SOMMARIO: Negli ultimi anni, e con maggiore intensità dopo la pandemia, si è assistito ad un incremento rilevante degli strumenti giuridici volti a favorire la cooperazione fra imprese. Dalla classica forma del consorzio, passando per i gruppi, fino al più recente schema del contratto di rete, il nostro ordinamento offre molteplici soluzioni organizzative. Il contributo esamina l’evoluzione storica e giuridica del fenomeno, soffermandosi sulla fattispecie del contratto di rete ed analizzando, in conclusione, la proposta di legge volta ad istituire la qualificazione di “società collaborativa”.
ABSTACT: In recent years, and with greater intensity the pandemic period, there has been a significant increase in the number of Italian legal instruments aimed at fostering cooperation between enterprises. From the classic form of the “consorzio” (consortium), through “gruppi” (groups of companies), to the more recent “contratto di rete” (network contract) scheme, our legal system offers many organisational solutions. The paper examines the historical and legal evolution of the phenomenon, focusing on the “contratto di rete” and analysing, in conclusion, the proposed law aimed at establishing the qualification of “società collaborativa” (collaborative company).
1. Pandemia e nuovo ordine economico post Covid-19
La recente pandemia ha portato con sé a livello economico – e con effetti comparabilmente gravi quanto quelli sanitari – una profonda crisi sistemica, qualificata rispetto ad altre da un peculiare carattere “selettivo” di categoria conseguente ora alle regole di “distanziamento sociale” (si pensi ad attività come sale da ballo o discoteche, azzerate), ora alle limitazioni alla circolazione (che hanno colpito l’industria del turismo e del trasporto), ora per le nuove abitudini di vita (lo smart working ha desertificato intere zone che vivevano sull’indotto dei centri direzionali, degli istituti di studio, ecc.)[1].
Ciò ha posto indubbiamente, con il graduale instaurarsi di una “nuova normalità”, inedite sfide non solo al mondo imprenditoriale ma anche ai professionisti che – nell’affiancare le imprese ed accompagnarle nel tortuoso percorso di ripresa – debbono essere in grado di proporre anche soluzioni innovative e adeguate alla diversa realtà in cui oggi l’impresa si trova ad operare.
Fra le molte innovative (o riscoperte) traiettorie del diritto dell’impresa e dell’economia, mi sembra che assuma particolare rilevanza il fil rouge dato dall’elemento cooperazionale che attraversa settori anche eterogenei, dall’ambito pubblicistico (penso al principio di solidarietà sancito dall’art. 6 del nuovo codice dei contratti pubblici[2]), a quello del terzo settore, a mente del d.lgs. 117/2017, senza trascurare il mondo delle imprese lucrative, anche societarie, dove si intravede, quantomeno de lege ferenda, la frontiera più avanzata nella c.d. “società collaborativa” in gestazione in Parlamento. Dico subito – focalizzando l’attenzione su quest’ultimo terreno – che non si tratta di un nuovo “scopo sociale” che si va ad affiancare a quelli lucrativo, mutualistico, consortile, o sociale, né di pensare a nuovi “tipi” sociali, bensì di un “format” di organizzazione dell’impresa (anche, ma non solo, societaria) che ricorre non più al classico modello della entità monade, organizzata internamente in modo gerarchico (a livello di impresa) e secondo il principio “plutocratico” puro (a livello di società) come era stato immaginato nel codice del 1942 (art. 2086, comma 1, ove si dice che l’imprenditore è il capo dell’impresa e dai lui dipendono tutti i collaboratori; artt. 2252, 2368 s., 2479 ss. relativi al principio di maggioranza basato sul capitale) bensì ad uno schema di governance “orizzontale” che – anche strizzando l’occhio alle metriche della sostenibilità (il “fattore G” della formula ESG[3]) – valorizza il contributo umano e professionale che ciascun partecipante può mettere a disposizione dell’attività comune attraverso processi quali la messa a sistema di competenze e capacità, l’aggregazione di idee, persone e risorse, il coinvolgimento attivo nelle scelte strategiche, il coordinamento dei fattori della produzione, l’estrazione di potenzialità inespresse e non economicamente valorizzabili in chiave di conferimenti, il rafforzamento del commitment con il tessuto sociale e la visione di medio/lungo periodo. In tutto ciò poi gioca un ruolo tutt’altro che trascurabile la filosofia ESG che trova terreno fertile in quelle logiche imprenditoriali che propongono modelli di business virtuosi, green, di utilizzo più efficiente delle risorse naturali, di coinvolgimento e coesione, capaci di essere accessibili a fasce più ampie di popolazione in una ottica di medio/lungo periodo.
In questo articolato contesto, il fenomeno “cooperazionale” si concretizza in un ventaglio di varianti e forme di cui la struttura societaria è uno dei possibili “involucri organizzativi”. Pensiamo soltanto alle reti d’impresa, ontologicamente prive di un vero e proprio schema “base” e capaci di assumere connotati che spaziano da quelli tipici della forma “societaria” (le reti soggetto con responsabilità limitata) a quelli più prossimi agli accordi di collaborazione; ma anche al fenomeno consortile di cui la rete è in qualche modo un modello evoluto e potenziato.
Può dunque essere utile adottare una visione di più ampio respiro e provare a tracciare innanzitutto un quadro d’insieme del fenomeno cooperazionale “dei nostri tempi” per poi svolgere qualche telegrafica considerazione su taluni aspetti comuni alle principali species di imprese che rientrano nel genus di quelle collaborative.
2. Cooperazione fra imprese e modelli giuridici: traiettorie evolutive
Risale agli anni Ottanta del Novecento l’inizio del graduale superamento del modello classico dell’impresa verticale di grandi dimensioni elaborato da Ronald Coase e Alfred Chandler[4] con l’affermazione di «strutture intermedie o ibride come le reti di imprese, le forme consortili, la ricerca collaborativa e l’impresa sociale»[5].
