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Giurisprudenza

Efficacia liberatoria al certificato ex art. 14 D.Lgs n. 472/1997 anche se prodotto successivamente alla data di trasferimento dell’azienda

6 Settembre 2017

Alessandro Giannelli, Dottore di ricerca in diritto tributario, Studio Pirola Pennuto Zei e Ass.

Cassazione Civile, Sez. V, 13 luglio 2017, n. 17264 – Pres. Cappabianca, Rel. Tricomi

Di cosa si parla in questo articolo

Con la recente sentenza del 13 luglio 2017 n. 17264 la Corte di Cassazione si è occupata di un tema particolarmente spinoso enunciando un principio che si pone in un’ottica di forte discontinuità sia con alcuni precedenti della medesima Corte, sia con la posizione dell’Amministrazione finanziaria.

La Suprema Corte si è, infatti, occupata del regime di responsabilità solidale del cessionario nei trasferimenti d’azienda secundum legem,di cui all’art. 14, commi 1, 2 e 3, del D.Lgs n. 472/1997, affermando che “la mancata richiesta del certificato di debenza da parte del cessionario non comporta un’estensione della sua responsabilità rispetto a quella delineata dal combinato disposto dei commi 1 e 2, ma gli impedisce di avvalersi dell’eventuale effetto liberatorio anticipato”.

Come più avanti chiarito, l’arresto in esame costituisce un’importante novità in quanto in precedenza la medesima Corte aveva enunciato principi opposti, ossia che il cessionario decadeva dagli effetti premiali di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 14 laddove avesse omesso di richiedere in via preventiva il certificato previsto dal medesimo comma 3.

Per meglio inquadrare la questione giuridica affrontata dalla Corte di Cassazione con la predetta sentenza, è utile ricordare che ai sensi del primo comma dell’art. 14 del D.Lgs n. 472/1997 “il cessionario è responsabile in solido, fatto salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente ed entro i limiti del valore dell’azienda o del ramo d’azienda, per il pagamento dell’imposta e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti, nonché per quelle già irrogate e contestate nel medesimo periodo anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore”[1].

La disposizione in esame, valida ai sensi del comma 5-ter del medesimo articolo anche in tutte le ipotesi di trasferimento d’azienda (come ad es. i conferimenti[2]), si pone in un’ottica derogatoria rispetto a quanto previsto dall’art. 2560 c.c.[3] secondo cui “l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. Nel trasferimento di un’azienda commerciale [c.c. 2556] risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda [c.c. 1546, 2112, 2160], se essi risultano dai libri contabili obbligatori”.

La differenza tra le due norme è evidente: mentre la seconda disposizione limita la responsabilità del cessionario a ciò che risulta nella scritture contabili obbligatorie, debiti tributari inclusi, l’art. 14 comma 1 si occupa di introdurre una tutela ulteriore a favore del Fisco estendendo la responsabilità del cessionario (solidalmente col cedente) anche ai debiti tributari incapaci di essere riflessi nelle scritture contabili (come ad es. quelli relativi alle violazioni commesse ma non ancora accertate)[4].

Tuttavia, rispetto al generale regime di responsabilità definito dal comma 1 dell’art. 14, occorre tenere presente che in base al comma 2 della medesima disposizione “l’obbligazione del cessionario è limitata al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria e degli enti preposti all’accertamento dei tributi di loro competenza”; inoltre, ai sensi del successivo comma 3“ gli uffici e gli enti indicati nel comma 2 sono tenuti a rilasciare, su richiesta dell’interessato, un certificato sull’esistenza di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti. Il certificato, se negativo, ha pieno effetto liberatorio del cessionario, del pari liberato ove il certificato non sia rilasciato entro quaranta giorni dalla richiesta”.

Nel complesso può, quindi, dirsi che il regime della responsabilità tributaria del cessionario d’azienda sembrerebbe comunque recuperare, per i trasferimenti diversi da quelli in frode alla legge[5], la ratio ispiratrice dell’art. 2560 c.c.: l’avente causa nel trasferimento in buona fede di un’azienda non può rispondere anche dei debiti “occulti” – risultando tali, in generale, quelli non trascritti nei registri contabili obbligatori (art. 2560 c.c.) e, con riferimento ai debiti tributari, quelli non risultanti dall’apposito certificato rilasciato, su richiesta, dall’Agenzia delle Entrate (art. 14, comma 3, D.Lgs n. 472/1997)[6].

