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Euribor negativo, interessi e clausole floor: prime riflessioni

28 Aprile 2015

Avv. Fabio Civale

Di cosa si parla in questo articolo

Sommario: 1. Il tema di indagine. 2. Mutui ed interessi pari a zero. 3. Il paradosso degli interessi corrispettivi negativi nei rapporti di mutuo. 4. Depositi a risparmio. 5. Clausole floor: natura e disciplina

1. Il tema di indagine

L’andamento al ribasso assunto dagli indici Euribor negli ultimi mesi, sino alla recente virata in segno negativo, ha posto all’attenzione delle banche e dei clienti questioni, temi e domande per molti versi sorprendenti e che, al tempo stesso, rischiano di sfociare in aperti paradossi.

Diversi rapporti bancari (mutui, depositi a risparmio, conti correnti) prevedono tassi di interesse variabile parametrati all’andamento dell’indice Euribor.

In relazione a detti rapporti, posto che il tasso degli interessi è dato dalla somma algebrica del valore Euribor a cui occorre aggiungere un importo determinato (c.d. spread), ci si chiede se l’eventuale andamento discendente dell’indice Euribor possa – i.e. debba necessariamente – portare ad una decurtazione del tasso degli interessi corrispettivi sino a zero (qualora l’indice Euribor negativo fosse pari allo spread), ovvero ad ipotesi di interessi corrispettivi negativi (qualora l’indice Euribor negativo fosse superiore allo spread).

La novità delle questioni impone rigore e molte cautele, potendosi oggi proporre solo alcune prime riflessioni.

Il punto nave da cui partire è dato dalla necessaria considerazione che sono diversi i rapporti bancari interessati dal fenomeno del c.d. Euribor negativo e che le soluzioni proponibili, per i diversi rapporti, devono essere tra loro coerenti e basate sulla natura specifica del rapporto bancario interessato. Data la rilevanza, saranno qui oggetto di esame specifico i rapporti di mutuo e di deposito a risparmio, in cui peraltro le posizioni di banche e cliente possono definirsi “a specchio”.

2. Mutui ed interessi pari a zero

Invertendo la prospettiva del codice del 1865, nel codice civile del 1942 è contenuta una presunzione di onerosità del mutuo (c.d. mutuo “feneratizio”), fatta salva la differente volontà e la conforme previsione delle parti.

La presunzione di onerosità del mutuo si deduce dall’art. 1815 c.c. [1] e implica che il mutuatario debba corrispondere in favore del mutuante, oltre al capitale in restituzione, interessi “corrispettivi” per il godimento da parte del debitore (mutuatario) del denaro concessogli dal creditore (mutuante) [2].

La natura degli interessi come credito accessorio rispetto a quello principale, costituito dal capitale, risulta prevalentemente ammessa [3]. Si può peraltro ritenere che tale pacifica accessorietà attenga al solo momento genetico del contratto e che il credito degli interessi, una volta sorto, costituisca un’obbligazione pecuniaria autonoma da quella principale, tanto che è soggetta ad un autonomo termine di prescrizione (art. 2948 n. 4 c.p.c.).

Assumendo quale maggioritaria la tesi che considera il mutuo feneratizio quale contratto sinallagmatico, gli interessi rappresentano, unitamente alla restituzione del capitale, la controprestazione del mutuatario a fronte dell’iniziale erogazione del mutuante.

E’ noto che la prestazione dedotta in contratto e dovuta da una delle parti, nel caso di specie il mutuatario, debba essere determinata o determinabile, ai sensi dell’art. 1346 c.c..

Al fine di creare un vincolo reciproco è quindi necessario che le parti abbiano esplicitato – o, quantomeno, abbiano indicato esplicitamente il modo di stabilire – le prestazioni alle quali si sono obbligate in virtù del contratto.

Occorre inoltre considerare che gli interessi convenzionali superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto, ai sensi dell’art. 1284 c.c.. L’art. 117, comma 4, del d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385 espressamente prevede che i contratti bancari debbano indicare il tasso di interesse.

Nel caso dei mutui erogati dalla banche e qui oggetto di esame, il tasso di interesse corrispettivo è indicato, si compone e risulta determinato in base alla somma algebrica di un valore legato ad un parametro di riferimento (Euribor), cui è aggiunta una maggiorazione in misura fissa (c.d. spread).

Proprio l’inequivocità del risultato di tale somma algebrica consenta di ritenere il tasso di interesse variabile di per sé determinabile.

Laddove a una delle parti contrattuali fosse consentito di calcolare il tasso di interesse in modo difforme rispetto alla predetta pattuizione contrattuale, la determinabilità della prestazione dedotta in contratto a carico del mutuatario risulterebbe potenzialmente compromessa [4].

