Nel caso in esame, la Suprema Corte, richiamando un proprio consolidato orientamento, ha statuito quanto segue: ”il curatore che, in forza della legittimazione accordatagli dall’art. 66 legge fall., intenda subentrare nell’azione revocatoria ordinaria intrapresa da un creditore per far dichiarare inopponibile, nei suoi confronti, un atto di disposizione patrimoniale compiuto dal debitore poi fallito durante quel giudizio, accetta la causa nello stato in cui si trova, sicché l’esercizio di tale facoltà non è soggetto ai limiti entro i quali le parti possono formulare nuove domande o eccezioni nel processo di primo grado, né, ove la lite già penda in appello, al termine previsto per la proposizione del gravame incidentale o alle preclusioni dì cui all’art. 345, comma 1, c.p.c., poiché, al contrario, è sufficiente che egli si costituisca in giudizio, anche in appello, dichiarando di voler far propria la domanda proposta ex art. 2901 c.c., per investire il giudice del dovere di pronunciare sulla stessa nei confronti dell’intera massa dei creditori”(conf. Cass., Sez. 1, sentenza n. 614 del 15/01/2016).
Per quanto concerne specificamente la disciplina della prescrizione dell’azione revocatoria, la Suprema Corte ha chiarito che, essendo quest’ultima un’azione che il curatore trova nella massa fallimentare e che si identifica con quella che i creditori avrebbero potuto esperire prima del fallimento, l’interruzione della prescrizione ad opera di uno dei creditori, cui il curatore sia subentrato ex art. 66 L.F., giova alla massa fallimentare (conf. Cass., Sez. 3, sentenza n. 5586 del 20/03/2015; Cass., Sez. 1, sentenza n. 12513 del 28/05/2009).