente report Western North American extreme heat virtually impossible without human-caused climate change, elaborato dalla World Weather Attribution (con capofila l’Environmental Change Institute, University of Oxford), consultabile al link https://www.worldweatherattribution.org/western-north-american-extreme-heat-virtually-impossible-without-human-caused-climate-change/, secondo cui “Looking into the future, in a world with 2°C of global warming (0.8°C warmer than today which at current emission levels would be reached as early as the 2040s), this event would have been another degree hotter. An event like this – currently estimated to occur only once every 1000 years, would occur roughly every 5 to 10 years in that future world with 2°C of global warming […] In either case, the future will be characterized by more frequent, more severe, and longer heatwaves, highlighting the importance of significantly reducing our greenhouse gas emissions to reduce the amount of additional warming. The latest heat-related death numbers are alarming, yet they are likely a severe undercount and the real toll will only become clear after mortality statistics are reviewed for the role of heat in exacerbating underlying conditions”. Anche la Germania Nord-Occidentale è stata recentemente martoriata da un’ondata di piogge torrenziali, che non si vedevano da secoli e che hanno avuto conseguenze catastrofiche: secondo la maggioranza degli esperti, tali fenomeni si collegano all’aumento delle temperature su scala globale (c.d. “global warming”)

[8] COM(2019) 640 final.

[9] Next Generation Italia, PNRR, 9.

[10] Ivi, 18 ss., ove si afferma che “L’Italia è particolarmente esposta ai cambiamenti climatici e deve accelerare il percorso verso la neutralità climatica nel 2050 e verso una maggiore sostenibilità ambientale. Ci sono già stati alcuni progressi significativi: tra il 2005 e il 2019, le emissioni di gas serra dell’Italia sono diminuite del 19 per cento. Ad oggi, le emissioni pro capite di gas climalteranti, espresse in tonnellate equivalenti, sono inferiori alla media UE. Tuttavia, il nostro Paese presenta ancora notevoli ritardi e vulnerabilità […] Il PNRR è un’occasione straordinaria per accelerare la transizione ecologica e superare barriere che si sono dimostrate critiche in passato. Il Piano introduce sistemi avanzati e integrati di monitoraggio e analisi per migliorare la capacità di prevenzione di fenomeni e impatti. Incrementa gli investimenti volti a rendere più robuste le infrastrutture critiche, le reti energetiche e tutte le altre infrastrutture esposte a rischi climatici e idrogeologici”.

[11] Acronimo per “Environmental”, “Social” e “Governance”, con cui si designano gli investimenti effettuati in previsione del perseguimento di un obiettivo ambientale (per cui cfr. Simone Davini e Pierre de Gioia Carabellese, Derivati ESG ed altri prodotti finanziari sostenibili, in Diritto Bancario, Giugno 2021, consultabile al link http://www.dirittobancario.it/approfondimenti/derivati/derivati-esg-ed-altri-prodotti-finanziari-sostenibili, ove si richiama anche lo studio ISDA, Overview of ESG-related Derivatives Products and Transactions, 11 gennaio 2021, in https://www.isda.org/2021/01/11/overview-of-esg-related-derivatives-products-and-transactions/

[12] Così Davini e Carabellese, ivi, 1 s., laddove gli Autori non mancano di sottolineare anche gli ulteriori apporti di tali strumenti in termini di trasparenza, migliore definizione del prezzo, efficienza del mercato, nonché adozione di prospettive di lungo periodo.

[13] Si tratta di un modello societario introdotto in Italia – sulla scorta dell’esperienza nordamericana – con Legge di stabilità per l’anno 2016; in particolare, l’art. 1 co. 376 l. 28 dicembre 2015 n. 208 specifica che si tratta di società “che nell’esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse”.

[14] In questi termini si esprime Alessandra Daccò, Le società benefit tra interesse dei soci e interesse dei terzi: il ruolo degli amministratori e i profili di responsabilità in Italia e negli Stati Uniti, in Banca Borsa Titoli di Credito, fasc. 1, 1° febbraio 2021, 40 ss., in particolare sub par. 2, secondo cui ciò consente di controbilanciare, ad esempio, i maggiori costi organizzativi dovuti alla nomina di un soggetto espressamente incaricato della gestione delle politiche per il perseguimento delle finalità di beneficio comune, nonché quelli legati alla predisposizione di una relazione annuale con valutazione dei risultati effettuata da un soggetto terzo.

[15] Per una ricognizione del fenomeno in campo pubblicitario cfr. Vincenzo Guggino e Chiara Alvisi (a cura di), Autodisciplina Pubblicitaria. La soft law della pubblicità italiana, Giappichelli, Torino, 2020, 195 ss..