L’Agenzia delle Entrate ha però implicitamente sostenuto che l’ulteriore limitazione di resposabilità prevista dal citato comma 2 dell’art. 14 sarebbe operante solo a condizione del preventivo ottenimento del certificato menzionato dal successivo comma 3[7]. In altri termini, la limitazione di responsabilità prevista dal predetto comma 2 andrebbe intesa alla stregua di un regime premiale per il contribuente diligente di cui il successivo comma 3 fornirebbe le condizioni di efficacia[8]. Dunque, seguendo tale impostazione, le disposizioni dei commi 2 e 3 sarebbero tra loro dipendenti nel senso che la regola sancita dal comma 2 risulterebbe idonea ad integrare, limitandolo, il più generale regime di responsabilità previsto dal precedente comma 1 solo ove il contribuente si sia attivato (rectius: si sia dimostrato diligente) ai sensi di quanto previsto dal successivo comma 3 – ossia acquisendo in via preventiva il citato certificato. Va da sé che seguendo questa impostazione anche l’ulteriore e specifica limitazione di resposabilità prevista dal predetto comma 3, ossia l’effetto liberatorio del certificato, dovrebbe ritenersi operante solo a condizione che il certificato “negativo” sia stato rilasciato (ovvero non rilasciato decorsi 40 giorni dalla sua richiesta) entro la data del trasferimento dell’azienda[9].

Tale linea interpretativa è stata in un certo senso confermata anche da due precedenti della Corte di Cassazione.

Infatti, con la sentenza del 14 marzo 2014 n. 5979 la Suprema Corte aveva sostenuto che “il comma 1 dell’articolo 14 (…) mira a fondare una responsabilità oggettiva – per così dire "in bianco" – del soggetto cessionario per tutti i debiti fiscali del cedente relativi al triennio anteriore alla cessione, anche se al momento della cessione ancora incerti nell’"an", ancorando tale responsabilità alla condotta omissiva dello stesso cessionario il quale non ha ritenuto di assolvere all’onere di diligenza, informandosi preventivamente presso gli Uffici finanziari della eventuale esposizione debitoria del cedente. La disposizione, al fine di evitare eventuali elusioni fiscali attuate mediante la cessione d’azienda, accolla infatti sul cessionario – che non si premuri di richiedere agli uffici finanziari l’attestazione relativa alla situazione debitoria del cedente nel triennio – il rischio di rispondere per l’eventuale maggior debito fiscale, anche se occultato dal cedente o non ancora accertato dalla Amministrazione al tempo della cessione”[10]. Similmente con la successiva sentenza del 10 aprile 2017, n. 9219, la Corte di Cassazione, partendo dalle medesime premesse assunte nella precedente sentenza n. 5979/2014, ha disposto la Cassazione della sentenza impugnata atteso “che la CTR ha omesso di considerare che la produzione del certificato, richiesto successivamente alla cessione (…), avrebbe dovuto reputarsi irrilevante rispetto all’obbligo di diligenza posto a carico della cessionaria per ottenere la limitazione di responsabilità rispetto all’eventuale esposizione debitoria della cedente”.

Il suddetto orientamento della Cassazione, come già fatto presente, ha però subito un’importante inversione di tendenza con più recente sentenza n. 17264 del 13 luglio 2017. In particolare, con tale pronuncia i giudici di legittimità hanno, infatti, osservato che “non può (…) ritenersi che sia stato posto a carico del cessionario l’onere di diligenza di richiedere la certificazione di carichi pendenti, atteso che la norma attribuisce una facoltà chiaramente di favore per il contribuente, in quanto gli riconosce la possibilità di conseguire una liberatoria anticipata, né che la limitazione della responsabilità solidale del cessionario al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’Amministrazione finanziaria sia riservata solo al cessionario che abbia preventivamente comunicato l’operazione di cessione di azienda agli Uffici finanziari, richiedendo l’attestazione della posizione debitoria del cedente (così Cass. n. 5979/2014)”.

Dunque, mutando il proprio precedente indirizzo, e sconfessando inoltre la tesi erariale enunciata nella ricordata circolare ministeriale n. 180/1998, la Corte di Cassazione è giunta a sposare la tesi secondo cui le disposizioni recate dai commi 2 e 3 dell’art. 14 del D.Lgs n. 472/1998 sarebbero tra loro reciprocamente indipendenti – visto che la limitazione prevista dal comma 2 opererebbe anche in assenza di un certificato richiesto in via preventiva. In tale ottica al cessionario sarebbe offerta la facoltà e non l’obbligo di richiedere il suddetto certificato al fine di ottenere in via anticipata una liberatoria (ai sensi del comma 3, ultimo periodo) o una limitazione (in forza del comma 2) della propria responsabilità, ferma restando però la possibilità di far valere le medesime circostanze anche in via successiva rispetto alla data del trasferimento dell’azienda.

