Il presente contributo analizza l’ambito applicativo della nuova legge 21 aprile 2023, n. 49, che è tornata sul tema dell’equo compenso dei professionisti.
1.- La recente legge n. 49/2023 (la “Legge”) torna sulla materia dell’equo compenso dei professionisti che, a seguito dell’abrogazione del sistema tariffario delle professioni ordinistiche avvenuta con il d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (c.d. decreto Bersani) e con il d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 (c.d. decreto Monti), era già stata fatta oggetto di disciplina, relativamente all’attività forense, ad opera dell’articolo 13-bis della legge professionale forense (31 dicembre 2012, n. 247), per essere quindi estesa ad altre professioni regolamentate ad opera dell’art. 19-quaterdecies, comma 2, d.l. 16 ottobre 2017, n. 148, convertito dalla legge 4 dicembre 2017, n. 172[1].
Il dispositivo di recente introduzione mostra di muovere verso l’obiettivo di una maggiore generalizzazione di quell’impianto normativo all’intero novero delle professioni intellettuali[2], al contempo arricchendo i contenuti dell’ormai abrogato (dall’art. 12 della Legge) art. 13-bis della legge professionale forense, per delineare un inedito quadro normativo inteso a dettare uno statuto del professionista intellettuale che, se non raggiunge una completa organicità, comunque denota l’ambizione di intervenire su un arco articolato di profili.
2.- Tuttavia, a dispetto dell’abrogazione – ad opera del già menzionato art. 12 della Legge – dell’art. 2, co. 1, lett. a) del decreto Bersani (il quale eliminava, con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali, «l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti»), la Legge non sembra conseguire effettivamente il risultato della reintroduzione su base generalizzata dei minimi tariffari o dell’equo compenso dei professionisti.
Né, con riferimento ai restanti contenuti della Legge (i quali si occupano, tra l’altro, del più generale equilibrio del contenuto economico-normativo del rapporto: così, l’art. 3, co. 2; della disciplina della prescrizione del diritto al compenso: art. 5, co. 2; dell’azione di responsabilità professionale: art. 8; della legittimazione all’esercizio di azioni collettive per la tutela di diritti omogenei dei professionisti: art. 9), sembra potersi discorrere di una loro applicazione – o, quanto meno, di una loro applicazione diretta – all’intero ambito delle prestazioni professionali.
Il perimetro della Legge evidenzia, infatti, qualificate limitazioni.
3.- Un primo e centrale profilo da considerare risiede nella circostanza per cui, ai fini dell’applicazione della disciplina in materia di equo compenso dei professionisti, è richiesta – dall’art. 2 della Legge – la congiunta ricorrenza di un duplice elemento: da un lato, quello della natura della controparte, che deve essere una banca, una assicurazione o una loro mandataria, un’impresa con più di 50 dipendenti o ricavi annui superiori a 10 milioni di euro (con esclusione dei veicoli di cartolarizzazione), ovvero una pubblica amministrazione o società partecipata (esclusi gli agenti della riscossione); dall’altro, che si tratti di rapporti professionali «regolati da convenzioni».
Se il primo elemento fissa chiaramente un elemento selettivo basato su qualità e dimensioni della committenza, è il secondo a sollecitare una particolare attenzione nel discriminare le fattispecie incluse da quelle escluse dalle regole in materia di equo compenso.
Al riguardo, va osservato che, nella pluralità di significati che sono astrattamente riferibili al lemma «convenzione» (incluso quello “aulico” che lo intende come sinonimo di contratto), la genesi della norma nonché del suo antecedente storico, come per l’appunto costituito dall’art. 13-bis della legge professionale forense, indicano che il legislatore ragionevolmente intendeva, e intende, il termine “convenzione” nel senso, effettivamente più comune, dell’accordo di “convenzionamento”, cioè dell’accordo inteso a disciplinare l’erogazione di una pluralità di prestazioni lungo un dato arco di tempo. Si tratta di accordi effettivamente sempre più in uso nella prassi, particolarmente utilizzati nei rapporti tra grandi (e forti) committenti e professionisti, al fine della disciplina omogenea di relazioni professionali di durata, in un quadro di tendenziale standardizzazione utile anche a radicare un principio di prevedibilità (prima ancora che di contenimento) dei costi a beneficio della stessa committenza, a fronte dell’attesa di volumi di lavoro (potenzialmente) continuativi da parte dei professionisti interessati.