Scorrendo a ritroso la storia del nostro diritto d’impresa si può in effetti individuare nella novella sui consorzi (L. 3.4.1976 n. 364) e a breve distanza nell’introduzione della nozione di associazione temporanea di imprese (L. 8.8.1977 n. 584)[6], la comparsa dei primi modelli legali[7] di cooperazione imprenditoriale reticolare, poi seguiti, in rapida successione, dall’istituzione a livello comunitario del GEIE (Regolamento CEE 25.7.1985 n. 2137)[8], nel 1991 dai “distretti” (art. 36 L. 5.10.1991 n. 317)[9] e più di recente – tralasciando il caso delle “reti di revisori” di cui all’art. 138 del TUF, funzionale più che altro alla garanzia di indipendenza (oggi trasfuso nel d.l.gs. 27.1.2010 n. 39)[10] – dai consorzi stabili (artt. 10 e 12 della L. 11.2.1994 n. 109, poi artt. 34 e 36 del d.l.gs. 18.4.2016 n. 50 ed ora artt. 65, comma 2, lett. d, 66, comma 1, lett. g, d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36)[11] dalle discipline della subfornitura (L. 18.6.1998 n. 192) e del franchising (L. 6.5.2004 n. 129)[12] benché queste ultime più orientate a tutelare la parte debole del rapporto (la subfornitrice e il franchisee) dal rischio di abusi della dipendenza economica che a disciplinare compiutamente la fattispecie. E da ultimo, con l’art. 3 commi 4-ter ss. del d.l. 10.2.2009 n. 5, conv. L. 9.4.2009 n. 33[13], poi oggetto di numerose modifiche, dalla figura del contratto di rete, primo e per ora unico modello di questo genere nel panorama europeo dei meccanismi di cooperazione fra imprese[14].
3. Nel solco della tradizione: consorzi e società consortili
Fra gli strumenti cooperazionali di più antica elaborazione, senz’altro spicca la disciplina del consorzio, sia in forma contrattuale che societaria[15].
Come si è visto poc’anzi, il consorzio ha conosciuto una “seconda giovinezza” a partire dalla metà degli anni Settanta, quando ne è stata riscritta la disciplina con la novella sui consorzi, poi seguita, per lo specifico settore degli appalti, dai consorzi stabili, ai quali oggi molti si fa ricorso.
Il consorzio è un istituto funzionalmente dedicato al “fare rete”, cioè all’integrazione fra fasi di attività o imprese, così come anche alla realizzazione di programmi collaborativi fra imprese ed enti pubblici (pure del settore della formazione e ricerca come le università) e la sua disciplina è nel complesso semplice.
Anche la sua declinazione societaria si presenta con caratteristiche solitamente ben definite: il tipo base di società è usualmente la s.r.l. sul cui corpus vengono ad innestarsi le regole consortili (fra tutte, l’assenza di scopo di lucro e il divieto di distribuzione di utili; l’obbligo di versamento di contributi consortili) e le specifiche clausole volte a “personalizzare” lo strumento. Pensiamo ad esempio alla previsione relativa alle prestazioni dei soci, solitamente formulata nel senso che possono effettuare prestazioni di qualsiasi natura alla società per consentire il miglior svolgimento delle attività finalizzate alla realizzazione dello scopo consortile, sia attraverso l’effettuazione di attività, sia attraverso la cessione e/o la messa a disposizione, a qualsiasi titolo, di beni di qualsiasi natura, ovvero attraverso la fornitura di servizi; oppure alla clausola di esclusione di soci inadempienti o divenuti incapaci di perseguire lo scopo consortile. Non è neppure infrequente che lo statuto preveda la nomina (obbligatoria o facoltativa) di organi, comitati o gruppi di lavoro interni per le più disparate esigenze di programmazione, coordinamento, controllo e efficientamento della società, oppure che differenzi forme e modalità di contribuzione agli scopi consortili in considerazione delle diverse caratteristiche dei soci.
La società consortile è dunque un buon strumento cooperazionale, purtroppo però presenta taluni limiti: richiede sempre la forma solenne dell’atto pubblico; non può essere utilizzato da persone fisiche al di fuori del caso che siano imprenditori; si basa sulla s.r.l. che, seppure tipo sociale dalle molte qualità[16] incontra taluni severi limiti tipologici ed è comunque uno strumento “pesante” perché crea una organizzazione corporativa soggettivizzata. A ciò si può solo in parte porre rimedio, solitamente con la previsione di regolamenti consortili che possono governare aspetti non disciplinati nello statuto, oppure stipulando accordi quadro o patti parasociali fra tutti i soci, mercé i quali si può ad esempio assicurare la stabilità della compagine sociale, i “pesi” reciproci, le modalità di attuazione del programma consortile, il governo della proprietà industriale e intellettuale in caso di ricerca applicata.
4. Altri schemi organizzativi ricorrenti: joint venture, gruppi
Meritano un cenno altri codici organizzativi cooperazionali, quali la joint venture e i gruppi, per vero ormai recessivi o comunque circoscritti a realtà di più grandi dimensioni; la prima[17] è una forma organizzativa atipica che, notoriamente, viene rivestita da strutture societarie tradizionali (di solito la s.r.l.) ed è diffusa quale architettura di sviluppo di progetti industriali e commerciali congiunti. Essa è però solo un sintagma riassuntivo di un fenomeno economico più che giuridico, il quale trova concreta attuazione con il ricorso a strumenti classici (la già menzionata società, di solito partecipata paritariamente dalle imprese coinvolte ed affiancata da patti parasociali, oppure il contratto, l’ATI o il RTI, ecc.): la joint venture è – in altre parole – un modello imprenditoriale più che uno schema giuridico autonomo.
Il gruppo[18] si presenta invece come una aggregazione economica di imprese in forma societaria, prevalentemente gerarchica riconducibile ad un centro unico di potere, che può anche essere fondata su rapporti contrattuali (artt. 2359, comma 1, n. 3, e 2497-septies cod. civ.); la scelta di ricorrere allo schema del gruppo è di solito propedeutica alla creazione di un sistema di governance “impositivo” dominato da un soggetto (capogruppo o capofila anche in questo caso) che si pone in posizione verticistica con funzione di direzione unitaria, coordinamento e uniformazione dell’attività imprenditoriale svolta operativamente ai diversi livelli della “catena”. Il rapporto fra le diverse componenti del gruppo non è equiordinato come nella rete o nei consorzi, ma di dominazione, quasi potremmo dire di “asservimento” ad un interesse che è comune a tutte nella misura in cui è, in realtà, quello della controllante capogruppo e, in ultima istanza, dei suoi soci di controllo.