Le considerazioni sopra appena accennate inducono a ritenere che il calcolo del tasso di interesse variabile, quale contrattualmente stabilito, non possa prescindere dalla necessaria somma algebrica tra indice Euribor e spread.

Ad ammettere la possibilità di elidere dal predetto calcolo il valore negativo dell’indice Euribor, infatti, si finirebbe per rendere la clausola contrattuale relativa al tasso di interesse non determinata né determinabile e, quindi, affetta da potenziale nullità.

Affermata la necessità di procedere con la somma algebrica tra indice Euribor e spread, risulta a questo punto opportuno domandarsi se vi siano (e quali possano essere i) rimedi che la banca possa azionare a fronte della mancata corresponsione di una somma a titolo di interesse da parte del cliente mutuatario, ciò nell’ipotesi in cui la somma algebrica tra un indice Euribor negativo (ad esempio pari a -0.2) ed un importo uguale e di segno contrario a titolo di spread (+0.2) dia come risultato un importo pari a zero.

Ebbene, pare da escludere la possibilità di azionare i rimedi della risoluzione per inadempimento [5], della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c. [6], ovvero della risoluzione per impossibilità sopravvenuta.

Non si ritengono, al pari, rimedi azionabili da parte della banca l’applicazione dell’art. 118 TUB ed il richiamo dell’istituto della presupposizione [7].

E’ peraltro possibile sostenere che la mancata corresponsione degli interessi da parte del cliente mutuatario alteri l’assetto negoziale che le parti avevano costruito e voluto al momento della stipula del contratto di mutuo.

Del resto l’obbligazione di pagamento degli interessi corrispettivi contribuisce a distinguere il mutuo da oneroso a gratuito e a configurare tale contratto quale contratto sinallagmatico.

Prendendo a prestito una espressione utilizzata in fisica e chimica, potremmo parlare di passaggio di stato o transizione di stato: un mutuo che nasce oneroso diventa (per un dato periodo e quindi in modo reversibile) un mutuo gratuito.

Non pare revocabile in dubbio che nell’individuazione della causa [8] del contratto di mutuo oneroso debba considerarsi che l’attribuzione da un soggetto (mutuante) ad un altro (mutuatario) di una somma di denaro avviene non per mero spirito di liberalità, bensì allo scopo di ottenere la restituzione del capitale maggiorata di un interesse.

Laddove, quindi, per eventi non imputabili alle parti, sopravvenga l’impossibilità di realizzare la volontà comune che le parti stesse si erano prefissate, si potrebbe ritenere che sia lesa la causa del contratto, originariamente presente [9].

Tornando all’espressione utilizzata in fisica e chimica, il passaggio di stato del mutuo (da oneroso a gratuito) sarebbe “transiente”, ossia non definitivo o non “assorbente”, potendo lo stesso rapporto di mutuo tornare ad essere oneroso in ragione dell’andamento al rialzo dell’indice Euribor. Tale considerazione conduce a ritenere difficilmente azionabile il rimedio della nullità sopravvenuta.

Sotto altra angolazione, si potrebbe ritenere che, in base al generale dovere di eseguire il contratto secondo buona fede posto dall’art. 1375 c.c., possa farsi discendere un obbligo di rinegoziare il contratto di mutuo, ossia di modificare consensualmente le condizioni contrattuali stabilite nel contratto di mutuo in corso di ammortamento.

La rinegoziazione c.d. volontaria dei contratti di mutuo, sebbene rientri tra i rimedi convenzionali volti ad adeguare e preservare l’accordo contrattuale in ipotesi di sopravvenienze inaspettate, potrebbe peraltro dar luogo a notevoli criticità [10].

3. Il paradosso degli interessi corrispettivi negativi nei rapporti di mutuo

L’esame degli effetti dell’andamento al ribasso assunto dall’indice Euribor condotto nel precedente paragrafo deve essere completato considerando la distinta ipotesi in cui la somma algebrica tra un indice Euribor negativo (ad esempio pari a – 0.3) ed un importo inferiore e di segno contrario a titolo di spread (+0.2) produca un risultato negativo (-0.1).

Con espressione che sottende un evidente paradosso, si potrebbe parlare di interessi corrispettivi negativi.

La ragione giuridica in base alla quale si origina il debito degli interessi in capo al cliente mutuatario è rappresentata dalla erogazione del denaro dalla banca al cliente.

Ai sensi dell’art. 820 c.c., gli interessi dei capitali rappresentano “frutti civili”, che si ritraggono dalla cosa “come corrispettivo del godimento che altri ne abbia”; inoltre, ai sensi dell’art. 1282 c.c., i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi “di pieno diritto” [11].