La conclusione raggiunta dalla suddetta sentenza n. 17264/2017 appare, a ben vedere, pienamente giustificata. Infatti, in base al tenore letterale dei commi 2 e 3 dell’art. 14, non si rintraccia alcun riferimento all’obbligo di una richiesta preventiva del certificato ed inoltre il venir meno degli effetti limitativi o liberatori dell’eventuale certificato richiesto dal cessionario risulta espressamente previsto, in base a quanto riportato al successivo comma 4 del medesimo art. 14, soltanto nel caso di trasferimento in frode[11] – lasciando, quindi, del tutto impregiudicati i casi di mancata richiesta ovvero di acquisizione del certificato in data successiva a quella di trasferimento dell’azienda[12].

Pertanto, in disaccordo con la tesi della ricorrente Agenzia delle Entrate, la Corte di Cassazione conclude affermando che deve essere respinta “una interpretazione dall’art. 14, commi 2 e 3, che faccia conseguire alla mancata richiesta del certificato di debenza una ancor più estesa responsabilità del cessionario”in quanto se così fosse si “finirebbe per avvicinare il regime della cessione conforme a legge, ingiustificatamente e in contrasto con il dettato normativo, a quello previsto per il caso di frode”.

Peraltro, in base a tale impostazione, la Corte di Cassazione ha, nello specifico, giudicato del tutto infondata la prospettazione della ricorrente Agenzia delle Entrate secondo cui l’inciso “debito risultante alla data del trasferimento” di cui al comma 2 dell’art. 14 avrebbe dovuto intendersi non nel senso che la resposabilità del cessionario era limitata ai debiti già quantificati dall’Agenzia delle Entrate a tale data, essendo, invece, – a dire dell’Agenzia – corretta la diversa interpretazione secondo cui il predetto inciso si riferirebbe ai debiti imputabili alla predetta data benché quantificati dall’Agenzia anche in base a documenti ed accertamenti eseguiti in data successiva al trasferimento dell’azienda[13].

La Cassazione respinge tale ipotesi in quanto, se la logica del certificato di cui al comma 3 è quella di garantire al contribuente la facoltà di farsi attestare la posizione debitoria del cedente alla data del trasferimento, va da sé che tale posizione non è suscettibile di essere ampliata ex post laddove il contribuente, nell’esercizio di una legittima facoltà, non richieda il predetto certificato – salvo voler ingiustamente ammettere (e ciò non è possibile) una sostanziale equiparazione tra il trasferimento dell’azienda in frode alla legge e il trasferimento in assenza di certificato[14]. E in effetti l’opposta conclusione risulterebbe anche del tutto illogica: atteso che il certificato in questione si limita ad accertate i debiti e non a costituirli, non v’è modo di sostenere che quest’ultimi possano variare a seconda che il certificato venga o meno richiesto – o il debito già esiste alla data del trasferimento o non esiste: tertium non datur.

Ciò posto, da quanto precede sembra potersi inferire un’importante implicazione: se la mancata richiesta ed acquisizione del certificato entro la data del trasferimento dell’azienda impedisce soltanto di avvalersi in via anticipata del suo effetto limitativo (comma 2) o liberatorio (comma 3, ultimo periodo), allora deve ritenersi impregiudicata la possibilità di invocare ex post tale certificato (ossia acquisendolo dopo la data di trasferimento) al fine di ottenere il medesimo effetto limitativo o liberatorio[15].

Per meglio comprendere la portata di tale implicazione merita di essere sottolineato che i certificati in questione coinvolgono almeno due diverse “date”: da un lato la data di presentazione della richiesta, dall’altro la data di consegna da parte dell’Ufficio del medesimo certificato (che in genere – ma non sempre – coincide con quella a cui l’Agenzia delle Entrate attesta di aver controllato la posizione debitoria del cedente).

Muovendo da tale constatazione, s’immagini il caso in cui il cessionario presenti all’Ufficio, alla data del trasferimento dell’azienda, la richiesta per il certificato ex comma 3 del citato art. 14 – così da averlo “aggiornato” alla situazione debitoria sussistente esattamente all’istante del trasferimento (conformemente, quindi, a quanto previsto dal comma 2 del medesimo articolo); ovviamente, giacché l’Ufficio ha tempo 40 giorni per rilasciare il suddetto certificato, quest’ultimo verrà ragionevolmente acquisito dal cessionario solo successivamente alla data del trasferimento[16].