5. L’ultima frontiera: il contratto di rete
Se però si vuole davvero cercare uno strumento flessibile, la scelta migliore è il contratto di rete, la cui forza risiede proprio nella sua estrema elasticità ordinamentale, espressa da un nucleo di disposizioni inderogabili che lasciando all’operatore massima libertà di scelta non solo della tipologia negoziale (come vedremo sono tre le forme di contratto di rete) ma anche, all’interno di ciascuna di esse, nella disciplina specifica dei singoli aspetti organizzativi: solo a titolo di esempio, si potrà scegliere se creare una rete con o senza soggettività autonoma; se garantire ai contraenti la responsabilità limitata per le obbligazioni assunte in esecuzione del programma di rete; se dotarsi di un fondo comune e, in caso positivo, se costituirlo ricorrendo a patrimoni destinati o altre utilità; se prevedere un organo di gestione e, in caso positivo, come esso debba essere formato; se stabilire regole di ingresso per nuovi aderenti; se avere un’assemblea dei contraenti, come computare i voti e su quali materie chiamarla ad esprimersi; se riconoscere cause di recesso o di esclusione, ecc. A ciò va aggiunto che è consuetudine la redazione di regolamento di funzionamento del contratto di rete, volto a disciplinare in modo più operativo i rapporti fra i partecipanti al contratto. Tutto ciò mi induce ad avvertire i lettori che adottare modelli di contratto di rete preformati o costruiti con il “copia incolla”, e non “cuciti sartorialmente” alla luce delle specifiche esigenze del cliente emerse anche dopo lunghe sessioni di confronto e di work in progress, rappresenta il peggior modo di servirsi del contratto di rete.
Da una diversa prospettiva, il contratto di rete si presta ad essere utile anche in alcuni settori speciali come quello degli appalti pubblici: l’art. 65, comma 2, lettera g, d.lgs. 36/2023 espressamente include fra gli operatori economici ammissibili a partecipare alle procedure “le aggregazioni tra le imprese aderenti al contratto di rete”. Peraltro con la non trascurabile prerogativa che il contratto di rete è per sua natura una struttura a geometria variabile e dunque – come per i consorzi – può presentarsi e concorrere nelle procedure di appalto anche in composizione parziale rispetto alla totalità dei suoi membri[19].
Inoltre, sempre sul medesimo terreno, si deve segnalare l’innovativa previsione della possibilità di costituire reti fra professionisti e di partecipazione di professionisti individuali a contratti di rete con imprese (cd. contratti misti) per la partecipazione agli appalti pubblici per la prestazione di servizi o ai bandi per l’assegnazione di incarichi personali di consulenza o ricerca, prevista dall’art. 12 della L. 81/2017.
Ancora, il contratto di rete si presta ad essere utilizzato in ambito agricolo dove beneficia di regimi di favore, come quello di cui all’art. 1-bis della L. 114/2016 (semplificazione nella distribuzione dei prodotti), all’art. 31 commi 3-bis e 3-ter del d.l.gs. 276/2003 (assunzione congiunta di dipendenti) e all’art. 36 del d.l. 179/2012 (conv. L. 221/2012) commi 2-ter (possibilità di istituire un fondo comune mutualistico) e 5 (possibilità di sottoscrizione anche con l’assistenza di una o più organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale, che hanno partecipato alla redazione finale dell’accordo); di recente, poi, al contratto di rete agricolo è stato equiparato il nuovo «accordo di foresta», strumento «per lo sviluppo di reti di imprese nel settore forestale, al fine di valorizzare le superfici pubbliche e private a vocazione agro-silvo-pastorale nonché per la conservazione e per l’erogazione dei servizi ecosistemici forniti dai boschi» (art. 3, commi 4-quinquies.1-4-quinquies.4).
Infine, nel settore del turismo, anche per supportare i processi di riorganizzazione della filiera turistica, migliorare la specializzazione e la qualificazione del comparto, incoraggiare gli investimenti per accrescere la capacità competitiva e innovativa dell’imprenditoria turistica nazionale, in particolare sui mercati esteri [art. 10 comma 6, lett. c, l. 106/2014).
Sul terreno giuslavoristico, invece, si segnala la previsione della possibilità di ricorso al meccanismo della codatorialità in virtù dell’art. 30 comma 4-ter del d.l.gs. 276/2003 che prevede inoltre, in materia di distacco, che “l’interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete, fatte salve le norme in materia di mobilità dei lavoratori previste dall’articolo 2103 del codice civile”.
Vi è poi un innegabile vantaggio “di immagine”, rappresentato dalla possibilità per le imprese in rete di presentarsi come realtà aggregata unitaria pur mantenendo ampi spazi di autonomia individuale: fattore spesso decisivo nei contesti di procedure di selezione concorrenziali dove la dimensione organizzativa e l’efficienza e flessibilità di attività costituiscono un fattore vincente.
Da ultimo, durante il periodo più afflittivo della pandemia, era stata data la possibilità di dotare il contratto di rete di una causa solidaristica (art 3, commi 4-sexies 4-septies, 4-octies d.l. 5/2009[20]) rendendo questo strumento il primo in assoluto espressamente finalizzato alla lotta contro la crisi economica che sta flagellando il Paese; purtroppo, tale previsione è rimasta limitata ai soli anni 2020 e 2021 ed è dunque ormai decaduta.