La funzione degli interessi corrispettivi è quindi quella, dal punto di vista della banca mutuante privatasi del proprio denaro, di remunerazione e, dal punto di vista del cliente mutuatario, di corrispettivo per il godimento del denaro erogatogli dalla banca.

Se tale risulta la funzione degli interessi corrispettivi, non pare giuridicamente configurabile un obbligo di corresponsione da parte della banca mutuataria di interessi (negativi) a favore del cliente mutuatario.

Si consideri, infatti, che se gli interessi corrispettivi (ad un saggio superiore allo zero) sono corrisposti dal mutuante a favore del mutuatario, ammettere il paradosso degli interessi negativi rappresenterebbero, essenzialmente, ammettere come dovuta la corresponsione di interessi dalla banca mutuante in favore del cliente mutuatario.

Sennonché, tale attribuzione patrimoniale sarebbe del tutto priva di causa e giustificazione (logica e) giuridica in quanto il soggetto percipiente (ossia il cliente) non ha erogato alcuna somma ma, al contrario, ha beneficiato dell’erogazione altrui.

Si consideri, infine, che l’effetto della corresponsione di interessi negativi sarebbe rappresentato non solo dalla mancata remunerazione della prestazione effettuata dal mutuante (erogazione del denaro), ma addirittura dalla ricezione di una somma inferiore al capitale erogato dal mutuatario, in quanto erosa dagli interessi.

Le suesposte considerazioni conducono a ritenere non configurabile sotto il profilo giuridico l’ipotesi della corresponsione di un interesse negativo.

4. Deposito a risparmio

Quanto al contratto di deposito (di denaro) presso una banca, l’art. 1834 c.c. dispone che quest’ultima acquista la proprietà del denaro ricevuto ed è obbligata a restituirla nella stessa specie monetaria, alla scadenza del termine convenuto (c.d. “deposito vincolato” o “a termine”), ovvero a richiesta del depositante (c.d. “deposito libero” o “a vista”), salva l’osservanza del periodo di preavviso pattiziamente stabilito dalle parti o dagli usi [12].

Il deposito bancario rappresenta una forma tipica di raccolta del risparmio e, dal lato della banca, assume i tratti di una operazione passiva che prevede, di norma, una remunerazione a favore del cliente – depositante.

Ancora ai fini dell’esame dei tratti caratteristici del deposito bancario, occorre ricordare che lo stesso deposito è un contratto reale, ossia si perfeziona con la consegna del denaro alla banca.

Il deposito bancario può assumere forme diverse. Si distingue, infatti, tra depositi ordinari e semplici, depositi in conto corrente, depositi a risparmio, depositi rappresentati da libretti (c.d. libretti di deposito) ex art. 1835 c.c., certificati di deposito [13] o buoni fruttiferi emessi dalle banche quali titoli ex art. 12 del d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (T.U.B.).

Vi è una potenziale, apparente, sovrapposizione tra deposito bancario e conto corrente bancario. Le due figure, in realtà, hanno natura e funzione profondamente diversa.

Si consideri, in primis, che solo il deposito bancario ex art. 1834 c.c. ha i caratteri di contratto.

Ciò detto, ai fini della distinzione in concreto, si ritiene assuma valore dirimente la diversità di “funzione economica”, e quindi di causa giuridica, perseguita attraverso il deposito bancario ed il conto corrente bancario.

E’ indubbio che mediante il deposito di somme sul conto corrente il cliente e la banca possono perseguire due distinte finalità economiche:

a) la costituzione di una provvista ai fini dell’esecuzione di operazioni di pagamento, quali bonifici o addebiti diretti (i.e.: conto corrente bancario);

b) la costituzione di una giacenza che possa essere vincolata e remunerata dalla banca al cliente (i.e.: deposito bancario).

Nel primo caso, la “funzione economica”, e quindi la causa giuridica, del deposito risulta riconducibile al conto corrente bancario. In relazione alle somme depositate sul conto corrente bancario, il cliente potrà disporre in qualsiasi momento delle somme a suo credito (ex art. 1852 c.c.) e, soprattutto, il cliente potrà disporre delle somme per l’esecuzione di operazioni di pagamento, disponendo bonifici o traendo assegni regolati mediante le stesse somme depositate.

Nel secondo caso, la “funzione economica”, e quindi la causa giuridica, del deposito risulta riconducibile al deposito bancario. Il cliente non potrà disporre delle somme depositate sino alla scadenza del “vincolo”, salvo le ipotesi di estinzione anticipata e, soprattutto, il cliente non potrà disporre delle somme per l’esecuzione di operazioni di pagamento quali bonifici o assegni.

