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Giurisprudenza

L’esenzione dalla data certa opera solo per le operazioni di «credito su pegno» e non per l’universo dell’operatività bancaria assistita da pegno

16 Luglio 2019

Alberto Mager

Cassazione Civile, Sez. I, 6 giugno 2019, n. 15421 – Pres. Didone, Rel. Dolmetta

Nel caso deciso dalla Corte, una banca presenta domanda di insinuazione al passivo, con prelazione pignoratizia, di un credito da scoperto di conto corrente. Il giudice delegato, con decisione sul punto confermata dal Tribunale di Roma, ammette il credito, ma in via chirografaria. In particolare, il Tribunale ritiene fondata l’eccezione del curatore secondo cui la produzione documentale versata in giudizio dalla banca non dimostra la data certa dell’atto costitutivo del pegno, né soddisfa il requisito di specificità prescritto per tale atto. Pertanto, giusto il disposto dell’art. 2787, comma terzo, cod. civ., la prelazione «non ha luogo» e non è comunque opponibile al fallimento.

Su ricorso della banca, la Suprema Corte anzitutto chiarisce che, anche nel vigore del TUB ed in coerenza con la cd. despecializzazione perfezionata dallo stesso testo unico, tutti gli enti autorizzati all’esercizio dell’attività bancaria (art. 14 TUB) possono – in presenza dei presupposti di cui all’attuale testo dell’art. 48 TUB («dotandosi delle necessarie strutture e dandone comunicazione alla Banca d’Italia») – esercitare l’attività di «credito su pegno» di cui legge 10 maggio 1938, n. 745 e al regolamento 25 maggio 1939, n. 1279 (a maggior ragione nel nuovo ordinamento bancario vale dunque la soluzione di Cass. SS.UU. 15 aprile 1976, n. 1333). Fermo ciò, la Suprema Corte conferma l’esito del giudizio di merito, affermando due importanti principi di diritto.

In primo luogo, la Corte statuisce che il sintagma «credito su pegno», richiamato dall’art. 2787, comma quarto, cod. civ. (norma che il ricorrente vorrebbe si applicasse alla fattispecie in esame, e che lo esenterebbe dall’onere della data certa dell’atto costitutivo del vincolo) si riferisce unicamente all’operatività specifica del «credito su pegno» di cui al succitato articolato normativo (art. 44 TUB, legge 10 maggio 1938, n. 745 e al regolamento 25 maggio 1939, n. 1279). Ne discende che l’art. 2787, comma quarto, cod. civ non trova applicazione nel contesto della diversa e variegata operatività bancaria assistita da garanzie pignoratizie: quale è, nel caso di specie, lo scoperto di conto corrente garantito da pegno su titoli.

Tale soluzione si impone alla luce del dato letterale dell’art. 2787, comma quarto, c.c., che evoca un dato settore di operatività creditizia, tradizionalmente esercitata dai monti di pietà e di pegno, nel riferire la disciplina soggettivamente agli «enti, che debitamente autorizzati, compiono professionalmente operazioni di credito su pegno» (il che, se non è dirimente anche alla luce dell’intervenuta despecializzazione, lascia comunque intendere quale era il referente soggettivo proprio della norma). E, coerentemente, nell’individuare come prototipo dell’atto costitutivo del vincolo la «polizza», che è il documento fondamentale e caratteristico dell’operatività di «credito su pegno» (cfr. art. 10 legge 10 maggio 1938, n. 745), rimanendo peraltro in linea di massima escluso che un documento unilaterale proveniente dal datore del pegno (quale è la lettera nel caso di specie invocata) possa rientrare nelle «altre scritture» di cui al medesimo disposto normativo (essenzialmente per la sua lontananza dalle modalità con cui tipicamente prende forma l’operatività di «credito su pegno»).

La soluzione della Corte si impone inoltre alla luce di considerazioni sistematiche. Difatti, applicare l’art. 2787, comma quarto, c.c. all’universo della variegata operatività bancaria assistita da pegno, e così esentare le banche dall’onere della data certa dell’atto costitutivo del vincolo, sarebbe irrazionale (non essendo in alcun modo logicamente giustificabile una deroga, per una così ampia ed eterogenea porzione di operatività – e solo per essa – all’art. 2704 cod. civ.), confliggente con il principio di par condicio creditorum (per la deteriore posizione in cui verrebbe a collocare i creditori pignoratizi di diritto comune rispetto a quelli bancari) nonché distonico rispetto al dovere di sana e prudente gestione di cui all’art. 5 del TUB. Non sarebbe infine giustificabile la differenza di significato attribuito al medesimo sintagma (= «credito su pegno»), che nel contesto proprio dell’art. 2787, comma quarto, c.c. richiamerebbe genericamente l’operatività bancaria assistita da pegno, mentre nel contesto proprio dell’art. 67, ult. comma, l. fall., richiamerebbe specificamente il settore di operatività di cui alla legge 10 maggio 1938, n. 745 e al regolamento 25 maggio 1939, n. 1279 (secondo la lettura assolutamente maggioritaria di tale esenzione da revocatoria).

Chiarito il primo principio di diritto, la Corte statuisce che, anche nel contesto dello specifico settore di operatività di «credito su pegno», rimane fermo il requisito di specificità dell’atto costitutivo del vincolo di cui al comma terzo della medesima disposizione (v. nello stesso senso la risalente Cass. 1 marzo 1973, n. 560 richiamata dalla Corte). Depone in tal senso prima di tutto il dato letterale, ed inoltre il fatto che la stessa disciplina di legge riferita al «credito su pegno» viene specificamente a conformare il requisito della specificità (v. art. 10 legge 745/1938), nel richiedere, tra le altre cose, una descrizione della cosa costituita in pegno, pur sintetica ma comunque idonea all’identificazione, nonché del valore di stima attribuitole. Su questo fronte, la Corte rileva che la lettera versata in atti non permetteva in ogni caso di identificare con sufficiente precisione la cosa data in pegno, e pertanto non assolveva alla funzione propria del requisito della specificità, che è quella di evitare postume sostituzioni o aggiunte alla cosa data in pegno, motivate da una sua sopravvenuta svalutazione (Cass. 7 giugno 1999, n. 5562).


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