Sommario*: 1. Premessa. I fenomeni di carattere finanziario e la crisi. – 2. Il sistema della finanza derivata: articolazioni e differenti piani di osservazione. – 3. Le parti. L’intermediario come Ufficio di diritto privato – 4. La fase dinamica (ancora sull’ufficio di diritto privato). – 5. Ruolo della causa e dell’oggetto e caratteri funzionali della finanza derivata. Conclusioni minime.
1. La finanza, intesa come fenomeno composto da operazioni aventi alle proprie estremità – ovvero al principio e all’esito – esclusivamente danaro, ordina (almeno) due grandi categorie corrispondenti a due ben distinte e tra loro concettualmente distanti modalità dell’iniziativa economica.
Certamente si può dire finanziario in primo luogo l’investimento classicamente capitalistico, realizzato attraverso il finanziamento di operazioni economiche consistenti nella produzione e/o nello scambio di beni e utilità. Il finanziamento della produzione o dello scambio danno vita al mercato c.d. della ricchezza assente. Le operazioni iniziano e terminano con il danaro, ma nel mezzo ci sono attività e beni. Non sempre, s’intenda, espressi dalla funzione propria del singolo finanziamento – che ben può consistere infatti nel mero scambio di danaro contro danaro; ma comunque presenti nel senso dell’operazione e nel rischio che di essa è proprio, il quale rischio costituisce ragione concreta di determinazione del corrispettivo. In altre e diverse parole, i termini dello scambio sono pur sempre misurabili secondo la logica marginalista fondante la stessa idea del contratto all’alba del diritto moderno; e secondo una logica marginalistica è apprezzabile cioè il rapporto tra capitale investito e capitale atteso quale risultato dell’investimento.
I fenomeni collocabili nella seconda categoria non sono, di principio, misurabili nell’ottica di una funzione articolata nel segno della medesima logica.
Talvolta ragione ne è il filtro costituito da una attività intermedia tra finanziamento e impiego, la quale attività – e si pensi ad esempio ai fondi comuni di investimento mobiliare – crea un nuovo prodotto, non direttamente correlato a una operazione economica percepibile all’esterno. V’è tuttavia comunque, in questi casi, un filo sia pure nascosto che lega funzionalmente l’investimento a forme sottostanti di finanziamento: esiste una via per quanto tortuosa che consente di discendere dal risultato dell’investimento all’esito di impieghi di danaro nell’economia c.d. reale.
Altre volte ragione ne è l’assenza di connessione strutturale con fenomeni di produzione o di circolazione di ricchezza. L’assenza assoluta dunque, diremmo, di correlazione del regolamento negoziale con beni o valori collocati nella realtà esterna. Il valore, si è detto perspicuamente, è il contratto; il contratto è oggetto di sé medesimo. È la finanza derivata. Additata quale causa della prima crisi – quella seguita allo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti – e poi anche come principale responsabile dei più gravi episodi di crisi di debito sovrano negli anni più recenti e, ancora, come fattore di trasformazione (ovvero, in chiave critica, di deformazione) del ruolo delle banche di gestione del rischio sistemico e, di seguito, di contagio dei bilanci dei medesimi enti creditizi.
Quest’ultima tipologia della finanziarietà si presta principalmente (rispetto alle altre, s’intende) a essere riguardata nella prospettiva delle categorie civilistiche; meglio, nella prospettiva specifica della consistenza e della resistenza delle categorie civilistiche a fronte della realtà della crisi economica. A guardare dall’alto, sia la proprietà che il contratto, che la responsabilità civile, i tre pilastri strutturali del sistema privatistico dei diritti ne sono toccati profondamente. Per ovvie ragioni – avendo l’attività finanziaria pur sempre a epicentro oggettivo beni originati e/o costituiti da rapporti negoziali – il centro della scena è qui, tuttavia, inequivocabilmente occupato dal contratto. In breve: i soggetti e la disciplina della capacità, la conclusione e i conflitti d’interessi, la causa e l’oggetto, i rimedi dei contratti della finanza derivata sfuggono per moltissimi versi all’inquadramento nelle linee delle corrispondenti categorie tradizionali. È perciò in primo luogo con riguardo al contratto che, messe a fuoco le peculiarità e le ragioni di irriducibilità agli usati concetti, occorre chiedersi cosa esse esprimano rispetto alle attitudini funzionali del principale strumento di esercizio dell’autonomia privata e, di conseguenza, rispetto agli stessi contenuti di quest’ultima nel sistema fondato sull’ordine pubblico costituzionale e comunitario.