Ebbene, in base al precedente orientamento della Corte di Cassazione e alla ricordata posizione dell’Amministrazione finanziaria, il certificato de quo non avrebbe avuto alcuna rilevanza sul piano della sua efficacia liberatoria (ove da esso non fossero risultate iscrizioni o se non rilasciato entro 40 giorni) e, in ogni caso, il cessionario non avrebbe potuto invocarlo neanche per beneficiare delle limitazioni fornite dal comma 2 del suddetto art. 14.

Dunque, seguendo questa impostazione, per potere accedere ai suddetti effetti premiali il cessionario non aveva che una scelta: richiedere il certificato con largo anticipo rispetto alla data del trasferimento (i.e. almeno 40 giorni prima).

Un simile espediente non è però immune da problemi.

In primo luogo, occorre tenere presente che nella citata circolare ministeriale n. 180/1998 è stato precisato che “il cessionario non può ritenersi esonerato da responsabilità con riferimento al periodo intercorrente tra la data di rilascio del certificato (o la data di scadenza del termine dei quaranta giorni in caso di mancato rilascio) e quella in cui avviene il trasferimento dell’azienda”. Quindi, ove il certificato de quo venga rilasciato prima della data del trasferimento (come sovente accade, vista la difficoltà di prevedere i tempi di rilascio degli Uffici),il cessionario non potrebbe avvantaggiarsi degli eventuali effetti benefici del suddetto certificato rispetto ai debiti che dovessero “emergere” nel periodo interinale tra la data a cui è stato rilasciato il certificato già acquisito e la data di trasferimento dell’azienda. In sostanza, il cessionario, per poter ottenere una piena “copertura”, dovrebbe farsi rilasciare il certificato esattamente alla data di trasferimento – ipotesi, tuttavia, particolarmente inverosimile non essendo in genere possibile prevedere la data di rilascio.

Un ulteriore problema è poi rappresentato dal fatto che i certificati rilasciati dagli Uffici attestano la situazione debitoria del cedente riferendosi alla data di presentazione della richiesta, viste le risultanze ad una certa data del sistema informativo dell’anagrafe tributaria o di altri dati in possesso dell’Ufficio[17]; quest’ultima data, tuttavia, potrebbe materialmente non coincidere con quella di rilascio del certificato[18]; pertanto, nel caso in cui le predette date non coincidano[19] si pone il non trascurabile problema dell’opponibilità del certificato anche per i debiti sorti prima della data di rilascio del certificato ma successivamente alla data indicata sul medesimo certificato a cui l’Agenzia attesta di aver controllato la posizione debitoria del cedente.

Le difficoltà appena segnalate mal si conciliano, evidentemente, con la ratio delle disposizioni dei commi 2 e 3 dell’art. 14, soprattutto laddove queste siano da interpretare alla stregua di un regime premiale per il cessionario diligente – come espressamente affermato dai ricordati precedenti della Corte di Cassazione.

Per ovviare a tali questioni si dovrebbe almeno poter ammettere – ma non vi sono riscontri ufficiali al riguardo – che gli oneri di diligenza del cessionario possano considerarsi comunque assolti laddove quest’ultimo, esattamente 40 giorni prima della data del trasferimento, si premuri di richiedere il certificato ex comma 3 dell’art. 14 considerando però a tal fine del tutto irrilevante la circostanza in cui detto certificato venga poi materialmente rilasciato dall’Ufficio prima del decorso dei suddetti 40 giorni ossia prima della data di trasferimento dell’azienda – ciò anche nell’ottica di garantire che il contribuente a cui venga rilasciato il certificato non sia potenzialmente (ed irragionevolmente) soggetto ad un regime di responsabilità più oneroso[20] di quello che sarebbe, invece, applicabile al contribuente a cui il certificato non venga rilasciato entro il termine previsto (operando in tal caso la regola secondo cui, se non rilasciato entro 40 giorni dalla richiesta, il certificato ha pieno effetto liberatorio).

Tuttavia, i problemi a cui si è appena fatto cenno potrebbero in un certo qual senso dirsi rimossi in radice alla luce della citata sentenza n. 17264/2017 della Corte di Cassazione.

Infatti, in base a tale pronuncia, alla mancata richiesta in via preventiva del suddetto certificato non può essere ricollegata alcuna conseguenza peggiorativa sul piano della responsabilità del cessionario[21], eccezion fatta per la possibilità (in tal caso evidentemente preclusa) di avvalersi in via anticipata dell’effetto liberatorio o limitativo del certificato de quo.