6. Autonomia privata e governance della rete
Guardando al regolamento organizzativo, il principale punto di forza è l’ampio spazio lasciato all’autonomia privata, che può modellare con estrema libertà i tratti somatici del contratto di rete per adeguarlo alle reali esigenze delle imprese partecipanti; naturalmente, a condizione che queste e i professionisti che le assistano sappiano “governare” adeguatamente la libertà loro lasciata, costruendo a passo a passo il contenuto del contratto senza ricorrere a modelli prêt-à-porter o a clausole “riciclate” da altri: è uno sforzo considerevole – me ne rendo conto – a cui ormai l’informatizzazione (con l’abusato “copia incolla”) e la standardizzazione del lavoro ci ha disabituati, ma che è essenziale per sfruttare appieno le potenzialità del contratto di rete.
Se dovessimo oggi descrivere il contratto di rete in una parola, potremmo forse dire che siamo di fronte ad uno schema à la carte, che consente cioè di scegliere un modello minimale contraddistinto da un nucleo base di regole essenziali oppure di “costruire”, con l’aggiunta di elementi opzionali, una struttura più o meno articolata e complessa a seconda delle esigenze concrete, fino a poter sagomare un modello anche molto prossimo alla forma consortile personificata. Non tutte le “voci” del menù hanno però lo stesso impatto sul prodotto finale: alcune alternative non si limitano solo ad arricchire lo schema base ma, a ben vedere, lo “trasformano” in qualcosa di differente. Mi sembra, in altre parole, che l’unicità del “tipo” lasci spazio, anche in questo caso, alla flessibilità dei “modelli” per offrire agli operatori uno strumento elastico e versatile, idoneo ad essere plasmato a seconda delle esigenze, degli obiettivi, delle caratteristiche delle imprese che vogliano ricorrervi[21].
Mi rendo ovviamente conto che elaborare classificazioni non sia mai semplice, e lo sia meno ancora quando il legislatore, pur animato dal lodevole intento di favorire l’autonomia privata, sembri non dare punti di riferimento precisi; e capisco anche che il fenomeno multiforme della cooperazione fra imprese non si presta, per sua natura, ad essere agevolmente incasellato in categorie rigide: spezzare il continuum della realtà economica potrebbe in effetti rivelarsi operazione per più versi arbitraria.
7. I tre modelli di rete
A me sembra che si possa dire che nel d.l. 5/2009 si rinvengono tre modelli strutturalmente differenti di contratto di rete, frutto di alternative che il legislatore concede e che non si limitano a modificare il modello legale concedendo maggiore spazio all’autonomia privata, bensì rendono possibile uno schema contrattuale “diverso” ed ulteriore. Un primo modello di carattere generale, che possiamo identificare convenzionalmente come il contratto di rete “puro”[22] e definire – quantomeno in prima battuta – per esclusione rispetto agli altri due, che presuppongono invece la presenza di requisiti ulteriori frutto di una specifica opzione dell’autonomia contrattuale: nell’un caso la creazione di un fondo patrimoniale e l’iscrizione della rete nel Registro delle imprese, e si potrà allora parlare di rete-soggetto, cioè elevata a ente distinto dalle imprese partecipanti al contratto; nell’altro caso la creazione del fondo e la nomina di un organo comune destinato a svolgere un’attività, anche commerciale, rivolta ai terzi, ed allora avremo la rete a responsabilità limitata (con o senza soggettività, si badi) che garantisce cioè ai retisti il beneficio della limitazione del rischio al conferimento, secondo un meccanismo che combina le regole dei consorzi ad attività esterna, opportunamente adattate, ai principi della segregazione di risorse economiche sperimentate con i patrimoni destinati.
Giova ribadirlo: questa ora descritta è una tassonomia proposta sulla base di un personale apprezzamento del dato normativo e non una scelta del legislatore. Il che dunque rende parimenti degne di cittadinanza e meritevoli di considerazione le altre e diverse tassonomie nelle quali imprese e operatori potrebbero imbattersi in documenti ufficiali, provvedimenti giudiziari o studi dottrinali e linee guida. Tuttavia, mi sento di mantenere questa impostazione ritenendo che meglio di altre colga le specialità del contratto di rete.
Quale che sia il modello, riveste un ruolo essenziale il soggetto capofila (e così ci colleghiamo al secondo dei tre schemi sociali oggi in esame) che nella rete assume la qualifica di “organo comune per l’esecuzione del contratto o di una o più parti o fasi di esso”.
Pure per questo istituto non si deve cadere in banalizzazioni ritenendo che sia un modo differente per descrivere il classico “organo amministrativo” di un ente collettivo. Senza dubbio, specie quando la rete sia anche un soggetto, il contratto potrà disciplinare l’organo comune in modo anche molto omogeneo con l’organo amministrativo di una società; ma ciò non toglie che l’autonomia privata sia libera di spaziare per realizzare, anche in questo caso in modo “sartoriale” una disciplina attagliata alle reali esigenze dei partecipanti disciplinando “i poteri di gestione e di rappresentanza conferiti a tale soggetto”. Di ciò vi è immediata evidenza notando che la norma richiede di indicare “il nome, la ditta, la ragione o la denominazione sociale del soggetto prescelto per svolgere l’ufficio di organo comune”, dal che si evince che questi potrà anche non essere una persona fisica, limite che ancora si fatica a superare nelle società.
Soggiungo che – a seconda della conformazione della rete, cioè se soggetto o contratto – l’organo comune assumerà in modo differente il potere di rappresentanza che il comma 4-ter lett. e), gli affida di default. Nel primo caso, infatti, “l’organo comune agisce in rappresentanza della rete”, secondo il tipico modello della rappresentanza organica, mentre nel secondo “agisce in rappresentanza degli imprenditori, anche individuali, partecipanti al contratto salvo che sia diversamente disposto nello stesso”, assumendo quindi il ruolo di mandatario collettivo non dissimile a quanto avviene in ATI e RTI[23].
8. Guardando al domani: la “società collaborativa”
Concludiamo questo breve viaggio nel mondo dell’economia cooperazionale soffermandoci su questo nuovo modello denominato “società collaborativa”, attualmente in gestazione in Parlamento, preludio di una possibile traiettoria evolutiva del diritto d’impresa del prossimo futuro.