Appare quindi ragionevole affermare, anche scorrendo il catalogo delle “pattuizioni nulle” di cui all’art. 3, comma 2, della Legge, che è nella convergenza di un simile e particolare schema negoziale con la natura medio-grande dell’impresa cliente, che il legislatore ritiene di ravvisare l’esigenza di approntare una speciale tutela al professionista, per mantenere, in detto specifico contesto e tenuto conto degli obiettivi rischi di squilibrio che allo stesso possono associarsi, un ordine concorrenziale del mercato che non sfoci in una race-to-the-bottom tra i professionisti.
Muovendo da una simile opzione ermeneutica, ne deriverebbe, ad esempio, la ragionevole esclusione della correttezza di operazioni che volessero estendere l’applicazione della legge a rapporti estranei a contesti di “convenzionamento”. In tal senso, è lecito avanzare più di un dubbio su posizioni emerse di recente sulla stampa economica le quali danno quasi per scontato che la Legge trovi applicazione, inter alia, anche con riguardo ai rapporti sottesi all’assunzione di cariche sociali, e in particolare di componente di collegi sociali. Al di là dei dubbi che potrebbero sorgere, al riguardo, in ordine alla riconducibilità (o, meglio, alla riducibilità) di tali peculiari rapporti organici a semplici «rapporti professionali aventi ad oggetto la prestazione d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile» (cui fa riferimento la Legge)[3], resta il fatto che si tratta di rapporti che si dispiegano al di fuori di meccanismi di “convenzionamento” e in relazione ai quali non sembrano porsi, in prima approssimazione, i presupposti ai quali la Legge connette l’applicazione dello specifico statuto di disciplina.
Né un argomento a favore della generalizzazione della disciplina dell’equo compenso a tutte le prestazioni professionali rese nei confronti di intermediari finanziari e imprese medio-grandi può di per sé ritrarsi dal tenore dell’art. 5, co. 2, secondo periodo, ai sensi del quale «in caso di una pluralità di prestazioni rese a seguito di un unico incarico, convenzione, contratto, esito di gara, predisposizione di un elenco di fiduciari o affidamento e non aventi carattere periodico, la prescrizione decorre dal giorno del compimento dell’ultima prestazione». Il tenore testuale della norma non mostra di ampliare l’ambito applicativo della Legge, ma si limita a dettare una disciplina della prescrizione per le prestazioni che, comunque «plurali» e quindi riconducibili a una logica di “convenzione” nel senso dianzi delineati (indipendentemente dalla forma specifica della relativa pattuizione a monte), abbiano carattere non periodico.
4.- In tale scenario, permane da chiarire un ulteriore elemento. E infatti, un punto di manifesta differenza del nuovo articolato normativo consiste nell’eliminazione dai presupposti di applicazione della disciplina della circostanza, che invece era richiesta dall’art. 13-bis della legge professionale forense, per cui «le convenzioni s[iano] unilateralmente predisposte» dalle imprese clienti. Tale eliminazione sembrerebbe motivata dalla volontà di estendere la tutela anche oltre l’ipotesi della negoziazione standardizzata, per colpire di nullità il fatto in sé della pattuizione non equa. In effetti, consentire di andare in deroga ai minimi tariffari a quei soggetti che sono in condizioni di negoziare convenzioni con i propri clienti su un piano di tendenziale parità (i.e., le grandi organizzazioni professionali) significa disattivare la disciplina sull’equo compenso dei professionisti proprio in relazione alle fattispecie dove è più probabile che tali accordi al ribasso vengano stipulati.