Pertanto, per tornare all’esempio appena considerato, il cessionario dovrà ritenersi del tutto legittimato a presentare la richiesta per il suddetto certificato esattamente alla data del trasferimento dell’azienda, in modo tale da ottenere una certificazione pienamente in linea con il requisito temporale posto dal comma 2 dell’art. 14, senza temere che l’opponibilità di tale certificato possa poi essere messa in discussione dal fatto che il medesimo sarà acquisito solo successivamente alla data di trasferimento dell’azienda – naturalmente per ovvie esigenze[22] è consigliabile presentare anche una richiesta di certificato in via preventiva in modo tale da avere cognizione, prima del perfezionarsi del trasferimento, delle responsabilità a cui si andrà incontro prima che queste vengano a traslarsi in via definitiva in capo al cessionario in esito al trasferimento dell’azienda cui si riferiscono.

 

[1] Sul punto è utile tenere presente che secondo la C.M. del 10 luglio 1998, n. 180/E-110100, “il beneficio della previa escussione accordato al cessionario, impone all’ufficio o all’ente di procedere, anzitutto, in via esecutiva nei confronti del cedente. Chiusa questa fase, il credito (residuo) può essere fatto valere nei confronti del cessionario”; inoltre, nella medesima circolare viene precisato che “il valore dell’azienda o del ramo di azienda da assumere quale limite alla responsabilità solidale del cessionario è quello accertato dal competente ufficio delle entrate o del registro ovvero, in mancanza di accertamento, quello dichiarato dalle parti”.


[2] Per un inquadramento generale della nozione di “trasferimento” rilevante ai fini della presente disciplina si veda lo studio curato dalla Fondazione Nazionale dei Commercialisti, La res ponsabilità tributaria del cessionario di azienda e la nozione di “trasferimento di azienda”, 15 maggio 2016. In particolare in tale studio si afferma che “il trasferimento di azienda si verifichi nel caso in cui vi sia un cambiamento nella titolarità d’esercizio della stessa e che la cessione sia un’obbligazione particolare che è possibile ravvisare nei più diversi negozi, indipendentemente dalla traslazione della proprietà. In questa direzione interpretativa, l’affitto e l’usufrutto rientrerebbero a pieno titolo nella definizione di trasferimento di azienda – nozione che quindi assumerebbe un connotato di generalità più ampio di quello di cessione – esattamente con quanto previsto nel giuslavoristico articolo 2112 del codice civile. Si evidenzia che in tali ipotesi si assisterà a un doppio trasferimento: il primo al momento della stipula del contratto e il secondo al momento del suo scioglimento. In sostanza l’articolo 14 del D. Lgs. n. 472/1997 risulterebbe applicabile nelle seguenti ipotesi (salvo nell’evenienza del comma 5-bis, ossia nel caso in cui tali negozi siano inseriti in uno dei casi previsti per le società in crisi, a meno che non sia ravvisabile un intento fraudolento): la vendita, il conferimento, la permuta, la datio in solutum, l’acquisto delle nuda, proprietà, la donazione, l’affitto, l’usufrutto” (pp. 20-21).

[3] Infatti la norma in esame, rispetto all’art. 2560, comma 2, c.c. introduce misure antielusive a tutela dei crediti tributari al fine di evitare che attraverso il trasferimento dell’azienda sia dispersa la garanzia patrimoniale del contribuente in pregiudizio dell’interesse pubblico (Cass. n. 11972/2015; Cass. n. 5979/2014; Cass. n. 14169/2013 nonché BAGGIO, R., Appunti in tema di responsabilità tributaria del cessionario di azienda, in Rass. trib., 3, 1999, p. 738). La solidarietà del cessionario non ha, quindi, natura sanzionatoria, rispondendo esclusivamente ad esigenze di garanzia patrimoniale.

[4] Dunque la responsabilità ex art. 2560 c.c. resta ferma e può quindi senza dubbio essere invocata dall’Agenzia delle Entrate, benché soltanto con riferimento ai debiti tributari iscritti nei libri contabili obbligatori. Sul punto è utile ricordare quanto precisato dalla ricordata sentenza n. 17264/2010 secondo cui “dall’esame dell’art. 14, comma 1, cit., si evince, infatti, che il legislatore, con questa norma, non ha inteso regolare la responsabilità solidale per i debiti fiscali conseguenti alla normale attività dichiarativa delle parti private – per i quali vale la disciplina civilistica ex art.2560 cod. civ. -, ma la ha espressamente prevista per i debiti conseguenti alle violazioni tributarie compiute dal cedente, rispetto alle quali l’Amministrazione deve avviare una propria complessa attività accertativa, di guisa che non è nemmeno ipotizzabile che possano risultare dai libri contabili. Proprio per tale ragione questa disciplina prescinde dalla condizione prevista invece dall’art. 2560 c.c., comma 2, – come si è visto a tutela dei creditori, ma anche del cessionario – e cioè dalla annotazione della debitoria sui libri contabili obbligatori”.