Pare non revocabile in dubbio che solo attraverso il deposito bancario ex art. 1834 c.c. il cliente persegua una finalità tesa alla remunerazione delle proprie somme.

Anche nel rapporto di deposito bancario, dunque, gli interessi rappresentano frutti civili del capitale.

Le considerazioni svolte in relazione al mutuo possono, quindi, estendersi alla fattispecie del deposito bancario.

La prospettiva, peraltro, risulta invertita: mentre nel contratto di mutuo la banca eroga una somma di denaro e il cliente mutuatario è obbligato a restituire alla banca il capitale ottenuto maggiorato degli interessi corrispettivi, nel deposito è la banca ad aver ottenuto (in deposito) una somma di denaro dal cliente depositante e deve quindi corrispondere essa stessa interessi in favore del cliente.

Si può quindi ritenere che anche nel deposito bancario gli interessi possano giungere a zero ma non diventare negativi: applicare interessi negativi al rapporto implicherebbe la (giuridicamente inammissibile) percezione di interessi, da parte della banca, a fronte della disponibilità di somme di denaro del cliente depositante.

Non essendo di per sé necessariamente remunerato, le predette conclusioni non risultano estensibili al conto corrente bancario, data peraltro la richiamata diversità di funzione.

5. Clausole floor: natura e disciplina

Al fine di limitare i rischi connessi all’oscillazione dell’indice Euribor, numerosi intermediari hanno inserito nei contratti di mutuo a tasso variabile clausole che, nella prassi, vengono definite floor, cap, collar.

Si tratta di clausole che, pur nella diversa concreta formulazione, hanno la finalità comune di individuare e stabilire un valore minimo (c.d. floor) del tasso di interesse variabile indicizzato all’Euribor, ovvero un valore massimo (c.d. cap) dello stesso tasso di interesse. In alcuni casi i due “limiti” sono entrambe presenti (c.d. collar).

Secondo l’opinione tradizionale, le clausole floor, cap, collar sono riconducibili alla struttura di determinazione del tasso di interesse debitorio per il cliente ed hanno, pertanto, natura “creditizia”.

Di recente è stato peraltro sostenuto che tali clausole avrebbero una natura finanziaria così che il mutuo che prevedesse le predette clausole (floor, cap, collar) darebbe luogo ad un’operazione creditizia accompagnata da una componente derivativa implicita (embedded derivative) [14]. La predetta componente derivativa implicita inciderebbe al punto tale da determinare una natura “finanziaria” dell’operazione.

Il diverso inquadramento delle predette clausole (floor, cap, collar), conduce a due diverse ricostruzioni quanto alla normativa di riferimento applicabile e, per tale via, a due diverse conclusioni quanto ad obblighi contrattuali e informativi in capo alla banca.

Ove si acceda alla ricostruzione secondo cui la presenza delle predette clausole (floor, cap, collar) non altera la natura creditizia del rapporto tra banca e cliente, la Banca nel proporre e stipulare il contratto di mutuo sarebbe tenuta al rispetto della normativa di riferimento rappresentata dal TUB e dal Provvedimento di Banca d’Italia del luglio 2009 in tema di trasparenza e correttezza nei rapporti tra intermediari e clienti.

Ove invece si acceda alla ricostruzione secondo cui la presenza delle predette clausole (floor, cap, collar) dia luogo ad un’operazione creditizia ed al tempo stesso ad una (prevalente) operazione finanziaria, la Banca nel proporre e stipulare il contratto di mutuo sarebbe tenuta al rispetto della normativa di riferimento rappresentata (anche) dal TUF, oltre che delle relative norme secondarie [15].

La questione non è quindi solo dogmatica ed astratta, quanto di taglio operativo e concreto.

Rilevato che il dibattito sul punto è da ritenersi solo avviato e per nulla giunto ad approdi definitivi [16], risulta utile provare a distinguere tra operazioni creditizie ed operazioni finanziarie, con l’avvertenza che si tratta di categorie dai contorni sfumati e tutt’altro che definiti [17].

Ritengo altresì opportuno rilevare che, al di là delle diverse e proposte ricostruzioni, pare non revocabile in dubbio che attraverso la conclusione di un contratto di mutuo (operazione creditizia) le parti vogliano congiuntamente e disciplinino il trasferimento di una somma di denaro al fine del godimento da parte del cliente prenditore. Diversamente, tratto caratteristico di un’operazione finanziaria non è rintracciabile nella volontà comune alle parti di dar luogo al trasferimento di una somma, quanto piuttosto nella volontà comune di negoziare il trasferimento di un rischio parametrato ad un valore finanziario che può essere soggetto ad apprezzamento o deprezzamento.