2. Cominciamo, con l’intento di coprire soltanto una minima porzione di un territorio smisurato qual è quello testé evocato.
Il fenomeno della finanza derivata è irriducibile a unità. Sono mutevoli molte delle premesse fattuali, le quali presiedono a svolgimenti e conclusioni. Sono numerose altresì le prospettive – tra loro differenti – nelle quali è possibile osservare le premesse fattuali e argomentare svolgimenti e conclusioni. Capita perciò che, a guardare da vicino il dibattito in corso e i contrasti tra le posizioni che lo animano, nonché le critiche talvolta feroci mosse da alcune parti della dottrina nei confronti della più recente giurisprudenza, capita, si diceva, che si abbia la sensazione di sentir parlare lingue diverse ovvero di sentire bensì la medesima lingua parlare però di cose diverse.
Sono certamente necessarie numerose distinzioni. Prima è la seguente. Il discorso sulla finanza derivata assume diversa fisionomia a seconda che sia collocato: a) sul piano amplissimo della fisionomia e dei modi di sviluppo dei sistemi economici; b) sul piano della disciplina di sistema dei mercati finanziari; c) sul piano dei rapporti contrattuali, nell’ottica delle specifiche fattispecie e degli interessi correlativamente perseguiti dalle parti stipulanti.
Il primo è al contempo premessa e conseguenza degli altri due. La finanza derivata è fenomeno che, in diversi modi, altera il rischio sistemico complessivo, alterando il rapporto tra il rischio esistente e le attività (produtive) che ordinariamente lo generano ovvero generandone di nuovo anche senza correlazione con tali attività. A questa stregua, a essa possono essere attribuiti ruoli antitetici: strumento essenziale per la crescita dell’economia globale secondo un’idea benthamiana del rapporto tra capitale, rischio e crescita (senza la finanza derivata, si dice, non sarebbe esistita silicon valley); strumento utile per il controllo del rischio sistemico, ma anche pericoloso se utilizzato per finalità meramente speculative; strumento di distruzione di massa, metafora della crisi irreversibile del capitalismo contemporaneo, espressione della insostenibilità dei ritmi produttivi e di consumo da questo imposti. È la parte più interessante del discorso. Non è tuttavia quellache maggiormente ha appassionato i giuristi. Su di essa torneremo brevemente più avanti, soltanto in conclusione.
Il secondo piano, quello della disciplina di sistema, richiede a sua volta anzitutto un caveat o, almeno, una precisazione: la contrattazione derivata assume diversi connotati e impone perciò percorsi argomentativi differenti a seconda che si parli di strumenti collocati su mercati regolamentati o invece di negoziazioni c.dd. over the counter. Vi è innanzitutto una diversità strutturale ovvia. Affinché uno strumento in quanto tale sia negoziabile in mercati ove per definizione sono negoziabili titoli incorporanti diritti astratti, rappresentativi di operazioni frazionate, è necessario che l’operazione (qui è l’ovvio) sia astraibile dal suo fondamento funzionale e che sia frazionabile. A queste necessità rispondono quelli tra i derivati il cui legame con l’indice di calcolo dei flussi finanziari è per definizione (e per necessità) estraneo al rapporto istaurato tra venditore e acquirente del prodotto. La frazionabilità, assai più della standardizzazione, è la caratteristica strutturale con corrispondenze significative in chiave funzionale.
Comune è, ad esempio, l’osservazione di ciò, che i modelli contrattuali uniformi dettati principalmente dall’ISDA sono talmente analitici da rendere quasi perfetta la standardizzazione delle clausole dei contratti derivati OTC. Tuttavia, pur se uniformemente confezionati, e per ciò stesso dotati di un alto grado di standardizzazione, questi contratti non possono essere (quasi mai) frazionati. La loro uniformità riesce a essere esclusivamente formale, pur nell’identità delle clausole, poiché diversi sono i rapporti sottostanti nel collegamento con i quali è soltanto possibile cogliere la funzione della relativa operazione economica; mutevole è altresì la ratio del collegamento tra derivato e sottostante. Non sono perciò uniformi né il valore dei contratti né gli interessi a mezzo di essi perseguiti. Frazionabili, almeno in astratto, sono soltanto i contrattiprivi di collegamento interno con un sottostante: le pure scommesse che, in quanto tali (e se e quando valide), hanno presupposti oggettivabili in una pluralità di posizioni autonome, tra loro identiche. Ma è un’ipotesi soltanto di scuola: contratti di questo genere (che, quanto a schema astratto, finirebbero per somigliare ai futures), se confezionati per essere frazionati non sono poi per loro natura negoziati over the counter. Altra cosa, sia detto per inciso, è che poi anche posizioni contrattuali negoziate OTC si prestino a circolare in operazioni di finanza strutturata, queste sì frazionate: è altra cosa, certamente espressiva di specifici problemi su entrambi i piani, dei rapporti e del sistema.