[5] In tal caso, infatti, il comma 4 prevede che “la responsabilità del cessionario non è soggetta alle limitazioni previste nel presente articolo qualora la cessione sia stata attuata in frode dei crediti tributari, ancorché essa sia avvenuta con trasferimento frazionato di singoli beni”. Sul punto il successivo comma 5 prevede, inoltre, che “la frode si presume, salvo prova contraria, quando il trasferimento sia effettuato entro sei mesi dalla constatazione di una violazione penalmente rilevante”.

[6] In tal senso il certificato ex art. 14 svolgerebbe una funzione analoga a quella delle scritture contabili obbligatorie nell’ambito dell’art. 2560 c.c.

[7] Cfr. Agenzia delle Entrate, C.M. n. 180/1998 secondo cui “il comma 2 prevede un’ulteriore limitazione della responsabilità del cessionario … Di conseguenza, secondo quanto espressamente previsto dal comma 3, gli uffici e gli enti … sono tenuti a rilasciare all’interessato che ne faccia richiesta un certificato (…) in ordine all’esistenza di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati ancora soddisfatti alla data della richiesta”. Successivamente è specificato, in modo ultroneo, in quanto lo si dovrebbe dare per scontato, che “nel certificato devono essere enunciate anche le violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione o nel biennio precedente e già constatate dall’ufficio”.

[8] Sul tema si veda, inter alia, PALANCA M. e INGRASSIA R., Responsabilità solidale nei trasferimenti d’azienda tra tutela erariale e certezza delle transazioni, in Corriere trib., 2016, p. 192; BAGGIO, R., Appunti in tema di responsabilità tributaria del cessionario di azienda, in Rass. trib. 1999, 3, p. 738; MARINI G., Note in tema di responsabilità per i debiti tributari del cessionario di azienda, in Riv. dir. trib., 2009, I, p. 181; DONATELLI S., Osservazioni sulla responsabilità tributaria del cessionario d’azienda, in Rass. trib., 2003, p. 486; DEL FEDERICO L., Cessione di azienda e responsabilità per i debiti tributari, in Corriere trib., 2002, p. 3670.

[9] Quindi, seguendo questa impostazione, la richiesta “preventiva” (ossia non oltre la data di trasferimento dell’azienda) sarebbe funzionale non solo a consentire al cessionario di verificare ex ante la propria eventuale responsabilità verso il Fisco, ma anche – e soprattutto – per rendere operanti gli effetti “premiali” previsti dai ricordi commi 2 e 3 dell’art. 14.

[10] In quest’ottica la medesima sentenza precisa che “la disposizione del comma 1 viene a regolare, infatti, una ipotesi autonoma rispetto a quella della successiva disposizione del comma 2 (…) che limita, invece, la responsabilità solidale del cessionario (…) intendendo tal caso favorire (limitandone ulteriormente la responsabilità) il cessionario che abbia preventivamente comunicato l’operazione di cessione di azienda agli Uffici finanziari, richiedendo l’attestazione della posizione debitoria del cedente. Risulta infatti evidente in tal caso che, quando anche il cedente avesse "commesso delle violazioni finanziarie" nel triennio in questione, ma queste non fossero ancora emerse all’atto del trasferimento di azienda (essendosi limitato l’Ufficio a compiere, come nel caso di specie, soltanto attività di acquisizione dati), alcun debito fiscale a carico del cedente potrebbe risultare dagli atti dell’Amministrazione finanziaria in difetto di alcuna "constatazione" della violazione o del presupposto impositivo, e dunque il cessionario, in base a tale attestazione negativa rilasciata dall’Ufficio, non potrebbe essere chiamato in seguito a rispondere (a differenza della ipotesi regolata dal comma 1) anche per debiti d’imposta o per sanzioni tributarie relativi a fatti "commessi" dal cedente nel triennio precedente ed accertati solo successivamente alla cessione di azienda

[11] Come confermato dalla sent. n. 5979/2014 della Corte di Cassazione, in caso di cessione di ramo d’azienda in frode, la responsabilità del soggetto cessionario per i debiti tributari del cedente non beneficia delle limitazioni ordinariamente previste, ma diviene invece illimitata.