Nel caso del contratto di mutuo, anche in presenza delle predette clausole (floor, cap, collar), non sembra possibile ritenere alterata la riconducibilità prevalente, se non esclusiva, allo schema caratteristico delle operazioni creditizie e, quindi, alla causa di mutuo o finanziamento. Attraverso la conclusione del contratto di mutuo le parti intendono trasferire una somma di denaro e non trasferire un rischio, ciò al di là delle metodologie attraverso cui è determinato il tasso (prezzo per il cliente) o la misura delle soglie floor, cap o collar che possono pur attingere a formule e modelli di natura “finanziaria”.

Occorre altresì considerare, quale utile riferimento ai fini dell’esame qui condotto, la disciplina e qualificazione giuridico-causale delle obbligazioni strutturate.

Come noto, l’art. 2411, comma 2, c.c. prevede che “i tempi e l’entità del pagamento degli interessi possono variare in dipendenza di parametri oggettivi (…)”.

Nelle c.d. obbligazioni strutturate, quindi, accanto alla componente obbligazionaria tipica riconducibile alla causa del mutuo e connessa all’obbligo di restituzione del capitale è possibile individuare una componente derivativa secondo cui il rendimento del titolo obbligazionario è parametrato ad indici esterni al rapporto, purché aventi natura oggettiva. Anche nelle obbligazioni strutturate sarebbe possibile individuare opzioni implicite acquistate o vendute dal cliente.

Ebbene, le obbligazioni strutturate in cui è presente per espresso riconoscimento legislativo una componente derivativa, sono prevalentemente ricondotte sotto il profilo qualificatorio e causale alle “obbligazioni societarie” e si ritiene che la componente derivativa, espressamente riconosciuta quale legittima, non possa alterare tale qualificazione.

Sebbene poi non possa avere valore qualificatorio, sul punto risulta opportuno ricordare che il Provvedimento di Banca d’Italia del luglio 2009 in tema di trasparenza e correttezza nei rapporti tra intermediari e clienti definisce i “prodotti composti” quali “schemi negoziali composti da due o più contratti tra loro collegati che realizzano un’unica operazione economica”.

Ebbene, ad avviso della Banca d’Italia “in caso di prodotti composti la cui finalità̀ esclusiva o preponderante non sia di investimento si applicano:

– all’intero prodotto se questo ha finalità̀, esclusive o preponderanti, riconducibili a quelle di servizi o operazioni disciplinati ai sensi del titolo VI del T.U. (ad esempio, finalità̀ di finanziamento, di gestione della liquidità, ecc.);

– alle sole componenti riconducibili a servizi o operazioni disciplinati ai sensi del titolo VI del T.U. negli altri casi.

In caso di prodotti composti la cui finalità̀ esclusiva o preponderante sia di investimento, si applicano le disposizioni del T.U.F. sia al prodotto nel suo complesso sia alle sue singole componenti, a meno che queste non costituiscano un’operazione di credito al consumo (alle quali si applica quanto previsto dalle presenti disposizioni)”.

Nel caso di specie, per utilizzare le espressioni della Banca d’Italia, il mutuo con clausole floor, cap o collar, dovrebbe avere e conservare “finalità̀, esclusive o preponderanti, riconducibili a quelle di servizi o operazioni disciplinati ai sensi del titolo VI del T.U. (ad esempio, finalità̀ di finanziamento, …” e, pertanto, dovrebbe risultare soggetto alla disciplina del TUB, nonché alla disciplina di trasparenza contenuta nel Provvedimento di Banca d’Italia del luglio 2009 in tema di trasparenza.


[1] Ai sensi dell’art. 1815, primo comma c.c., “salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante. Per la determinazione degli interessi si osservano le disposizioni dell’articolo 1284”.

[2] Secondo gli interpreti “gli interessi corrispettivi rappresentano il corrispettivo per l’utilizzo del danaro da parte di chi dovrebbe effettuare la prestazione pecuniaria. Essi hanno pertanto natura di frutti civili secondo la definizione dell’art. 820 comma 3 c.c. e cioè di frutti che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Gli interessi corrispettivi in sostanza hanno la funzione di riequilibrare il vantaggio che il debitore ritrae, data la normale produttività della moneta, dal trattenere presso di sé somme di denaro. Essi sono dovuti oggettivamente, a prescindere dalla rilevanza della colpa del debitore in ordine al ritardo nel pagamento della somma dovuta” (V. Lenoci, Interessi e rivalutazione monetaria, 2013, pagg. 18 – 21).