In via generale, la frazionabilità, dalla quale dipende la modalità della negoziazione e, nella specie, la negoziabilità in borsa o in mercati regolamentati, è ciò che determina la rilevanza dei mercati derivati in relazione alla specifica funzione di gestione dei rischi sistemici da parte degli operatori creditizi; rilevanza che, in particolare, si esprime con riguardo ai soggetti e alla dinamica negoziale.
Infine, il piano dei rapporti contrattuali – questa volta guardando specificamente ai derivati OTC – segnala peculiarità importanti sia sotto il profilo dinamico che statico dei requisiti strutturali: dunque, soggetti, procedimenti formativi, causa e oggetto. Non resta fuori nulla o quasi.
Il terreno è smisurato, si diceva, e sarà coperto per una porzione minima, limitata ai rapporti contrattuali e, in tale ambito, prevalentemente ai profili inerenti ai soggetti e ai procedimenti formativi, rispetto ai quali è, ad avviso di chi scrive, più immediatamente percepibile l’effetto della crisi, di accelerazione del ripensamento dei fondamenti ideologici e concettuali dell’autonomia privata e delle relative categorie.
3. I soggetti.
L’idea di libertà negoziale rifluita – nel nostro sistema nazionale – nelle norme di due codici civili, sia pure tra loro lontani nel tempo e nell’impianto, trova attuazione a mezzo di un tessuto di principi tecnici e di regole aventi a epicentro tre caratteri fondamentali: la funzione retributiva (detto in altri termini, la funzione di soddisfazione di un interesse egoistico, proprio del contraente); l’autoresponsabilità (che vale a dire che chi contratta – direttamente o a mezzo di rappresentante non ha importanza – rischia in proprio); la disponibilità dell’oggetto della negoziazione e la correlativa disponibilità dell’interesse negoziato.
Gli altri c.d. principi codicistici nascono da questi primi tre (anch’essi usualmente denominati principi) e da essi sono funzionalmente orientati. Essi operano, cioè, quali espedienti tecnici costanti, idonei ad assicurare l’efficienza e l’equilibrio della contrattazione privata (almeno, di quella che i legislatori del 1865 e del 1942 conoscevano come prevalente), in quanto connotata a monte dai suddetti tre caratteri.
Più analiticamente, la funzione retributiva esprime – sotto il profilo (micro)economico, di economia dello scambio contrattuale – il fondamento marginalistico della teoria del consenso quale ragione della vincolatività. È ragione etica, di etica smithiana, protestante nella radice ma in grado di coniugare i due mondi, delle due rivoluzioni borghesi, e di raggiungere la morale cattolica attraverso il largo ponte del razionalismo cartesiano. Ragione ripensata ma non tramontata al termine della breve esperienza dello Stato liberale borghese; sopravvissuta alla nuova frattura ideologica del “secolo breve”: carattere qui dello scopo quale (espressione del fondamento ed) elemento dello schema normativo del potere di autoregolamentazione per come attribuito ai privati dall’ordinamento.
La seconda – l’autoresponsabilità – è, nel codice del 1865, riflesso squisitamente relativo dell’esercizio del potere dispositivo proprio del dominio della volontà dell’individuo sulla sua propria sfera giuridica. È invece espressione, nel codice del 1942, dell’impegnatività sociale delle dichiarazioni negoziali o, ancora, elemento essenziale di mediazione tra libertà e interessi dell’individuo e socialità dei fenomeni di autoregolamentazione. Diversa dunque nel fondamento ideologico e nel senso sistemico, ma parimenti – l’autoresponsabilità – elemento connetivo del tessuto dei principi tecnici e delle regole attuativi della libertà privata.
