E’ ammissibile l’istanza di fallimento di un’impresa già ammessa al concordato preventivo omologato, a prescindere dall’intervenuta risoluzione della procedura concorsuale minore, pur quando l’insolvenza si riferisca al mancato pagamento dei crediti falcidiati (e perciò al fabbisogno concordatario). Ciò in quanto l’avvenuta omologazione, la chiusura della procedura concordataria e l’accesso del debitore alla fase propriamente esecutiva dell’accordo comportano l’applicazione non già delle regole di coordinamento tra le due procedure bensì dei principi generali di responsabilità, compresa – se dall’inesecuzione del concordato si debbano trarre elementi di insolvenza – la dichiarazione di fallimento. E’ quanto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 4696 pubblicata il 14.2.2022. Il massimo giudice di legittimità ha, così, definito la vexata quaestio della compatibilità, con il sistema normativo, della dichiarazione di fallimento omisso medio (in difetto, cioè, della previa risoluzione del concordato).
Una società, già ammessa al concordato preventivo omologato, era stata dichiarata fallita dal giudice di primo grado, che ne aveva rilevato lo stato di insolvenza alla luce dell’incapacità di adempiere alle obbligazioni derivanti dal concordato in corso di esecuzione. Ciò del tutto prescindendo da una preliminare pronuncia di risoluzione del concordato, regolata dall’art. 186 l. fall.
In sede di reclamo la Corte d’appello, muovendo dal richiamo ad un non recentissimo arresto delle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. n. 9935/15), aveva revocato la sentenza di primo grado osservando che, a mente della disciplina dettata dagli artt. 5 e 6 l. fall. e pena l’elusione degli effetti negoziali del concordato preventivo che ne sarebbe altrimenti conseguita, la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore soggetto a concordato omologato ed in fase di esecuzione era impedita dal difetto di una previa pronuncia di risoluzione della procedura minore.
Il fallimento aveva, quindi, impugnato la sentenza della Corte d’appello inter alia sostenendo che né l’art. 5 né l’art. 186 l. fall. subordinano la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore commerciale insolvente, soggetto al concordato preventivo omologato, alla previa risoluzione del concordato stesso (conclusione confermata, sul piano sistematico, dalla inammissibilità di limitazioni al diritto di azione non espressamente previste). La società debitrice aveva, dal canto suo, opposto che l’insolvenza rilevata era riferibile non già a debiti nuovi, maturati nella continuazione dell’attività, bensì ad obbligazioni antecedenti al concordato preventivo e, dunque, ad un’insolvenza già definitivamente regolata nel piano di concordato. Sicché detta situazione di insolvenza, non poteva trovare sistemazione simultanea in due distinte procedure, imponendo la previa rimozione (per annullamento o risoluzione) di quella precedentemente incardinata.
Con ordinanza interlocutoria n. 8919 del 31 marzo 2021 la Prima Sezione Civile della Cassazione, investita della decisione, ha ritenuto di rimettere gli atti al Supremo Consesso, evidenziando l’esistenza di un quadro interpretativo “controverso ed ampiamente discutibile”, connotato da precedenti di legittimità e orientamenti dottrinali di segno opposto ed aggravato dall’inserimento, mediante il primo intervento integrativo e correttivo di cui al d. lgs. 147/2020, nell’art. 119 del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, della previsione di cui al settimo comma, a mente della quale “Il Tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo”; disposizione che, pur se inapplicabile allo stato, costituisce un utile strumento di rilevanza interpretativa, vista la sostanziale continuità con la disciplina vigente relativa ai requisiti della risoluzione del concordato.
La principale ambiguità, secondo i giudici remittenti, sarebbe correlata alle modificazioni introdotte all’art. 186 l. fall. dal Lgs. 169/2007: mentre, infatti, nell’assetto previgente, caratterizzato da un regime di automatismo, il fallimento veniva dichiarato d’ufficio dal tribunale “con la sentenza che risolve o annulla in concordato”, nella disciplina successiva, applicabile ratione temporis, risoluzione del concordato preventivo e fallimento costituiscono istituti del tutto autonomi ed operativamente slegati, tanto che il concordato preventivo inadempiuto non può essere risolto se non su iniziativa dei creditori.