[16] Obblighi da ultimo imposti dal nuovo Regolamento (UE) 2019/2088 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 novembre 2019 in materia di trasparenza circa la sostenibilità nel settore dei servizi finanziari (in vigore dal 10 marzo 2021).

[17] Così Davini e Carabellese, ivi, 8 s., secondo cui “In riferimento allo specifico tema degli ESG derivatives, il rischio in questione viene sinteticamente definito in gergo quale “green-washing risk””.

[18] Ad esempio, in campo finanziario, si pensi agli artt. 8, 10 e 11 del Regolamento (UE) 2019/2088 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 novembre 2019 relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari (la cosiddetta “Sustainable Finance Disclosure Regulation” o “SFDR”), che introducono apposite previsioni in tema di trasparenza della promozione delle caratteristiche ambientali o sociali nell’informativa precontrattuale, sui siti web e nelle relazioni periodiche (con decorrenza 10 marzo 2021), su cui vigila la CONSOB (cfr. Richiamo di attenzione CONSOB n. 3/21 del 4 marzo 2021).

[19] Ai sensi e per gli effetti del D.lgs. 2 agosto 2007 n. 145: attuazione dell’articolo 14 della direttiva 2005/29/CE che modifica la direttiva 84/450/CEE sulla pubblicità ingannevole. Un’ulteriore modifica è stata recentemente apportata dalla Direttiva (UE) 2019/2161 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 novembre 2019 che modifica la direttiva 93/13/CEE del Consiglio e le direttive 98/6/CE, 2005/29/CE e 2011/83/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per una migliore applicazione e una modernizzazione delle norme dell’Unione relative alla protezione dei consumatori (gli Stati Membri dovranno attuarla entro il 28 novembre 2021 e le misure dovranno entrare in vigore a decorrere dal 28 maggio 2022). Il D.lgs 145 /2007 è oggetto anche di rinvio da parte di alcune normative di settore: si pensi, ad esempio, all’art. 1 co. 384 l. 208/2015, secondo cui “La società benefit che non persegua le finalità di beneficio comune è soggetta alle disposizioni di cui al decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145, in materia di pubblicità ingannevole e alle disposizioni del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato svolge i relativi compiti e attività, nei limiti delle risorse disponibili e senza nuovi o maggiori oneri a carico dei soggetti vigilati”.

[20] Come noto, il Codice del consumo (D. lgs. 6 settembre 2005, n. 206) vieta le pratiche commerciali scorrette agli artt. 20 ss., distinguendole in a) ingannevoli, b) aggressive. L’art. 27 affida l’enforcement amministrativo all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), prevedendo un incisivo apparato sanzionatorio.

[21] Ai sensi e per gli effetti dell’art. 2598 c.c., che al n. 3 qualifica come sleale la condotta di chi “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”. In giurisprudenza è stato ampiamente chiarito che “Va poi tenuto presente che la sanzione avverso la pubblicità ingannevole ed in genere avverso le pratiche ingannevoli mira a tutelare sia le imprese che i consumatori. Infatti, la pubblicità ingannevole può essere suscettibile di ledere le imprese concorrenti, falsando il gioco della concorrenza sul mercato, e venendo quindi in rilievo ai fini di azioni di tipo inibitorio e risarcitorio secondo le norme del Codice civile ed in particolare quale atto di concorrenza sleale, in base alla previsione di cui al ti. 3 dell’art. 2598 c.c.., in quanto pratica contraria ai principi della correttezza professionale. L’art. 27 comma 15 del Codice del Consumo fa salva la giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell’art. 2598 c.c.” (così, ex multis, Trib. Milano, Sez. Proprietà Industriale e Intellettuale, 2 aprile 2013 n. 4500).

[22] Il riferimento è al Codice di Autodisciplina Pubblicitaria IAP.

[23]Art. 1 lett. a) D.lgs. 145/2007.

[24] Così Laura Marchegiani, Riflessioni su informazione non finanziaria, comunicazione di impresa e fiducia degli stakeholders, in Osservatorio del diritto civile e commerciale, 1, 2021, 20.

[25] Così Relazione annuale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, 1997, 242 s..

[26] L’art. 27 c.a. prosegue poi soggiungendo “Essa in particolare: deve evitare, nell’indicare i tassi annui di interesse, di utilizzare termini quali “rendita” e “resa” nel senso di sommatoria fra reddito di capitali e incremento del valore patrimoniale; non deve incitare ad assumere impegni e a versare anticipi senza offrire idonee garanzie; non deve proiettare nel futuro i risultati del passato né comunicare i rendimenti ottenuti calcolandoli su periodi che non siano sufficientemente rappresentativi in relazione alla particolare natura dell’investimento e alle oscillazioni dei risultati. La comunicazione commerciale per le operazioni immobiliari deve essere espressa in forme atte a evitare l’ingannevolezza derivante dal far passare investimenti mobiliari per immobiliari o dal privilegiare l’aspetto economico immobiliare senza fornire adeguate indicazioni sulla reale natura mobiliare dell’investimento. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla comunicazione commerciale relativa all’attività bancaria e a quella assicurativa, quest’ultima quando sia necessario metterne in evidenza l’aspetto di investimento”.