La terza, infine, la disponibilità dell’oggetto e dell’interesse, segna assai più vistosamente il confine tra i due mondi – quello del codice liberale e quello del riflusso nei valori collettivi e della socializzazione anche rispetto al diritto dei privati, giacché nel passaggio dall’uno all’altro ne varia sensibilmente la consistenza; anch’essa ciò nondimeno costituisce sempre una costante costruttiva. È naturale, nel sistema ottocentesco, la disponibilità dell’interesse privato in quanto tale, inerente cioè alla sfera patrimoniale individuale, id est, privata; la quale ultima si potrebbe anche dire – ribaltando la prospettiva – che è privata in quanto disponibile.
Il legislatore del codice del 1942, nell’ordinare in maniera profondamente diversa il binomio autorità/libertà, gradua con maggiore pervasività l’area della disponibilità e i suoi contenuti. Per dirla con diverse parole, il mutamento della nozione di ordine pubblico, ravvisabile nel nuovo codice già prima che la Carta costituzionale ne ridefinisse integralmente termini e contenuto, e l’estensione del controllo sugli atti d’autonomia al profilo intimamente funzionale della meritevolezza degli interessi, prospettano la disponibilità ma non più in quanto presupposto astratto di categorie ampie e generali di situazioni giuridiche, bensì quale esito della qualificazione in concreto di interessi specificamente perseguiti. Disponibilità, dunque, diversamente tarata ma pur sempre centrale nella costruzione delle regole e dei principi costruttivi dell’autonomia privata.
Funzione retributiva, autoresponsabilità e disponibilità hanno numerose, reciproche interferenze. Soprattutto, operano sul comune terreno di contrattazioni libere tra soggetti privati capaci. Occorre essere privati per essere liberi di disporre ovvero per essere titolari di situazioni in astratto disponibili. Occorre essere capaci per poter essere autoresponsabili. Occorre, infine, essere prima privati e poi capaci per poter contrattare perseguendo una propria utilità liberamente determinata con il metro soggettivo marginalistico nonché per esercitare efficacemente un potere di autoregolamentazione.
Ebbene. Il carattere dei soggetti delle contrattazioni in derivati non è compatibile con questo modello ogni qual volta – come è nella maggioranza dei casi – essi non siano entrambi operatori professionali (per intenderci, intermediario con intermediario). Non lo è in primo luogo quello dell’acquirente del prodotto, la cui capacità è assistita o, tout court, limitata. L’apprezzamento della retributività del contratto, qui più semplicemente detta ‘convenienza’, non è lasciato alla libertà dello stipulante a meno che non si tratti di operatore professionale. Il sistema delle dichiarazioni ha l’effetto di privare, totalmente o parzialmente, la parte del potere di scelta fondato sulla propria soggettiva valutazione dell’utilità marginale del prodotto acquistato. Non vale quindi il criterio di valutazione individuale dell’interesse nello scambio; in assenza di libertà di scelta è negato all’evidenza anche il principio di autoresponsabilità.
L’onere di comprendere e di programmare il miglior perseguimento dell’interesse dell’acquirente è trasferito sull’intermediario, il cui carattere di parte contrattuale è vieppiù incompatibile con quello proprio dei modelli codicistici. Tutto il processo di produzione delle determinazioni negoziali è alterato come lo sono i presupposti della vincolatività delle regole pattizie ove sono formalizzate tali determinazioni. In quello che qualcuno ha significativamente definito l’ambiente TUF, domina l’art. 21 ove è disposta senza mezzi termini la prioritaria funzionalizzazione dell’attività degli intermediari al perseguimento dell’interesse dei clienti.
