Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione conferma il principio di diritto, già consacrato nella sent. n. 46689/2016, secondo cui l’elemento soggettivo del reato di false comunicazioni sociali – in cui il dolo presenta una morfologia complessa, essendo ad un tempo generico per la rappresentazione del falso, specifico per l’ingiusto profitto e intenzionale per l’inganno dei destinatari (risultando inapplicabile ratione temporis la novella di cui alla l. n. 69/2015, che ha espunto il riferimento al proposito decettivo dell’agente) – non può dirsi provato dalla sola violazione delle norme in tema di esposizione delle voci di bilancio, né dallo scopo di assicurare un’artificiosa sopravvivenza della società, occorrendo invece che esso risulti da «[…] inequivoci elementi che evidenzino, nel redattore del bilancio, la consapevolezza del suo agire abnorme o irragionevole attraverso artifici contabili» (in termini sostanzialmente analoghi cfr. Cass. n. 46689/2016, all’uopo richiamata nella pronuncia in commento).
Il Supremo Collegio ha avuto modo di soggiungere, nel caso in esame, che la prova di tale consapevolezza non può essere implicitamente desunta dal «rilevante importo» della posta contabile taciuta; per l’effetto, ha ravvisato nella sentenza impugnata una carenza motivazionale, nella parte in cui si era ritenuto che la mancata ostensione in bilancio di una garanzia prestata dalla società, per un ammontare superiore al milione di euro, fosse, di per sé, idonea ad integrare l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 2621 c.c.