[27] Infatti, “Le normative del codice di autodisciplina pubblicitaria hanno natura privata, promanando dall’Istituto di autodisciplina pubblicitaria che è un’associazione costituita dagli organismi (anch’essi privati) rappresentativi delle varie categorie di operatori pubblicitari” (in questo senso Maurizio Fusi e Paolina Testa, Diritto e pubblicità, Lupetti, Milano, 2006, 322). La portata dell’applicazione del Codice IAP è estesa attraverso la cosiddetta “clausola di accettazione” (cfr. in questo senso A. Pedriali Kindler, Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale LXV edizione. Introduzione, in L.C. Ubertazzi, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, 7 ed., Wolters Kluwer – CEDAM, 2019, 2646, ove si specifica che “A partire dal 1971 il c.a. pone a tutti coloro che lo hanno accettato direttamente o indirettamente l’obbligazione di inserire nei contratti di pubblicità una “speciale clausola di accettazione del Codice e delle decisioni” degli organi di giustizia autodisciplinare. Questa clausola rappresenta lo strumento negoziale escogitato per assoggettare al c.a. gli utenti della pubblicità non altrimenti obbligati”).

[28] Così Davini e Carabellese, ivi, 8 s., i quali soggiungono che “In aggiunta a ciò, si porrebbe anche un tema di diritto internazionale privato, quello del coordinamento fra la legge inglese e la giurisdizione che solitamente si applicano al “derivato” e la legge italiana che (almeno per le operazioni con controparti nostrane) reggerebbe di regola il rapporto sottostante”.

[29]Ex multis vedi Barral (V.), “The Principle of Sustainable Development” in Ludwig Kramer et al (eds.), Principles of Enviromental Law (Edward Elgar 2018) pp. 103-114.; e sempre Barral (V.) “Sustainable Development in International Law: Nature and Operation of an Evolutive Legal Norm”, Eur. J. Int.l L. 23(2), (2012), 377-400.

[30] Al contrario, AGCM, stante il quadro normativo immutato, ha applicato le disposizioni vigenti senza riferimenti espressi al Green-washing in quanto tale (cfr. ex multis caso Olive Italia – Pannolini Nappynat, Provvedimento n. 26298/2017, nel procedimento PS10389).

[31] Si conferma così il ruolo propulsivo giocato dallo IAP, che sin dal 1966 ha contribuito in modo determinate a colmare l’originario deserto normativo e a costruire con gli operatori del settore una vera e propria deontologia del messaggio pubblicitario, anticipando di molto i successivi interventi legislativi a tutela del consumatore. Come evidenziato da Vincenzo Guggino, La dimensione europea dell’autodisciplina pubblicitaria, CRIO Papers n. 29, 2015, 7, “Fino all’attribuzione all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato di poteri in tema di pubblicità ingannevole (1992), l’Autodisciplina pubblicitaria ha sempre svolto un ruolo di pressoché assoluta centralità nel controllo della pubblicità, e si può senz’altro affermare che, anche sotto il profilo consumeristico, gli interessi dei consumatori ad una pubblicità corretta hanno ricevuto protezione nella misura in cui l’Autodisciplina ha dato loro rilievo e tutela”.

[32] Art. 12 c.a..

[33] Infatti, anche prima della modifica del 2014 gli organi della giustizia autodisciplinare (Comitato di controllo e Giurì) avevano comunque la possibilità di intervenire sulla scorta del principio di verità, codificato a partire dall’art. 1 c.a..

[34] V. Comitato di controllo, ingiunzione n. 30/2015, relativa ai prodotti “Rio Biologico” e “Rio Ecologico Amici Domestici”; analogamente, cfr. Giurì, pronuncia n. 69/2016, relativa ai prodotti “Nappynat”, che riportavano una serie di indicazioni di qualità anche ecologica del prodotto.

[35] Così Comitato di controllo, ingiunzione 14/17, nei confronti di Farmen International.

[36] Ibidem.

[37]A conforto di questa tendenza, si segnala l’indagine lanciata dall’Autorità UK per la Concorrenza ed il Mercato sul fenomeno del “Greenwashing”, su cui vedi Christine Graham  “UK Competition And Markets Authority Moves To Clean Up “green Washing” Marketing Claims” disponibile a <https://www.mondaq.com/uk/environmental-law/1002030/uk-competition-and-markets-authority-moves-to-clean-up-green-washing-marketing-claims>

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