L’ambiente TUF non tollera l’atmosfera della libertà contrattuale, neppure interpretata come iniziativa. Perseguimento dell’interesse del cliente stabilito dalla legge – e ovviamente correlativo obbligo di informarsi per poter individuare autonomamente l’interesse che il cliente da sé potrebbe non essere in grado di comprendere per mancanza di competenza specifica – vuol dire contenuto discrezionale dell’attività, anche negoziale. Discrezionale e non libero, in quanto vincolato nei fini. È stato affermato dalla dottrina e confermato da una giurisprudenza recente e assai significativa che il TUF ritaglia la figura dell’intermediario alla stregua di un “Ufficio di diritto privato”. Nihil sub sole novi? Forse. L’Ufficio di diritto privato risale infatti al pensiero classico di Salvatore Pugliatti. Non si tratta perciò, certo, di una categoria nuova. Ma la sua applicazione all’attività contrattuale finanziaria impatta enormemente sotto il profilo sistematico, nella ricomposizione e nella qualificazione dell’area – da altri e per altri fini più di recente profilata – dell’agire funzionale. Area caratterizzata dalla discrezionalità, che in sé riduce al minimo la remuneratività, soprattutto se intesa quest’ultima quale perseguimento ottimale di valore marginale. Ancora, caratterizzata dalla alienità dell’interesse da perseguire (ovvero dall’oggettività della funzione in ragione della quale la legge conforma il potere di agire del soggetto), la quale esclude l’efficace utilizzo del criterio di autoresponsabilità. Caratterizzata infine dalla radicale indisponibilità dell’interesse, giacché – a differenza del semplice agire nell’interesse altrui, proprio, ad esempio, della rappresentanza volontaria – lo stesso titolare dell’interesse (id est il cliente) non ne può disporre liberando l’intermediario dai suoi vincoli funzionali.
In definitiva, a capo dello schema della contrattazione finanziaria si trovano soggetti che non rispondono ai caratteri di capacità e libertà, essenziali nella connotazione degli schemi codicistici del contratto quale modello di esercizio del potere di autoregolamentazione privata. Già soltanto per questo, il sistema dei principi e delle regole si presenta ben disomogeneo rispetto al paradigma consolidato del consenso contrattuale nell’esperienza civilistica.
Il punto può essere approfondito. Il profilo della qualificazione delle parti – nello schema tradizionale dell’esercizio del diritto soggettivo, condensato nel carattere della capacità – confina con la fase dinamica del fenomeno negoziale. Superando tale confine è dato aggiungere numerosi argomenti.
4. Iniziamo provando a sintetizzare con qualche interrogativo.
a) Quanto incide la c.d. finanziarietà dei rapporti nel riconoscimento del consenso quale condizione di vincolatività degli atti di autoregolamentazione?
b) Ancora, quanto incide ai predetti fini la peculiarietà della negoziazione in derivati OTC?
c) Infine, come si traduce sotto il profilo dinamico la qualificazione dell’intermediario in termini di Ufficio di diritto privato? Come, in particolare, con riguardo alla relazione tra interessi perseguiti, funzione degli atti di iniziativa e rimedi?
Per linee necessariamente essenziali.
a) Il problema del consenso si traduce sul nostro terreno in quello del c.d. consenso informato. Si tratta di una traduzione (dunque di una traslazione di senso) e non di una mera specificazione giacché si può reputare dato di partenza che, se il fattore determinante dell’efficacia vincolante delle dichiarazioni negoziali nella tradizione dei codici civili dell’Europa continentale è variamente rintracciabile in un punto della catena volitiva dialogica (volontà/manifestazione/dichiarazione/ricezione), nei rapporti di mercato normati dal diritto italo–europeo tale fattore si trova invece nella coniugazione tra procedimento formativo e forma delle dichiarazioni. Non vi è mai, nel diritto europeo dei contratti, ricerca della reale intenzione dei contraenti, come invece è nel codice civile a mezzo della disciplina dell’errore. Vi è ritualità: la forma e la scansione degli atti costituiscono la causa efficiente (e sufficiente) dell’efficacia vincolante delle dichiarazioni.
Di massima, il tema è quello dell’informazione; tema generale, comune, si diceva, ai rapporti di mercato. E già in generale le scelte del legislatore europeo e, soprattutto, le teorie condizionanti tali scelte sono state, nell’ultimo decennio, oggetto di profonde critiche. Con specifico riguardo ai contratti finanziari, la crisi d’inizio millennio, quella dei subprime, ha profilato in maniera drammatica il fallimento del modello costruito sui dettami dell’economia neoclassica. Nell’occasione di tale crisi, si è fatta strada la consapevolezza che, ove si guardi nella prospettiva dei rapporti tra professionisti e clienti, molti mercati tra i quali certamente quelli finanziari non possono fondare la propria efficienza sulla informazione. I clienti non possono comprendere e assai spesso non vorrebbero comunque conoscere ciò che eventualmente abbiano anche la capacità di comprendere. Da un lato, le loro scelte non si possono presumere razionali e, dall’altro lato, la presenza dell’intermediario, soggetto necessario della negoziazione al quale la legge affida il perseguimento dell’interesse del cliente, induce a reputare prevalente sulla mera informazione la consulenza, ovvero la elaborazione critica delle informazioni in ragione dello specifico interesse ascrivibile alla controparte.