Efficacemente, l’Arbitro Bancario Finanziario ha affermato che gli interessi “si qualificano appunto come corrispettivi, in quanto costituiscono la prestazione sinallagmatica della dazione di una somma di denaro da parte del mutuante e del suo passaggio in proprietà del mutuatario, ai sensi dell’art. 1814 c.c.” (ABF, Collegio di coordinamento, decisione n. 3412 del 23 maggio 2014, www.arbitrobancariofinanziario.it).

[3] Secondo la giurisprudenza “Gli interessi corrispettivi sui crediti liquidi ed esigibili hanno, ai sensi dell’art. 1282 c.c., natura accessoria rispetto al credito vantato, per cui la relativa statuizione, a differenza da quella riguardante il maggior danno ex art. 1224 c.c., non presuppone un’indagine autonoma rispetto a quella concernente il credito stesso e, pertanto, non può considerarsi tardiva la domanda di interessi sulla somma capitale, proposta per la prima volta in grado di appello, posto che, una volta riconosciuta quest’ultima, gli interessi decorrono “ex lege” (Cass., 20 aprile 2001, n. 5913).

[4] La Suprema Corte di Cassazione, proprio in tema di determinabilità del tasso di interesse del contratto di mutuo, ha ritenuto che “la clausola del contratto di mutuo che consente all’istituto bancario mutuante di modificare unilateralmente il tasso di interessi dandone comunicazione scritta all’altra parte, senza indicare i presupposti per l’esercizio di questo potere nè i criteri di determinazione del nuovo tasso, non rispetta l’esigenza della forma scritta, ad substantiam, del patto di pagamento di interessi in misura ultralegale posta dall’art. 1284 comma 3 c.c., che richiede o la indicazione in cifre, sul documento negoziale, del tasso d’interesse o, secondo i principi generali sulla determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto (art. 1346 c.c.), la specificazione di criteri di determinazione di questo tasso che, ancorché estrinseci, siano ancorati ad elementi di fatto esistenti o sicuramente accertabili, tali da richiedere, per la loro applicazione, una mera operazione aritmetica” (Cass., 18 giugno 1992, n. 7547).

[5] La risoluzione per inadempimento, dettata in generale dall’art. 1453 c.c., risulta esplicitata in relazione al contratto di mutuo dall’art. 1820 c.c., a mente del quale il mutuante può domandare la risoluzione del contratto laddove il mutuatario non adempia all’obbligo di pagamento degli interessi. Ai sensi del combinato disposto degli artt. 1453 e 1455 c.c., peraltro, l’inadempimento che giustifica la risoluzione deve avere i caratteri della gravità e dell’imputabilità. Proprio l’imputabilità dell’inadempimento pare carente nel caso di specie, ove il mancato pagamento degli interessi sarebbe dovuto all’andamento dell’indice Euribor, ossia a causa non imputabile al mutuatario e a quest’ultimo certamente esterna. Trattandosi di inadempimento dovuto a causa non imputabile al mutuatario, il rimedio della risoluzione del contratto per inadempimento di cui all’art. 1453 c.c. non pare quindi applicabile.

[6] Cass., 22 novembre 1985, n. 5785.

[7] Quanto all’art. 118 TUB, è noto che il c.d. jus variandi, nei rapporti a tempo determinato quali il mutuo, “può essere convenuta esclusivamente per le clausole non aventi ad oggetto i tassi di interesse, sempre che sussista un giustificato motivo”.

Quanto alla presupposizione, deve trattarsi di circostanza che può essere presente, passata e/o futura, che deve aver condizionato la volontà dei contraenti, di carattere obiettivo e non deve coincidere con l’oggetto di una prestazione a cui le parti si erano specificamente obbligate; poiché la prestazione degli interessi costituisce obbligazione alla quale il mutuatario si era specificamente obbligato, l’istituto della presupposizione non può essere utilizzato nel caso di specie.

[8] Come è noto, la nozione di causa contrattuale, così come interpretata da dottrina e giurisprudenza, è passata da una prospettiva prettamente oggettiva, generale ed astratta, quale “funzione economico-sociale del contratto”, ad una prospettiva propensa “a dotare di rilevanza causale anche quegli elementi specifici della concreta fattispecie contrattuale, che escono invece espunti o sterilizzarti dal processo funzionale di astrazione del tipo” (V. Roppo, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, p. 957). In questo senso, la causa concreta del contratto è stata efficacemente definita “lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare (c.d. causa concreta), quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato. (Cass., 8 maggio 2006, n. 10490).

