La pronuncia della Suprema Corte trae origine da un più ampio contesto di azione revocatoria ex art. 2901 c.c. svolta da un noto operatore del mercato dei crediti in sofferenza (succeduto alla banca creditrice) nei confronti di due fideiussori, per vedere dichiarare l’inefficacia dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale, disposto dai medesimi, nel quale era confluito il loro intero patrimonio immobiliare.
Ciò in quanto, con il loro ricorso, i menzionati fideiussori avevano dedotto – per la prima volta in sede di giudizio di legittimità – che la fideiussione di cui alla controversia de qua fosse nulla in quanto conforme allo schema predisposto dall’ABI, in tema di clausole da apporre alle fideiussioni, nel 2001 e dichiarato illegittimo dalla Banca d’Italia con il Provvedimento 55 del 2 maggio 2005 in quanto risultante da un’intesa restrittiva della concorrenza.
Il punto di riferimento per il rilievo di nullità che venga sollevato per la prima volta in sede di gravame va riscontrato nella recente pronunzia delle SS. UU. (Cass. Sez. Un., Sent. n.26242 del 12/12/2014), con cui si è sancito che la domanda di accertamento della nullità di un negozio proposta, per la prima volta, in appello è inammissibile ex art. 345, primo comma, c.p.c., salva la possibilità del giudice del gravame – obbligato in ogni caso a rilevare d’ufficio ogni possibile causa di nullità, ferma la sua necessaria indicazione alle parti ex art. 101 c.p.c – di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall’appellante, giusta il secondo comma del citato art. 345 c.p.c.
In conformità a quanto precede, i Giudici di Piazza Cavour, pertanto, hanno affermato che la rilevabilità officiosa costituisce il proprium anche delle nullità speciali, incluse quelle denominate di “protezione virtuale”. In tali ipotesi, il potere del giudice di rilevare tout court appare essenziale al perseguimento di interessi pur sempre generali sottesi alla tutela di una data classe di contraenti (consumatori, risparmiatori, investitori), con l’unico limite di riservare il rilievo officioso delle nullità di protezione al solo interesse del contraente debole, ovvero del soggetto legittimato a proporre l’azione di nullità.
Con ciò, non potendosi maturare preclusioni o giudicati impliciti in materia di nullità rilevabili di ufficio, il potere di rilievo officioso di cui sopra spetta anche al giudice investito del gravame relativo ad una controversia che suppone la validità ed efficacia del rapporto contrattuale oggetto di allegazione, e che sia stata decisa dal giudice di primo grado senza che questi abbia prospettato ed esaminato, né le parti abbiano discusso, di tal validità ed efficacia, trattandosi di questioni afferenti ai fatti costitutivi della domanda ed integrante, perciò, un’eccezione in senso lato, rilevabile d’ufficio anche in sede di gravame (da ultimo, ex multis, Cass., Sez. VI., Sent. n.19521/2018).
Attestata la possibilità di rilevare d’ufficio la nullità negoziale anche nel giudizio di legittimità (in virtù, inter alia, del disposto dell’art. 101, par. 2 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, all’origine della legge nazionale Antitrust), la Suprema Corte volge tuttavia a sottolineare i limiti che tale rilievo può incontrare in tale sede.
Da un lato, occorre infatti avere riguardo agli “effetti derivati” della nullità di un’intesa anticoncorrenziale di tipo orizzontale tra vari operatori economici di un determinato settore, rilevando se gli effetti distorsivi si siano effettivamente trasferiti sui negozi stipulati “a valle” dell’intesa illecita; avendo la Corte avuto già modo di chiarire a riguardo che dalla declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza non discende automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese aderenti all’impresa (ex multis Cass. Sez. VI – III, Ord. n.9116 del 2014).
Dall’altro lato, come sancito da una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass., Sez. I, Sent. 04/03/2019), le nullità “a valle” delle fideiussioni omnibus devono essere valutate alla stregua dell’art. 1418 e ss. c.c., potendo trovare applicazione l’art. 1419 c.c. laddove l’assetto degli interessi in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle clausole rinvenienti dalla intesa illecita, posto che, in linea generale, solo la banca creditrice potrebbe dolersi della loro espunsione.
Tale possibile effetto limitato della nullità dell’intesa “a valle” comporta necessariamente un ulteriore vaglio degli interessi in gioco da parte del giudice.
Ed è proprio sulla base di quest’ultimo rilievo che la Suprema Corte giunge ad affermare che, la nullità dell’intesa (coinvolgente lo schema contrattuale predisposto dall’ABI), costituente il presupposto di validità della fideiussione – indicata come conforme al modello ABI – da cui deriva la legittimazione attiva della creditrice, per quanto rilevabile d’ufficio, “in sede di legittimità non può, del pari, essere accertata sulla base di una “nuda” eccezione, sollevata per la prima volta con il ricorso per Cassazione, rimandando la deduzione a contestazioni, in fatto, mai effettuate dalle parti convenute nell’azione revocatoria, a fronte della quale l’intimato sarebbe costretto a subire il vulnus di maturate preclusioni processuali”.
Ne consegue l’improponibilità dell’eccezione de qua solo in sede di giudizio di legittimità ogniqualvolta risulti priva degli elementi necessari per poterla rilevare d’ufficio sulla base degli elementi fattuali sin lì acquisiti e discussi dalle parti.