La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, ha rigettato il ricorso del fallito avverso la decisione dalla Corte di Appello, che confermava la sentenza dichiarativa di fallimento, la quale ha qualificato il debitore come imprenditore, ritenendolo pertanto soggetto al procedura di fallimento.
Nel caso di specie, il ricorrente (avvocato), seppur in mancanza dell’apposita autorizzazione, esercitava l’attività di gestione di fondi, affidatigli dai suoi clienti, attraverso una ramificata struttura esterna, creata ad hoc ed operante (anche all’estero) tramite una serie di società a lui riconducibili. Il fallito assumeva personalmente i rischi relativi alla gestione, facendo confluire il denaro corrispostogli su conti intestati a lui o ai suoi collaboratori, ma soprattutto effettuando gli investimenti in nome e per conto proprio, con l’evidente intento di trarre profitto dall’attività illecita svolta, per la quale aveva subito condanna in sede penale ai sensi dell’art. 166 TUF. Posto che i requisiti della professionalità e della continuità (circa lo svolgimento dell’attività imprenditoriale) risultavano già dal precedente accertamento penale, coperto da giudicato, in considerazione del su descritto modus operandi del debitore, si è, inoltre, ritenuto pienamente sussistente il presupposto della etero-organizzazione. Di conseguenza, si è ricondotto il caso concreto, non alla fattispecie di cui all’art. 2222 c.c. (lavoratore autonomo), ma a quella descritta dall’art. 2082 c.c. (imprenditore).