È questo tutto sommato uno dei corollari della conclusione alla quale moltissimi sono giunti dopo la menzionata crisi del 2006: base dei mercati non è l’informazione, strumentale alla diretta consapevolezza del singolo cliente nel proprio rapporto contrattuale con il singolo intermediario, ed è invece la fiducia. È appena il caso di sottolineare che questo vale a maggior ragione con riguardo alla finanza derivata in ragione della estrema complessità e dei particolari caratteri funzionali e strutturali dei suoi prodotti.
Dunque: quanto incide la c.d. finanziarietà dei rapporti nel riconoscimento del consenso quale condizione di vincolatività degli atti di autoregolamentazione?
Moltissimo, se soltanto si riflette sulle conseguenze del passaggio dal c.d. consenso consapevole (come tale autonomo e autoresponsabile) a quello che si può certamente definire assistito in ragione della funzione di elaborazione critica assegnata dalla legge all’intermediario (perciò Ufficio di diritto privato).
Segnatamente, tra dette conseguenze è ai nostri fini certamente da sottolineare quella della ridefinizione dei confini tra discipline dei rapporti contrattuali con i clienti, che come detto dovrebbero rispondere all’esigenza di affidabilità degli intermediari nell’esecuzione di attività qualificabili come di consulenza, per non dire più radicalmente di sostituzione all’apprezzamento del cliente nella logica del potere funzionale, e discipline dell’attività in sé; inerenti, queste ultime, a un contesto nel quale l’informazione economica e la complessiva trasparenza giocano invece il ruolo dei protagonisti. Osservare che problema di fondo nella prospettiva dei clienti è la fiducia non significa infatti negare il rilievo dell’informazione. La corretta ed equilibrata circolazione di informazioni a livello di sistema e nei rapporti tra operatori professionali nonché a beneficio degli attori istituzionali costituisce indubbiamente una condizione essenziale per la funzionalità dei mercati. Se in via generale si può reputare come un dato acquisito che i mercati non sono sani quando non sono trasparenti, in particolare ciò è profondamente vero nei mercati finanziari dove la quantità e la qualità delle informazioni è fattore costitutivo, in via diretta o indiretta, degli stessi valori oggetto delle negoziazioni.
In estrema sintesi: le discipline consumeristiche di fine millennio tentano di riprodurre lo schema logico fondato sul consenso come espressione di volontà per fondare l’efficacia delle regole contrattuali e individuare un relativo criterio d’imputazione. A tale scopo, stanti i caratteri delle negoziazioni c.dd. business to consumer, è adottata la tecnica esattamente opposta rispetto a quella propria del contratto quale categoria ordinante sia all’origine del diritto privato moderno che a seguito del suo profondo ripensamento mosso dal rapido sviluppo economico e dalle numerose scosse sociali e politiche che segnano la storia dell’Europa nel XX secolo. Registrata l’impossibilità di fondare sul consenso effettivo l’efficacia di contratti connotati da squilibrio strutturale, da asimmetria informativa e da modalità di conclusione spersonalizzate o comunque da assenza di trattative, il legislatore europeo ricorre a sistemi di presunzioni basate sul rispetto di oneri formali e procedimentali. La conservazione del criterio d’imputazione costituito dal consenso, e con esso della relativa categoria, è perseguita attraverso il ribaltamento del modello causalistico. Non a caso, all’affermazione del c.d. neoformalismo e alla procedimentalizzazione del consenso si accompagna la perdita di centralità della causa.