Innanzitutto vediamone i connotati giuridici: non siamo al cospetto di un nuovo tipo sociale, bensì di una qualifica che si vorrebbe attribuire a società costituite in forma di s.r.l. che sposino una filosofia “cooperazionale”, e precisamente di «dare pari valore e dignità a tutte le componenti umane, di saperi, conoscenze e capitali che contribuiscono alla vita dell’impresa». Si percorre la strada, anche in questo caso, già seguita di recente per start up innovative, PMI innovative e non, società benefit, e prima ancora dalla disciplina dell’impresa artigiana, quella cioè di “etichettare” le imprese che adottino un certo codice organizzativo così che possa subito essere percepito dai terzi di essere al cospetto di una società che si differenza dal tipo “standard” di s.r.l.
Al momento in cui scriviamo, la società collaborativa (o, in sigla, SC, anche se c’è un certo rischio di confusione con le società cooperative) è una proposta parlamentare che è stata avanzata sia nel corso dei lavori sul DDL capitali (A.S. 674) in forma di emendamento tendente ad introdurre un nuovo art. 16 bis (emendamento n. 16.0.3, dichiarato inammissibile), sia in un autonomo DDL composto da sei articoli e presentato alla Camera dei Deputati (A.C. 1493), la cui trattazione non è ancora stata calendarizzata in Commissione.
Ciò nondimeno, bisogna subito dire che non vi sono preclusioni all’adozione di questa qualifica fin da ora, sia pure in via non formale (quindi senza poter aggiungere la sigla SC), da parte di s.r.l. esistenti poiché le caratteristiche del modello appaiono consistere in opzioni (statutarie e non) tutte già liberamente selezionabili, a legislazione vigente, dall’autonomia privata. Anzi: da una rapida ricerca sul web si scopre non solo che già vi sono società che hanno abbracciato questa filosofia ma anche che è stata costituita a Modena una Associazione delle Società e delle Organizzazioni Collaborative denominata “Associazione Collaboriamo” (https://collaboriamo.eu/) che ha elaborato sia un “Manifesto collaborativo” sia un “modello di organizzazione collaborativa” (cd. Modello OC) che si propone come una sorta di codice di autodisciplina per tutti gli enti (non solo società) che desiderino perseguire obiettivi di tipo cooperazionale.
Il progetto della società collaborativa è senz’altro apprezzabile e va accolto con favore: timida era però la proposta normativa elaborata dai firmatari dell’emendamento, che possiamo anche trascurare, essendo stato dichiarato inammissibile, mentre il DDL A.C. 1493 ha un contenuto più strutturato, sebbene appaia meritevole di qualche intervento correttivo.
9. Definizione e finalità della società collaborativa
Come già anticipato, gli obiettivi della società collaborativa sono espressi in termini di «dare pari valore e dignità a tutte le componenti umane, di saperi, conoscenze e capitali che contribuiscono alla vita dell’impresa» (art. 1, comma 3), formulazione che tuttavia coglie forse sono in parte la ratio complessiva della proposta, considerato infatti che vi è poi una espressa apertura anche alla tutela delle future generazioni e dell’ambiente (art. 1, commi 2 e 6; art. 2; allegato A) cioè a soggetti e interessi che stricto sensu non contribuiscono alla vita dell’impresa ma al contrario possono essere da questa incise, anche in misura potenzialmente pregiudizievole.
Duplice è, in effetti, la finalità sottesa alla proposta, come bene emerge dalla relazione illustrativa che quanto mai qui rappresenta una vera e propria bussola per orientarci alla piena comprensione della proposta: «offrire una “terza via” rispetto all’attuale “biforcazione” tra la costituzione di “società di capitali”, in cui è preponderante l’apporto di capitale da parte dei soci, e le “società cooperative”, in cui a pesare maggiormente è il contributo lavorativo operativo dei soci. […] La suddetta auspicata “terza via” viene ottenuta con l’inserimento, nello Statuto di una S.r.l., di apposite clausole che impongano il principio del “voto capitario”, in deroga alla quota di partecipazione al capitale, in relazione all’Amministrazione della Società […]. Ma poiché la sostenibilità è un concetto che per sua stessa definizione deve traguardare la singola generazione, viene previsto, sempre da Statuto, anche dell’inserimento, nel CdA o nell’Assemblea dei soci, di una nuova ed innovativa, persino rivoluzionaria figura, il cosiddetto “rappresentante delle future generazioni” […] il cui compito è “semplicemente” ed unicamente quello di salvaguardare i diritti delle future generazioni, aspetto tutt’altro che trascurabile; al contrario è sempre più evidente come il fenomeno dei “cambiamenti climatici”, che andrebbero più opportunamente definiti “sconvolgimenti climatici”, essendo causato dalle attività antropiche, chiami a vagliare tutte le nostre decisioni future proprio in base al criterio della sostenibilità ambientale, che per definizione è intergenerazionale».
Da un punto di osservazione più generale, dunque, la proposta si colloca a pieno titolo nel solco del dibattito in corso sull’introduzione anche nel nostro ordinamento di regole volte a perseguire obiettivi ESG, e precisamente, da un lato, mediante regole di Governance inclusive e, dall’altro lato, declinando l’attività di impresa con attenzione al fattore Social. Equilibrata e condivisibile appare inoltre la strada prescelta, che consiste nel permettere alle società (sia pure solo le s.r.l.) di adottare spontaneamente questo assetto valoriale, rendendone il perseguimento però poi obbligatorio per l’organo amministrativo (art. 4, comma 1), responsabile altrimenti per il pregiudizio che abbia cagionato secondo le ordinarie regole della responsabilità sociale (art. 4, commi 3 e 4).
Più precisamente, lo “schema giuridico” adottato replica quello che caratterizza la società benefit (di cui in effetti la società collaborativa appare quasi una declinazione concreta): l’obiettivo cooperazionale deve essere integrato nell’oggetto sociale e il suo perseguimento esige da parte degli amministratori un contemperamento fra lo scopo sociale tipico lucrativo e l’interesse degli stakeholders e delle future generazioni (art. 4, comma 1).