[12] Ma è del tutto evidente che il mancato preventivo ottenimento del suddetto certificato non può dirsi in alcun modo sintomatica di un fine fraudolente, ma anzi può intendersi frutto di un intenzione del tutto legittima, e per certi versi ancor più aderente al dato testuale della norma, ossia quella di ottenere un certificato che “fotografi” esattamente alla data del trasferimento le violazioni a carico del cedente e potenzialmente rilevanti anche ai fini della responsabilità del cessionario

[13] Infatti, la Corte di Cassazione ricostruisce nei termini che seguono l’unico motivo di gravame proposto dalla ricorrente Agenzia delle Entrate: “la ricorrente sostiene che la CTR ha errato nell’interpretare la norma in esame perché, a suo dire, al primo comma vengono poste le condizioni sostanziali per configurare la responsabilità solidale del cessionario, mentre il secondo comma contiene delle previsioni che attengono solo alla quantificazione dell’obbligazione solidale, ferma restando la ricorrenza delle condizioni sostanziali poste dal comma precedente. Secondo questa prospettazione l’inciso "alla data del trasferimento" non si riferisce all’ipotesi in cui al momento della cessione risulti già avviata una verifica presso l’Amministrazione finanziaria, quanto alla corrispondenza temporale tra i dati acquisiti (in qualsiasi momento) e l’ammontare dei debiti risultanti a carico del cedente, di guisa che il cessionario non può essere chiamato a rispondere per somme superiori a quelle che, secondo i dati in possesso dell’Amministrazione, costituivano i debiti gravanti sul suo dante causa alla data della cessione (fol.5 del ricorso), ciò indipendentemente dall’epoca dell’accertamento. Volendo esemplificare la tesi prospettata dall’Agenzia delle Entrate, quest’ultima sembrerebbe voler dire che rispetto ad una cessione d’azienda perfezionatasi, ad es., il 31.12.2015 l’accertamento sul cedente eseguito nel 2016, ma relativo al periodo d’imposta 2014, avrebbe generato, in capo al cedente, un debito verso l’erario temporalmente qualificabile come “debito risultante alla data del trasferimento” (visto che tale debito si riferirebbe ad un’annualità antecedente a quella in cui si è venuto a perfezionare il trasferimento dell’azienda). Quindi, nell’ottica dell’Agenzia, rispetto ad un simile debito, il cessionario che non si sia preventivamente munito dell’apposito certificato, sarebbe chiamato a rispondere in via solidale – ai sensi del comma 2 dell’art. 14 – così come per ogni altro debito risultante da atti già acquisiti dall’Agenzia delle Entrate alla data del trasferimento.

[14] “Una interpretazione dall’art. 14, commi 2 e 3, che faccia conseguire alla mancata richiesta del certificato di debenza una ancor più estesa responsabilità del cessionario, finirebbe per avvicinare il regime della cessione conforme a legge, ingiustificatamente e in contrasto con il dettato normativo, a quello previsto per il caso di frode (…)La mancata richiesta del certificato di debenza da parte del cessionario non comporta un’estensione della sua responsabilità rispetto a quella delineata dal combinato disposto dei commi 1 e 2, ma gli impedisce di avvalersi dell’eventuale effetto liberatorio anticipato [pertanto] ne consegue l’infondatezza del motivo, atteso che, nel caso di specie, la CTR ha accertato che la verifica in conseguenza della quale venne emesso l’avviso di accertamento era stata eseguita nel dicembre 2002, e cioè in epoca successiva alla cessione dell’azienda, e che non era stato provato che già alla data del trasferimento di azienda agli atti dell’Ufficio risultasse la debitoria fiscale trasfusa nell’accertamento, senza che tale accertamento in fatto sia stato censurato”. Sul punto è utile osservare che secondo la medesima sentenza della Corte di Cassazione “il debito tributario, di cui si discute, non va identificato solo con quanto già accertato, ma anche con quanto in corso di accertamento (sia pure nei limiti temporali anzidetti)”; al riguardo si noti che in base al Provvedimento del 25 giugno 2001, che ha approvato inter alia il modello per la richiesta del certificato ex comma 3 dell’art. 14, si prevede – evidentemente con riferimento alle contestazioni ancora in corso e cioè non accertate – che prima di emettere il certificato l’Ufficio provveda a notificare il relativo processo verbale di constatazione al fine di poterlo riportare nella certificazione. Da ciò si ricava, quindi, che gli atti notificati successivamente alla data del trasferimento dell’azienda, non potendo neanche figurare nel certificato emesso ai sensi del citato comma 3, va da sé che non potranno a fortiori risultare rilevanti ai fini del compunto dei debiti esistenti alla data del trasferimento ai sensi del comma 2 del medesimo articolo 14 – e ciò anche laddove il suddetto certificato non sia stato richiesto, poiché diversamente il contribuente che non chiede il certificato verrebbe ingiustamente assoggettato ad un regime di responsabilità più ampio e ciò è in evidente contrasto con il fatto che la richiesta del certificato è una mera facoltà il cui mancato esercizio non può, quindi, essere ex se penalizzato salvo per l’aspetto di non poter beneficiare di una limitazione o liberatoria anticipata rispetto alla data del trasferimento.