Il Supremo Consesso è, quindi, stato chiamato a verificare se l’affermata possibilità di dichiarare il fallimento senza previa risoluzione del concordato comporti l’elusione dei presupposti della risoluzione stessa, risultando incompatibile con un sistema normativo che, per un verso, condiziona al verificarsi di certi eventi (generativi di un fallimento in consecuzione e non autonomo) la possibilità di dichiarazione di fallimento nel concordato preventivo e, per altro verso, pone il principio generale del necessario coordinamento tra procedure concorsuali relative ad una medesima insolvenza, con preferenza per la soluzione concordataria.
Con un’immediata battuta d’arresto le Sezioni Unite hanno rilevato che la tesi della preclusione del fallimento in assenza di risoluzione del concordato “introduce nell’ordinamento una vistosa deroga alla regola generale di fallibilità dell’imprenditore commerciale insolvente ex artt. 1 e 5 l. fall., e ciò in forza di una interpretazione priva di riscontro nella lettera della legge e solo apparentemente sistematica”; ciò perché non tiene conto del fatto che la risoluzione, che è rimedio di natura contrattuale, opera “non quale condizione di fallibilità bensì in relazione al diverso fine della rimozione dell’obbligatorietà del concordato e, dunque, allo scopo di restituire al creditore anteriore la libertà di agire senza limiti concordatari, e per l’intero”. A tal proposito – ha affermato il Giudice di legittimità – la sentenza della Corte Costituzionale n. 106/2004, richiamata in atti dalle parti, pur se intervenuta prima della riforma della Legge Fallimentare e delle modificazioni introdotte all’art. 186 l. fall. dal d. lgs. 169/2007, detta un principio ancora del tutto pertinente e valido: una cosa, infatti, è il superamento dell’obbligatorietà del concordato e dei vincoli che da esso discendono ex artt. 184 l. fall. e 1372 c.c., e tutt’altra è la configurabilità di un’insolvenza in relazione anche soltanto al fabbisogno concordatario così come risultante anche prima e indipendentemente dalla risoluzione. Riguardando l’art. 186 l. fall. un istituto diverso da quelli afferenti lo statuto di fallibilità non trovano, perciò, ragione i dubbi relativi alla possibile elusione della disciplina della risoluzione del concordato.
La decisione dalle Sezioni Unite, nel porsi in linea con l’indirizzo interpretativo lumeggiato dalla Cassazione in alcuni arresti precedenti, appare di perdurante e rafforzata persuasività.
Ed infatti, già con due sentenze del 2017 (Cass. nn. 17703/17 e 29632/17), la Cassazione, muovendo dalla caduta, già con la riforma del 2005-2006, di ogni automatismo tra risoluzione del concordato e fallimento, aveva precisato che non sussistono preclusioni alla dichiarazione di fallimento di società in concordato preventivo omologato ove si faccia questione dell’inadempimento di debiti già sussistenti alla data del ricorso per l’ammissione al concordato e tuttavia modificati con l’omologazione, dovendosi verificare all’epoca della decisione così sollecitata i presupposti di cui agli artt. 1 e 5 l. fall.. In tal caso, osservavano i giudici, il creditore esercita legittimamente l’iniziativa che gli è riconosciuta dall’art. 6 l. fall., la quale non è condizionata dal precetto di cui all’art. 184 l. fall. e può, dunque, essere attivata a prescindere dalla risoluzione del concordato preventivo.
Invero, ancor prima, con due sentenze gemelle nel 2015 (nn. 9935 e 9936), le Sezioni Unite avevano affrontato i due aspetti cruciali della questione, e cioè la rimozione dell’insolvenza per effetto dell’omologa e la necessaria consecutività tra concordato e fallimento. Ribadendo che tra la procedura concordataria e quella fallimentare deve ricorrere un coordinamento volto ad attribuire preminenza allo scopo preventivo ed alternativo della prima, il Supremo Consesso aveva all’epoca osservato che durante la pendenza di una procedura di concordato, il fallimento è precluso, salvo che nei casi tassativamente previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall., intendendosi per “pendenza” indifferentemente “le fasi si ammissione, di approvazione o di omologazione”. Sicché, si era detto, “l’omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l’annullamento del concordato”. Tale posizione era stata, tuttavia, assunta dalle Sezioni Unite sul presupposto che il concordato preventivo possa dirsi “pendente” fino al passaggio in giudicato del decreto di omologazione, mentre il problema del rapporto tra risoluzione e fallimento attiene alla fase successiva all’omologa del concordato, il che farebbe venir meno – nella lettura che ne è data anche nell’arresto in commento – ogni necessità di coordinamento tra le procedure. La dichiarazione di fallimento, insomma, non può essere preclusa quando le modalità satisfattive contemplate nel piano concordatario risultino inattuabili non già in pendenza della procedura di concordato preventivo bensì nella fase esecutiva dell’accordo raggiunto. Correttamente, pertanto, nella sentenza in commento i giudici escludono che la tesi del fallimento senza risoluzione possa stridere con i principi affermati nelle ridette pronunce gemelle.