10. Profili di disciplina
Venendo alla disciplina, come si è anticipato l’opzione per la società collaborativa si compendia – nella proposta normativa presentata alla Camera – in due diversi obblighi. Il primo consiste nella attribuzione ad ogni socio di un solo voto, a prescindere dalla misura della partecipazione, nelle decisioni relative alla amministrazione (art. 1, comma 3, e art. 3, comma 1) diverse da quelle relative «a temi della disponibilità del capitale detenuto dai singoli soci». Ne riesce confermato che cifra identitaria del modello è la volontà di superamento della logica proprietaria tradizionale basata sul principio plutocratico delle società lucrative a favore della creazione di un ambiente “democratico” di dialogo, confronto e partecipazione alle decisioni societarie e d’impresa, sulla falsariga, a ben considerare, del tipo mutualistico. Non a caso, infatti, si parla anche di società collaborative come «imprese (di capitali) ibride che si rifanno pienamente alla normativa delle Srl e introducono il voto capitario, come le Cooperative».
Nihil sub sole novi, verrebbe però da dire a questo punto. Come d’altronde riconosce anche la relazione illustrativa, è una facoltà – quella di prevedere il voto capitario – alla quale già oggi le s.r.l. possono ricorrere secondo la prassi più autorevole, essendo per legge consentita l’attribuzione ai soci di voti in misura non proporzionale alla partecipazione[24].
Infine, si sarebbe dovuta coordinare (e probabilmente integrare) questa disposizione con quella – altrimenti da sola incomprensibile – della definizione delle società collaborative come «società che operano nel rispetto della normativa vigente prevista per le società a responsabilità limitata di cui al Libro Quinto, Titolo V, Capo VII, del Codice Civile»: per come è scritta quest’ultima, infatti, equivale a dire che tutte le s.r.l. sono società collaborative, cosa che ovviamente non può essere.
11. Qualche consiglio per il legislatore
Non molto più vi è da dire su questo modello di società ancora in gestazione, se non forse tentare di offrire qualche suggerimento che potrebbe risultare utile tanto de jure condendo quanto per chi volesse fin da ora costruire una società di capitali orientata alla filosofia cooperazionale.
Innanzitutto, è opportuno che siano definiti forme e termini dell’approccio collaborativo che si intende adottare. Le possibili alternative sono molte: la stessa proposta normativa più sopra esaminata sembrava lasciare aperta la porta al coinvolgimento di «tutte le componenti umane di saperi, conoscenze e capitali che contribuiscono alla vita dell’impresa», sì che può spaziarsi dal coinvolgimento dei soli soci a quello dei dipendenti, fino anche in senso lato ad un approccio sensibile alle esigenze della collettività locale e del territorio (così di fatto ponendosi a cavallo fra il fattore Governance e il fattore Social della formula ESG). È senz’altro utile che lo statuto dia conto di questa scelta, che in tal modo può assumere valore di impegno formale da parte della società e dei suoi amministratori e soci. Un’altra strada, che rende ancora più pregnante la volontà cooperazionale può essere di optare – almeno fintantoché non assuma autonoma rilevanza la società collaborativa – per la qualifica di società benefit, indicando gli obiettivi prescelti quale «finalità di beneficio comune» ai sensi dell’art. 12, comma 376, l. 28 dicembre 2015, n. 208.
Un secondo campo problematico è la scelta degli strumenti di attuazione della scelta collaborativa effettuata. Prevedere il voto capitario dei soci (come proposto nel DDL) può essere una buona soluzione, ma non è detto che sia sufficiente: nelle società di capitali (ed anche nelle s.r.l., sia pure come regola di default) quasi tutte le decisioni di impresa sono in capo all’organo amministrativo, nel quale non sempre siedono tutti i soci (e dove comunque la regola è sempre “una testa-un voto”). Per rendere efficace ed effettivo il coinvolgimento di tutti i soci è necessario che lo statuto attribuisca all’assemblea un certo numero di competenze gestorie, come quelle di alta gestione o strategiche, in aggiunta a quelle relative alle modifiche di fatto dell’oggetto sociale o dei diritti dei soci che già sono inderogabilmente ad essa affidate dall’art. 2479 cod. civ. Lo svantaggio di questa impostazione è che tutti i soci assumono responsabilità per i danni da mala gestio, cosa che non è sempre desiderabile.
Si potrebbe inoltre lavorare anche in ulteriori direzioni: prevedere ad esempio che ai soci di minoranza spetti – quale diritto particolare ex art. 2468 cod. civ. – la facoltà di designazione di uno o più componenti dell’organo di amministrazione, assicurandosi così una adeguata rappresentanza anche nella sede deputata alle decisioni imprenditoriali. Inoltre, poiché non è detto che il sistema s.r.l. abbia gli anticorpi normativi per reagire di fronte alla presenza di regole così lontane dal principio lucrativo, è bene prevedere regole che disinneschino potenziali conflitti o situazioni di stallo: clausole statutarie di esclusione di soci ma anche clausole di riscatto delle quote o di prelazione e/o di gradimento elaborate ad hoc.
Se poi si fosse deciso di valorizzare anche le persone dei dipendenti, sarebbe necessario adottare opportune soluzioni volte al loro coinvolgimento, come ad esempio prevedere la nomina di un loro “rappresentante” che assuma compiti di monitoraggio sull’operato degli amministratori e abbia un ruolo consultivo, purtroppo però senza che ad esso possano essere, secondo la vigente normativa, attribuiti poteri di incidere attivamente sulla gestione.
In tutti i casi, infine, è raccomandabile che venga adottato un regolamento interno nel quale disciplinare gli aspetti operativi e soprattutto le forme e modalità di verifica e rendicontazione delle attività svolte nel perseguimento degli obiettivi prescelti, magari prendendo spunto dall’ormai ampia e qualificata elaborazione dottrinale e pratica sulle dichiarazioni non finanziarie.
[1] M. Cecchetti, Le limitazioni alla libertà di iniziativa economia durante l’emergenza, in Rivista AIC, 2020, 59 ss.
