Con Ordinanza n. 5458 del 22 febbraio 2023, la Corte di Cassazione si è espressa sul fallimento della società di fatto e della supersocietà di fatto.
La riforma del diritto societario, com’è noto, ha espressamente consentito la partecipazione, anche di fatto, di una società di capitali ad una società di persone (cd. “supersocietà”).
Gli artt. 2361 c.c. e 111 duodecies disp.att. c.c., infatti, hanno inequivocamente previsto che una società di capitali possa assumere la qualità di socio illimitatamente responsabile, tra l’altro, di una società in nome collettivo, pur se irregolare (art. 2297 c.c.) come la società di fatto.
Nel medesimo senso, del resto, depone l’art. 147, comma 1°, l.fall., nel testo successivo alla riforma della legge fallimentare ed applicabile ratione temporis, il quale, in coerenza con la predetta opzione normativa, dispone che “la sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile” (e cioè di una società in nome collettivo, di una società in accomandata semplice o di una società in accomandita per azioni) “produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili”, in tal modo ribadendo la possibilità che le società di persone, anche se di mero fatto (cd. “supersocietà” di fatto), abbiano, tra i propri soci illimitatamente responsabili, altre società, anche di capitali, con “tutte le implicazioni, ivi compreso il possibile fallimento della società di fatto, cui quella di capitali abbia partecipato, e dei suoi soci illimitatamente responsabili”.
Ne consegue che, una volta “accertata l’esistenza di una società di fatto e la sua insolvenza, i soci possono essere dichiarati falliti in estensione … di quello della società di fatto, che invece va accertata nei suoi elementi costitutivi e nello status di soggetto imprenditore insolvente”, tanto “ai sensi dell’art. 147, 1° comma, l.f.” (Cass. n. 1095 del 2016, in motiv.; Cass. n. 12120 del 2016), quanto a norma dell’art. 147, comma 5°, l.fall.
In effetti, “una volta ammessa la configurabilità di una società di fatto partecipata da società di capitali e la conseguente sua fallibilità ai sensi del 1° comma dell’art. 147 l.fall.”, non v’è alcuna ragione che, nell’ipotesi disciplinata dal ridetto 5° comma – in cui l’esistenza della società emerga in data successiva al fallimento autonomamente dichiarato di uno solo dei soci – possa giustificarne un differenziato trattamento normativo, ammettendone o escludendone la fallibilità a seconda che il socio già fallito sia un imprenditore individuale o collettivo.
L’art. 147, comma 5°, l.fall., come la Cassazione ha ripetutamente affermato (Cass. n. 7903 del 2020; Cass. n. 3867 del 2020; Cass. n. 10507 del 2016; più di recente, Cass. n. 20552 del 2022), trova, invero, applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, ma, in virtù di sua interpretazione estensiva (Cass. n. 366 del 2021), anche nel caso in cui il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (cd. supersocietà di fatto): “sia nel caso in cui dopo la dichiarazione di fallimento della società risulti l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili (art. 147, quarto comma), sia in quello in cui (art. 147, quinto comma) dopo la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore individuale – o della società, in base alla citata esegesi estensiva – risulti che l’impresa è riferibile a una società di cui il fallito (imprenditore individuale o società) sia socio illimitatamente responsabile (come tipicamente accade per la supersocietà di fatto), si procede sempre “allo stesso modo”: vale a dire ai sensi dell’art. 147, quarto comma, in base alla specifica competenza del tribunale che ha già dichiarato il fallimento” (Cass. n. 4712 del 2021); conf., del resto, Corte cost. n. 255/2017, secondo la quale “un’interpretazione dell’art. 147, quinto comma, l.fall. che conducesse all’affermazione dell’applicabilità della norma al solo caso (di fallimento dell’imprenditore individuale) in essa espressamente considerato, risulterebbe in contrasto col principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.”).