La crisi economica fornisce l’evidenza dei limiti di tale modello, certamente con riguardo ai contratti finanziari. Essa evidenzia in particolare l’infungibilità del consenso in quanto tale, ove esso ovviamente sia possibile, e l’inutilità, a tale fine (ove esso non sia possibile), dell’informazione usata per indurre consapevolezza. Il confine al quale si è prima accennato, tra regole dei rapporti e regole dell’attività, profila un mercato oggettivamente trasparente a beneficio di tutti gli operatori professionali e istituzionali entro il quale i clienti concludono contratti adeguati al loro interesse in quanto correttamente consigliati da intermediari operanti al loro servizio. Ciò sconta tuttavia la rinuncia proprio all’idea del consenso consapevole e autoresponsabile, inseguendo invece la quale il confine sfuma e si genera esattamente il pasticcio che connota il mercato attuale – quello della crisi – ove i termini si presentano capovolti: un mercato oggettivamente opaco entro il quale i clienti concludono contratti dovendo apprezzare da sé la propria convenienza sulla base di dati e informazioni spesso copiose ma per essi non comprensibili, senza che sia data loro la possibilità di sottrarsi alla propria (auto)responsabilità invocando vizi del consenso sostanziali giacché la validità è assicurata (al professionista) sol che siano rispettati oneri e scansioni procedimentali.
b) Se quanto detto può valere in via generale, per tutti i contratti aventi il carattere della finanziarietà, ben più evidenti si mostrano le ragioni d’inadeguatezza con riguardo alla finanza derivata e, nei suoi confini, con riferimento specifico alle contrattazioni c.dd. over the counter.
È stato esattamente osservato che in queste ultime contrattazioni è alterato lo schema tipico, in funzione del quale è generalmente intesa la figura dell’intermediario finanziario: controparte professionale necessaria a tutela dell’efficienza e della trasparenza dei mercati nonché dell’adeguatezza (o appropriatezza) delle negoziazioni, in primo luogo nell’interesse dei clienti. Secondo tale semplice schema, l’intermediario contratta con il cliente il contenuto di attività che egli svolgerà, per conto del medesimo cliente, aventi a oggetto prodotti presenti sui mercati. Detto in altre parole, sotto il profilo strutturale l’oggetto delle negoziazioni è costituito da prodotti liquidi riferibili a operazioni economiche di soggetti terzi; sotto il profilo funzionale, l’intermediario non ha un interesse proprio nelle operazioni espresse dai prodotti negoziati, alle quali, operazioni, partecipa il cliente. A questa stregua è predicabile una terzietà dell’intermediario rispetto ai prodotti da lui negoziati che, a ben vedere, è connaturata con la ratio della funzione e costituisce, per ciò stesso, condicio sine qua non del suo corretto esercizio.
La contrattazione over the counter non è riconducibile a questo schema. Lo swap – l’Interest Rate Swap per usare un esempio più di altri praticato da letteratura e giurisprudenza – è qualificabile come prodotto finanziario ed è in quanto tale venduto dall’intermediario al cliente. È tuttavia, altresì, un contratto del quale l’intermediario è partein proprio essendo peraltro parte anche del sottostante rapporto al quale lo strumento è solitamente collegato. La contrattazione in sé esprime dunque un conflitto di interessi strutturale. Un conflitto assolutamente fisiologico in quanto descrittivo di un’operazione economica – quella espressa dallo strumento – costruita prevalentemente sul modello (non propriamente dello scambio ma) dell’efficacia corrispettiva; e però patologico là dove prospetta altresì la sovrapposizione, a tale rapporto e alla funzione retributiva di esso propria, di un ulteriore rapporto (di consulenza); ciò a maggior ragione dove gli obblighi del consulente siano attuativi di una funzione di protezione dell’interesse di controparte sancita dalla legge.
Se dunque – come una recente, nota decisione della Corte d’Appello di Milano ha condivisibilmente argomentato – il principio caveat emptor non è mai compatibile con contrattazioni collocabili nell’area funzionale dell’art. 21 TUF, a maggior ragione quando la terzietà dell’intermediario è esclusa dai caratteri stessi della contrattazione il consenso non è eligibile a criterio di validità e di riferibilità di vincoli contrattuali, neanche qualora sia formato a mezzo di informazioni ampie ed esaustive.
c) Sul piano della disciplina applicabile e dei rimedi si misura infine la ricaduta pratica della prospettata qualificazione dell’intermediario in termini di Ufficio di diritto privato. Su questo piano, altresì, si manifesta una chiara necessità di rivedere o anche di mutare radicalmente talune tra le principali categorie di riferimento.