[2] Fra i primi commenti, R. Villata e M. Ramajoli (a cura di), Commentario al codice dei contratti pubblici. D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36, Pisa, 2023, 29 ss.; U. Realfonzo e R. Berloco (a cura di), Commentario al nuovo codice dei contratti pubblici. Tomo I. I principi e le procedure di affidamento, Palermo, 2023, 39 ss.
[3] Sul punto, sia consentito rinviare a S.A. Cerrato, Appunti per una «via italiana» all’ESG. L’impresa «costituzionalmente solidale» (anche alla luce dei «nuovi» artt. 9 e 41, comma 3, Cost.), in AGE, 2022, 63 ss.; F. Capriglione, Responsabilità sociale d’impresa e sviluppo sostenibile, in Riv. trim. dir. econ., 2022, 1 ss.; G. Capo, Libertà d’iniziativa economica, responsabilità sociale e sostenibilità dell’impresa: appunti a margine della riforma dell’art. 41 della Costituzione, in Giust. civ., 2023, 81 ss.; da ultimo, P. Montalenti (a cura di), Impresa e sostenibilità, in Giur. it., 2024, 1190 ss.
[4] Diffusamente F. Casale, La «proprietà» nelle imprese collaborative. Prime considerazioni, in Rivista ODC, 2018, 105 ss., il quale nota che «il principale fattore scatenante è stato l’innovazione tecnologica, che ha determinato l’affermazione di nuove modalità di produzione, soprattutto in ragione dell’accresciuta facilità di acquisire e scambiare informazioni e della maggiore possibilità di coordinare le risorse disperse, abbattendo i costi transattivi di queste cruciali attività».
[5] F. Casale, op. cit., 106.
[6] Sul tema si vedano C. Bertazzoni, L’associazione temporanea di imprese, in Società e Contratti, Bilancio e Revisione, 2019, fasc. 1, 33 ss., e Id., La redazione del regolamento interno di un raggruppamento temporaneo di imprese, ivi, fasc. 2, 39 ss.
[7] Come è stato osservato, in verità, il legislatore del 1976 si era limitato a prendere atto di una tendenza che aveva già socialmente mutato l’essenza dei consorzi di matrice corporativa rendendoli appunto un mezzo di collaborazione inter-imprenditoriale: A. Frignani, Concorrenza e consorzi, in Giur. comm., 1976, I, 543; sui consorzi originari, G. Auletta, voce Consorzi commerciali, in Nuovo Dig. It., 1938, 957.
[8] Da ultimo, A. Bartolacelli, Il GEIE “italiano” tra impresa e società̀, Napoli, 2016.
[9] S. Tommaso, Distretti e reti di imprese: evoluzione organizzativa, finanza innovativa, valutazione mediante rating, Milano, 2009.
[10] In tema, alla luce anche del nuovo Codice etico e di indipendenza dei revisori legali, approvato con determina del ragioniere generale dello Stato 23 marzo 2024, n. 127, N. Cavalluzzo, L’indipendenza del revisore estesa alla società e alla rete, in https://ntplusfisco.ilsole24ore.com/art/l-indipendenza-revisore-estesa-societa-e-rete-AEiV8krD?refresh_ce=1/.
[11] F. Russo, sub artt. 65 s., commento, in F. Russo (a cura di), Commentario al Codice dei Contratti Pubblici 2023, Roma, 2023, 213 ss.
[12] Subfornitura e franchising sono oggetto di ampi e qualificati studi: si vedano, per tutti, F. Bortolotti (a cura di), Contratti di distribuzione, Milano, 2022, 675 ss.; L. Cesaroni, Il contratto di franchising, in A. Di Amato (a cura di), I contratti di intermediazione: mandato, mediazione, agenzia, commissione, concessione di vendita, franchising, contratto estimatorio, procacciamento d’affari, mediazione finanziaria, data broker, Pisa, 2022, 331 ss.; N. Callipari, Il contratto di franchising, Milano, 2016; R. Baldi, A. Venezia, Il contratto di agenzia. La concessione di vendita. Il franchising, 8a ed., Milano, 2008; F. Bortolotti, Manuale di diritto della distribuzione. Vol. 2. Concessione di vendita, franchising e altri contratti di distribuzione, normativa antitrust, contratti internazionali di distribuzione, Padova, 2007; P.P. Ferraro, La subfornitura, in V. Buonocore (fondato da), R. Costi (diretto da), Trattato di diritto commerciale, Sezione II, Tomo 6, Torino, 2022; A. Musso, Libro Quarto. Delle obbligazioni. Titolo III. Dei singoli contratti. Supplemento. Legge 18 giugno 1998, n. 192. La subfornitura, in F. Galgano (a cura di), Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2003.
[13] Non si può fare a meno di notare con mestizia il sempre scadente livello di cura nella normazione, reso qui evidente dal fatto che ad un istituto nuovo, complesso e articolato come il contratto di rete non sia dedicato neppure un proprio articolo di legge bensì pochi commi, di numerazione complessa (4-ter, 4-ter.1, 4-ter.2, 4-quater, 4-quinquies) di un articolo che si occupa anche di distretti produttivi. E non solo: per una probabile svista del redattore della norma o del compositore in Gazzetta Ufficiale è stato omesso un evidente “a capo” nel comma 4 ter, rendendo apparentemente parte del n. 3 dell’elenco del quarto periodo anche tutto il resto del comma (da “Ai fini degli adempimenti” fino al fondo), che è invece una proposizione autonoma. Infine, nell’arco di soli tre anni la norma è stata oggetto di così tanti interventi che neppure vi è concordia su quanti siano: stando al dato ufficiale del sito www.normattiva.it, sette interventi. Altri studiosi (in particolare Carlo Ibba, in un convegno tenutosi a Courmayeur il 18 settembre 2015) ne intravedono otto. È veramente assurdo che ci si debba anche mettere d’accordo su quante modifiche un istituto abbia subito! E comunque, ad oggi son sicuramente ancora aumentate.