[9] La teoria della nullità sopravvenuta è una moderna visione ripresa dalla giurisprudenza che “fa sí che un contratto originariamente valido possa divenire nullo per il verificarsi di eventi successivi alla sua stipulazione. Quest’ultimo orientamento della dottrina sembra essere stato seguito anche dalla giurisprudenza (ad esempio in caso di usura) e dispone che ogni qualvolta la conclusione del contratto non realizzi completamente i suoi effetti, come nei contratti ad effetti non istantanei, vale a dire i contratti ad effetti differiti e soprattutto quelli da cui scaturiscono rapporti di durata, lo stesso contratto, non essendosi esaurito, può essere soggetto ad una successiva declaratoria di nullità operante ex nunc qualora avvenga, ad esempio, una mutazione della legge che lo disciplina ovvero il venir meno di un suo elemento essenziale” (G. Nardelli, In tema di nullità e validità sopravvenuta, in Giur. it., 2003, p. 11).

[10] A fronte di sopravvenienze inattese ed esterne, le parti possono valutare l’opportunità di rinegoziare “liberamente” il contratto attraverso la modifica consensuale delle condizioni contrattuali e/o economiche originariamente stabilite nel contratto di mutuo in corso di ammortamento.

Specie nella prassi dei contratti internazionali, la rinegoziazione del contratto è prevista sin nell’originario accordo concluso dalle parti da specifiche clausole (c.d. hardship) che, in presenza di eventi rilevanti, prevedono l’attivazione di meccanismi di adeguamento contrattuale attraverso l’applicazione di specifici parametri (ad esempio un tasso di riferimento), la statuizione di un terzo arbitratore, ovvero sulla base dell’accordo delle parti.

In assenza di una disciplina speciale o di una convenzione tra le parti che imponga ai contraenti una nuova fase di negoziazione, taluni ritengono in ogni caso che la rinegoziazione possa essere dovuta in virtù del principio generale di buona fede che impone alle parti di adeguare la disciplina contrattuale alle sopravvenienze significative intervenute nel tempo.

L’istituto della rinegoziazione c.d. “libera” o “volontaria” dei contratti di mutuo trova fondamento nel potere di autonomia delle parti sancito negli articoli 1321 e 1322 c.c.. Si ritiene, infatti, che così come il consenso è valido al fine di costituire un rapporto giuridico di natura patrimoniale, allo stesso modo esso deve considerarsi valido al fine di disporne la modifica.

Qualora, quindi, le parti concordino sulla rinegoziazione, le reciproche obbligazioni potranno essere variamente ridefinite con la formazione di nuovi vincoli contrattuali sostitutivi dei precedenti e – ove non sostitutivi – integrativi degli stessi, a far data dal conseguimento del nuovo accordo (modifica della durata del mutuo, modifica del tasso di interesse, ovvero il cambiamento delle modalità di determinazione del tasso di interesse ed, in generale, la variazione del piano di ammortamento concordato nel contratto di mutuo originario).

La soluzione della rinegoziazione volontaria, sebbene in astratto prospettabile, non risulta immune da criticità.

In primo luogo, risulta necessario il “consenso” del cliente che potrebbe non accedere alla richiesta di rinegoziazione della banca.

Anche qualora il cliente accettasse di procedere alla rinegoziazione, occorrerebbe considerare che lo stesso mutuatario potrebbe, in caso di diverso andamento e sostanziale innalzamento dell’indice Euribor, successivamente domandare alla banca di procedere ad una seconda rinegoziazione che, stante l’avvenuta prima rinegoziazione, potrebbe risultare di fatto “dovuta”. In altri termini, lo stesso principio che ha condotto ad affermare un obbligo di rinegoziazione in capo al mutuatario (i.e. la buona fede nell’esecuzione del contratto) potrebbe condurre ad affermare un obbligo di rinegoziazione in capo alla banca mutuante in caso di opposte condizioni ed andamenti al rialzo dell’indice Euribor.

[11] Secondo la dottrina “l’obbligazione della corresponsione degli interessi decorre dal momento della consegna delle cose situate. Gli interessi sono frutti civili ed in quanto tali si acquistano giorno per giorno. In particolare, gli interessi maturano giorno per giorno ma non sono immediatamente esigibili al momento della maturazione: dovranno essere corrisposti agli intervalli stabiliti dal contratto od, in mancanza, annualmente (art. 1284 che prevede la misura del tasso di interesse in ragione dell’anno)” (B. G. Tedeschi, Mutuo (contratto di), in Digesto, vol. XI, pag. 547).