[15] In altri termini, in caso di trasferimento in buona fede il cedente deve reputarsi non solo libero di chiedere ovvero non chiedere il citato certificato ma in aggiunta quest’ultimo deve considerarsi immune da ogni pregiudizio rispetto alla possibilità di beneficiare ex post della limitazione prevista dal comma 2, dell’art. 14 ovvero, in caso di certificato acquisito in data successiva al trasferimento, di potersi avvalere anche in questo caso dell’eventuale effetto liberatorio previsto dal comma 3 del medesimo art. 14– infatti, da entrambi i punti di vista l’unico comportamento “punito” riguarda la cessione in frode (e non l’esercizio della facoltà di non chiedere il certificato o di non averlo chiesto e/o ottenuto in via preventiva al trasferimento).

[16] In tal senso BAGGIO, R., Appunti in tema di responsabilità tributaria del cessionario di azienda, in Rass. trib. 1999, 3, p. 738 secondo cui “nell’eventualità in cui il cessionario abbia richiesto il certificato antecedentemente all’acquisto e che da tale data sia trascorso un apprezzabile periodo di tempo prima del giorno dell’effettivo trasferimento, in via prudenziale sarebbe opportuno che egli proceda alla richiesta di un nuovo certificato successivamente all’acquisto; in questa ipotesi, la richiesta dovrebbe specificare la data della cessione, poiché l’ufficio ha l’onere di attestare l’esistenza delle contestazioni in corso e di debiti non soddisfatti alla predetta data, indipendentemente dalla data dell’inoltro della richiesta. È ovvio che nei casi di richieste antecedenti alla cessione, l’ufficio potrà semplicemente attestare le pendenze esistenti alla data della formazione del certificato”.

[17] Agenzia delle Entrate, Provv. 25 giugno 2001, Allegato C.

[18] Tanto più se si tiene presente che secondo la ricordata circolare n. 180/1998 “in ordine al termine di quaranta giorni previsto, si chiarisce che lo stesso decorre dalla data in cui la richiesta perviene all’ufficio o all’ente, mentre il termine finale si identifica con il giorno di ritiro del certificato presso gli sportelli dell’ufficio o dell’ente ovvero con quello di spedizione mediante lettera raccomandata”. Se, infatti, la data di “rilascio” deve indentificarsi con “il giorno del ritiro” è del tutto evidente che l’Ufficio, non potendo prevedere la data del ritiro da parte dei contribuente, attesterà il controllo del sistema dell’anagrafe tributario ad una data tendenzialmente diversa. Quindi la questione dello sfasamento delle suddette data appare piuttosto concreta.

[19] Si noti, tuttavia, che al di là del comportamento di ogni singolo Ufficio le predette date “dovrebbero” coincidere in quanto il modello di richiesta del certificato messo a disposizione dall’Agenzia delle Entrate prevede, con riferimento alla richiesta inoltrata ai sensi dell’art. 14, comma 3, D.Lgs n. 472/1996, che il contribuente chieda “il rilascio di un certificato dei carichi pendenti relativi al soggetto d’imposta sopra identificato per l’esistenza di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti alla data della presente” (Provvedimento del 25 giugno 2001 del direttore dell’Agenzia delle Entrate).

[20] Visto che seguendo l’impostazione fatta propria dall’Amministrazione finanziaria e dai citati precedenti della Cassazione, in tal caso il cessionario rimarrebbe esposto per il periodo che va dalla data di rilascio del certificato a quella di trasferimento dell’azienda.

[21] Ciò in quanto, come già appurato, secondo tale più recente arresto della Suprema Corte l’effetto liberatorio o limitativo del certificato opererebbe al di là della diligenza del cessionario, essendo la sua richiesta una facoltà e non un obbligo.

[22] Anche di natura prudenziale rispetto all’eventualità che la Cassazione torni sui suoi passi abbandonando l’approccio adottato con la sentenza n. 17264/2017.

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