[14] Si vedano, fin da ora, S.A. Cerrato, Il contratto di rete nel quadro degli strumenti giuridici di cooperazione tra imprese, in Società e contratti, bilancio e revisione, n. 07/08-2020, 2 ss.; Id., I diversi modelli di contratto di rete per le imprese: dalla rete-contratto al soggetto giuridico. Autonomia privata e ruolo del professionista, ivi, n. 09-2020, 28 ss.; S.A. Cerrato, R.M. Morone, Criticità e consigli nella redazione dei contratti: il contratto di rete, ivi, n. 10-2020, 28 ss.; G. Spoto, I contratti di rete tra imprese, Torino, 2017; V. Cuffaro (a cura di), Il contratto di rete di imprese, Milano, 2016; S.A. Cerrato, Il contratto di rete, in P. Montalenti (a cura di), I modelli di impresa societaria fra tradizione e innovazione nel contesto europeo, Milano, 2016, 111 ss.; Id., Appunti sul contratto di rete: un modello «à la carte» dal contratto all’istituzione… e ritorno, in Riv. dir. imp., 2016, 491 ss. In precedenza, anteriormente alle modifiche che hanno tratteggiato l’attuale fisionomia del contratto di rete, F. Cafaggi, P. Iamiceli, G.D. Mosco (a cura di), Il contratto di rete per la crescita delle imprese, Milano, 2012; P. Zanelli, Reti e contratto di rete, Padova, 2012.
[15] Nella ampia bibliografia, ci si limita a richiamare G.D. Mosco, Dei consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi. Art. 2602-2620, in G. De Nova (a cura di), Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, Bologna, 2017; M. Sarale, Consorzi e società consortili, in G. Cottino (diretto da), Trattato di diritto commerciale, Padova, 2004, 420 ss.; G. Fauceglia (a cura di), Impresa e società. Impresa. Società di persone. Società di capitali. Cooperative. Azienda. Consorzi e concorrenza. Disciplina penale, Napoli, 2018, 100 ss.; E. Cusa, La società consortile, Torino, 2021.
[16] È naturalmente voluto il riferimento allo scritto di O. Cagnasso, La s.r.l.: un tipo societario ‘senza qualità’?, in Nuovo dir. soc., 2013, n. 5, 7.
[17] Fra i vari contributi, sempre attuali sono G. Di Rosa, L’associazione temporanea di imprese: il contratto di joint venture, Milano, 1998; A. Astolfi, Il contratto di joint venture: la disciplina giuridica dei raggruppamenti temporanei di imprese, Milano, 1981, cui adde A. Fedi, “Joint ventures” contrattuali e societarie, in Riv. dir. imp., 2012, 407. Su profili specifici, segnalo E. Climene Renoldi, A. Renoldi, Accordi di “joint venture”. Un modello di convenienza economico-comparata in differenti ipotesi di “partnership”, in Dir. ind., 2018, 567 ss.
[18] Nella sconfinata bibliografia, rimando solo ai più recenti lavori di I. Maspes, Limiti all’autonomia negoziale nei gruppi di società: contratti costitutivi, regolamenti e contratti infragruppo, Milano, 2019; F. Galgano, N. Zorzi Galgano, Le società in genere, le società di persone, le società di capitali, i gruppi di società, il fallimento e le altre procedure concorsuali, in F. Galgano, Trattato di diritto civile, Vol. 4, 3a ed., Assago-Padova, 2015; F. Galgano, I gruppi di società, in F. Galgano (diretto da), Le società. Trattato, Vol. 1, Torino, 2001.
[19] Ciò per effetto del combinato disposto dei co. 14 e 7 dell’art. 48 del d.l.gs. 50/2016 che estendono ai contratti di rete le disposizioni relative ai consorzi ai quali è fatto obbligo di “indicare, in sede di offerta, per quali consorziati il consorzio concorre”. Sul tema si vedano però, più ampiamente, la determinazione AVCP 23 aprile 2013, n. 3, e il precedente Atto di Segnalazione 27 settembre 2012, n. 2, elaborati in vigenza del Codice degli appalti del 2006 ma applicabili anche oggi. Inoltre, in data 22 novembre 2018 ANAC ha emanato il documento intitolato “Bando-tipo n. 1. Schema di disciplinare di gara” che contempla anche espressamente i contratti di rete.
[20] Commi introdotti dall’art. 43-bis, comma 1, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla l. 17 luglio 2020, n. 77, poi modificati dall’art. 12, comma 1, d.l. 31 dicembre 2020, n. 183, convertito con modificazioni dalla l. 26 febbraio 2021, n. 21.
[21] Analogamente F. Guerrera, Il contratto di rete tra imprese: profili organizzativi, in Contratti, 2014, 397, che parla di «tipo polimorfo», e D. Caterino, Appunti critici in tema di “governance” nei contratti di rete, in Riv. dir. soc., 2014, I, 168, che identifica un «continuum tipologico».
[22] Questo primo modello coincide, sostanzialmente, con quello che viene definito “rete-contratto”. Mi pare però preferibile usare l’aggettivo “puro” poiché il sintagma rete-contratto potrebbe far equivocare sulla possibilità che assuma anche connotazioni corporative, tant’è che i fautori di questa definizione (si veda ad esempio T. Arrigo, Il contratto di rete. Profili giuridici, in Econ. dir. terziario, 2014, 11) distinguono poi una variante “contrattuale” e una variante “corporativa”.
[23][23] La parte di disposizione ora riportata nel testo si riferisce, a ben osservare, soltanto ad alcune specifiche situazioni (procedure di programmazione negoziata con le pubbliche amministrazioni, procedure inerenti ad interventi di garanzia per l’accesso al credito, procedure inerenti allo sviluppo del sistema imprenditoriale nei processi di internazionalizzazione e di innovazione previsti dall’ordinamento, procedure inerenti all’utilizzazione di strumenti di promozione e tutela dei prodotti e marchi di qualità o di cui sia adeguatamente garantita la genuinità della provenienza) ma non è dubbio che esprima una regola generalizzabile. Per un approfondimento della disciplina di tali modelli organizzativi si rinvia a C. Bertazzoni, L’associazione temporanea, cit., 33 ss.; Id., La redazione, cit., 39 ss.
[24] E si veda, inter alia, la Massima n. 138 del 2014 del Consiglio notarile di Milano.