Da ultimo, quanto al richiamo della previsione contenuta nel settimo comma dell’art. 119 del Codice della Crisi d’Impresa, non può sottacersi che l’indubbia valenza interpretativa postuma delle nuove norme (una fonte che, ricordano i giudici richiamando Cass. Sez. Un. n. 8504/2021, “costituisce già oggi parte integrante del corpus legislativo dell’ordinamento”) appare, nella fattispecie, inibita dal difetto di continuità tra il regime vigente e quello futuro, interessante il ruolo del commissario giudiziale nella fase esecutiva del concordato. Ed infatti, nel nuovo assetto normativo la legittimazione ad agire per la risoluzione del concordato è riconosciuta anche al commissario giudiziale, oltre che ai creditori.
Resta da chiedersi se tale rilevante novità, che condiziona pur sempre l’iniziativa del commissario giudiziale alla richiesta proveniente dal creditore, sia davvero capace di “imprimere una svolta ad uno stato di cose” caratterizzato dal mancato ricorso al rimedio della risoluzione da parte di creditori preoccupati dagli eccessivi esborsi giudiziali e, perciò, a tal punto dirimente da precludere aprioristicamente l’utilità interpretativa della nuova norma. Ciò senza considerare due ulteriori elementi affatto marginali, dei quali invero anche le Sezioni Unite dimostrano di non essere ignare: da una parte, il rischio che la volontà dei creditori (cui spetta un ruolo preminente nella valutazione di convenienza e fattibilità del concordato) possa risultare neutralizzata dalla domanda di fallimento proposta per saltum (cioè, senza passare per il vaglio giudiziale dei presupposti di risoluzione) dal PM, dallo stesso debitore o da un creditore e, dall’altra, la prevalenza dei connotati negoziali su quelli pubblicistici del concordato frutto delle riforme degli anni duemila, che nel quadro disegnato risulterebbe certamente frustrata.
Tema non affrontato dalla Sezioni Unite nella sentenza in commento ma a quello esaminato certamente correlato attiene agli effetti del fallimento dichiarato omisso medio sull’entità, integrale o falcidiata, dei crediti concordatari da ammettere al passivo fallimentare; se, cioè, il credito ammissibile al fallimento sia quello originario (per l’intero) o quello soggetto alla falcidia concordataria. Chi scrive propende a ritenere, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale non timidamente profilatosi negli ultimi anni, che il credito concordatario debba essere ammesso al passivo fallimentare nella misura integrale non solo quando la domanda di risoluzione sia stata espressamente proposta (da uno dei creditori) al verificarsi dei presupposti di legge, ma anche quando, in pendenza del termine per domanda di risoluzione, uno dei soggetti legittimati abbia chiesto direttamente il fallimento. In tale secondo caso, infatti, la condizione di insolvenza origina pur sempre da quelle stesse obbligazioni concordatarie e la domanda di fallimento implicitamente sottende (o, per meglio dire, comprende) la risoluzione del concordato in corso di esecuzione. Sarebbe, d’altra parte, incoerente assoggettare a falcidia concordataria il credito da ammettere al passivo senza che il creditore, che l’aveva accettata nella prospettiva della fedele esecuzione del piano e di una spedita, seppur parziale, soddisfazione, abbia potuto proporre la domanda di risoluzione del piano stesso, pur pendendo ancora il termine di cui all’art. 186 l. fall..
Per converso, la falcidia concordataria dovrebbe ritenersi applicabile al caso, evidentemente diverso, in cui il termine per proporre la domanda di risoluzione del concordato di cui all’art. 186, co. 3, l. fall. fosse spirato. In tale ipotesi, infatti, il piano concordatario verrebbe a consolidarsi senza che i creditori si siano attivati per chiederne la risoluzione, sicché il debitore continuerebbe ad essere obbligato al suo adempimento e i creditori e il P.M. potrebbero promuovere le iniziative dirette a fare accertare l’insolvenza nella misura falcidiata.