[12] In dottrina, la figura del deposito bancario è assimilata da alcuni alla figura del deposito irregolare (art. 1782 c.c.) (cfr. Galgano, Trattato di diritto civile, Padova, 2010, II, p. 747), e da altri alla figura del contratto di mutuo (art. 1813 c.c.) (cfr. De Palma – Razzante, Il contratto deposito fondi in banca, in Cassano (a cura di), I singoli contratti, Padova, 2010, p. 1065). Secondo una diversa ricostruzione, poi, il deposito bancario, assumerebbe i tratti di un contratto bancario tipico (Ferro Luzzi, Lezioni di diritto bancario, Vol. II, pag. 19). Il trasferimento della proprietà della somma di denaro è comunque richiesta da entrambe le fattispecie, così come per entrambe le tipologie contrattuali è espressamente previsto l’obbligo di restituzione delle somma equivalente di denaro e la corresponsione dell’interesse da parte del depositario.

[13] In merito alla ambivalente natura giuridica dei certificati di deposito, sospesi tra i prodotti bancari e gli strumenti del mercato monetario, sia consentito rinviare a Civale, La trasparenza bancaria: rapporto banca cliente e forme di tutela, Giuffrè 2013, pag. 21 e s.s..

[14] Occorre annotare che il principio contabile IAS39, al paragrafo 10 intitolato “Derivati incorporati”, prevede che: “Un derivato incorporato è una componente di uno strumento ibrido (combinato) che include anche un contratto primario non derivato con l’effetto che alcuni dei flussi finanziari dello strumento combinato variano in maniera similare a quelli del derivato preso a sé stante. Un derivato incorporato determina alcuni o tutti i flussi finanziari che altrimenti il contratto avrebbe richiesto di modificare con riferimento a un prestabilito tasso di interesse, a un prezzo di uno strumento finanziario, a un prezzo di una merce, a un tasso di cambio di una valuta estera, a un indice di prezzi o di tassi, al merito di credito (rating) o indice di credito o ad altra variabile, a condizione che, nel caso di una variabile non finanziaria, questa non sia specifica di una delle parti contrattuali. Un derivato che sia associato a uno strumento finanziario, ma sia contrattualmente trasferibile indipendentemente da quello strumento, o abbia una controparte diversa da quello strumento, non è un derivato incorporato, ma uno strumento finanziario separato.

[15] Oltre al Regolamento Consob Intermediari n. 16190/2007, occorrerebbe considerare la recente Comunicazione Consob del 22 dicembre 2014 sulla distribuzione di prodotti finanziari complessi ai clienti retail.

[16] Il tema dei c.d. derivati impliciti non risulta essere stato ad oggi oggetto di chiarimenti e indicazioni da parte delle Autorità di Vigilanza, né essere stato oggetto di esame approfondito da parte della giurisprudenza. Peraltro, le clausole floor, cap o collar sono state oggetto di esame da parte dell’Arbitro Bancario e Finanziario il quale ne ha escluso la qualificazione vessatoria e l’asserita assenza di causa (cfr. ABF, Collegio di Milano, 858/2010; ABF, Collegio di Milano, 140/2011; ABF, Collegio di Milano 668/2011; ABF, Collegio di Roma, 2688/2011; ABF, Collegio di Napoli 305/2012; ABF, Collegio di Napoli 2735/2014; ABF, Collegio di Roma, 8605/2014). In tema si veda anche Corte di Giustizia UE, sentenza 30 aprile 2014 resa nel procedimento 26/13.

Occorre inoltre segnalare che risulta in corso da parte dell’AGCM un’istruttoria (avviata con delibera del 7 maggio 2014), ai sensi dell’art. 14 della l. 10 ottobre 1990, n. 287, nei confronti di alcune banche per accertare l’esistenza di violazioni dell’art. 2 della citata l. 10 ottobre 1990, n. 287. Le banche coinvolte erano in origine 6 ma con provvedimento del 2 febbraio 2015 il procedimento è stato esteso nei confronti di altre banche. In particolare, il Centro Tutela Consumatori Utenti Alto Adige ha segnalato una presunta intesa anticoncorrenziale sulle offerte di mutuo ipotecario a tasso variabile per l’acquisto prima casa. Per tutte le banche il tasso floor risulterebbe fissato nell’identica misura del 3%. Ove accertata, l’adozione omogenea di tale tasso corrisponderebbe alla previsione di un prezzo minimo comune.

[17] In tema appare utile richiamare la distinzione proposta da autorevole dottrina (P. Ferro Luzzi, Attività e prodotti finanziari, in L’attuazione della MiFID in Italia a cura di D’Apice, pag. 18), secondo cui occorre distinguere tra:

– operazioni creditizie caratterizzate dallo schema “denaro / tempo / denaro” in cui l’interesse delle parti è finalizzato al trasferimento di una somma (denaro), per il godimento per un dato periodo (tempo), a cui consegue un obbligo di restituzione (denaro);

– operazioni finanziarie caratterizzate dallo schema “denaro / valore / denaro” in cui il valore intermedio (valore) si interpone ed influisce sulla determinazione della prestazione finale.

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