Senonché, all’articolo 5, co. 1 della legge si legge che «gli accordi preparatori o definitivi, purché vincolanti per il professionista, conclusi tra i professionisti e le imprese di cui all’articolo 2 si presumono unilateralmente predisposti dalle imprese stesse, salva prova contraria». Nel fare riferimento a una presunzione di predisposizione unilaterale, tale previsione sembrerebbe implicare la possibilità di una prova contraria, di cui però – alla luce della considerazione che precede, e ferma la notazione per cui la parola “convenzione” non contiene in sé per definizione il tratto della predisposizione altrui – resta oscura la funzione.
In realtà, uno spazio residuo alla norma, che non sia quello di reintrodurre surrettiziamente il requisito della predisposizione unilaterale, può recuperarsi alla luce del co. 5 del medesimo articolo 5, che delega agli ordini e collegi professionali il compito di dettare disposizioni deontologiche «volte a sanzionare la violazione, da parte del professionista, dell’obbligo di convenire o di preventivare un compenso che sia giusto, equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta e determinato in applicazione dei parametri previsti dai pertinenti decreti ministeriali, nonché a sanzionare la violazione dell’obbligo di avvertire il cliente, nei soli rapporti in cui la convenzione, il contratto o comunque qualsiasi accordo con il cliente siano predisposti esclusivamente dal professionista, che il compenso per la prestazione professionale deve rispettare in ogni caso, pena la nullità della pattuizione, i criteri stabiliti dalle disposizioni della presente legge».
È in definitiva da ritenersi che la “presunzione di predisposizione unilaterale” fondata dall’art. 5, co. 1, valga in realtà al modesto fine di introdurre una sorta di presunzione di non “colpevolezza” del professionista (per avere “colluso” col proprio cliente), rilevante a fini deontologici. In aggiunta, tale disposizione può intendersi come rilevante ai fini dell’applicazione delle norme codicistiche che riferiscono una specifica disciplina alla circostanza della predisposizione unilaterale (artt. 1341, 1342 e 1370 c.c.).
[1] «Le disposizioni di cui all’articolo 13-bis della legge 31 dicembre 2012, n. 247, introdotto dal comma 1 del presente articolo, si applicano, in quanto compatibili, anche alle prestazioni rese dai professionisti di cui all’articolo 1 della legge 22 maggio 2017, n. 81, anche iscritti agli ordini e collegi, i cui parametri ai fini di cui al comma 10 del predetto articolo 13-bis sono definiti dai decreti ministeriali adottati ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27».
[2] Per i professionisti non regolamentati, i.e. non iscritti a ordini o collegi, la misura dell’equo compenso è rimessa, in assenza di parametri emanati in sede ministeriale, a un «decreto del Ministro delle imprese e del made in Italy da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge e, successivamente, con cadenza biennale, sentite le associazioni iscritte nell’elenco di cui al comma 7 dell’articolo 2 della medesima legge n. 4 del 2013»: art. 1, co. 1, lett. c) della legge 49/2023.
[3] Non rileva in questa prospettiva la circostanza che il rapporto organico abbia come proprio oggetto una prestazione a contenuto intellettuale il cui esatto adempimento si misura sul parametro della diligenza (professionale), con la conseguenza che la responsabilità per la violazione dei doveri di carica si costruisce come responsabilità debitoria ex art. 1218 ss. c.c.; né rileva che ad alcuni fini la disciplina della prestazione d’opera possa eventualmente trovare applicazione al rapporto organico. Tali aspetti hanno natura meramente disciplinare, e non interferiscono con il fatto che il titolo genetico del rapporto in sé (cioè, nella sua fattispecie) non è costituito da un contratto d’opera professionale ex art. 2230 c.c.