Abbandonata l’idea del consenso informato, e perciò stesso autoresponsabile, in favore di quella dell’autonomia assistita, in apice il problema muta. Non ci si chiede più, soltanto, quali siano le condizioni di vincolatività del consenso ma, altresì e soprattutto, quali indici consentano di ravvisare l’abuso dell’intermediario ovvero in quali termini si possa reputare giustiziabile la situazione soggettiva del cliente. Poco più a valle occorre nuovamente distinguere tra il piano generale dei rapporti tra intermediario e cliente e la ristretta area delle negoziazioni di prodotti derivati over the counter.
L’uno, il piano generale, è scena di un significativo mutamento di strumenti conoscitivi e valutativi. Per dirla in breve: la natura discrezionale del potere dell’intermediario presuppone l’esistenza di una norma che ne orienti la funzione. Norma che per ciò stesso anzitutto definisca, oltre la generica previsione dell’art. 41 cost., il contenuto specifico della situazione di autonomia contrattuale ascrivibile al medesimo intermediario. Ancora una volta: nihil sub sole novi. Già da tempo è stato acquisito – e ripetutamente affermato e argomentato da una antivedente dottrina – che l’autonomia (meglio, l’iniziativa) privata non ha fondamento unitario: se ne può certamente rintracciare un elemento comune nell’art. 41 cost., ma poi, volta per volta, esso è integrato – secondo gli interessi coinvolti – da altre norme talsì da assumere diverso senso. A questa stregua, per ben qualificare, è necessario ad esempio distinguere il fondamento dell’autonomia a contenuto non patrimoniale, in quanto integrato dai principi fondamentali degli artt. 2 e 3 cost., come pure quello della c.dd. autonomia della pubblica amministrazione, integrato dagli artt. 97 ss. Così l’attività negoziale dell’intermediario trae il proprio senso specifico dall’art. 47 cost.; rispetto a questa norma e al valore da essa dedotto, tale attività è poi – come ripetutamente detto – in senso stretto funzionalizzata per il tramite dell’art. 21 TUF e, per ciò stesso, costituisce il parametro sulla base del quale è valutabile il corretto esercizio del corrispondente potere discrezionale.
Già sul piano generale si coglie un deciso cambio di rotta rispetto alla libertà contrattuale mossa dal consenso, come pure rispetto a quella legittimata dall’informazione. Se, come detto, dato rilevante è la giustiziabilità della condotta controfunzionale dell’intermediario, non si può mai reputare sufficiente la valutazione sulla modalità di formazione della volontà contrattuale del cliente avendo riguardo semmai all’adempimento di obblighi informativi. Necessario e, diremmo, decisivo è invece un giudizio sulle ragioni che hanno orientato la concreta attività di consulenza svolta dall’intermediario.
Traducendo in termini sintetici: agire funzionale – discrezionalità – giustiziabilità – motivazione. Questo percorso, evidentemente incompatibile con le categorie tradizionali del contratto come pure con quelle introdotte dalle disciplina consumeristiche, emerge da una interpretazione certamente già ricavabile dal sistema prima della crisi economica. Dopo la crisi tuttavia ne può apparire più chiaramente la fondatezza, alla luce del fallimento di prevalenti interpretazioni in vario modo ispirate dai dettami dell’economia neoclassica.
Per concludere, su questo piano, resta possibile un’osservazione. Tutto il discorso ha a oggetto il consenso come criterio di validità e di riferibilità di regole di autonomia privata. Validità e riferibilità che innanzitutto dipendono, come di regola, dalla struttura del potere dispositivo (dalla generale capacità o dalla specifica legittimazione) e dalla concreta modalità del suo esercizio. La differenza tra abuso ed eccesso di potere formalizzata per la prima volta nella disciplina della rappresentanza articolata dal codice del 1942, trova ragione nell’adozione per i fini di tale disciplina del modello della rappresentanza volontaria. L’agire per conto altrui sconta infatti l’origine soggettiva della funzione, l’abuso non può perciò non fare i conti con la posizione dei terzi in buona fede. L’eccesso di potere assume invece rilievo oggettivo. Eccesso sta per carenza rispetto all’atto compiuto e il rimedio non può che essere in via di principio l’inefficacia. Il codice dunque distingue; e la distinzione è senz’altro opportuna per la rappresentanza volontaria. Lo stesso non vale per la rappresentanza legale – e non a caso la disciplina dei casi delineati nel libro I del codice non soffre la limitazione della riconoscibilità del conflitto da parte dei terzi – dove eccesso e abuso coincidono poiché anche la funzione ha rilievo oggettivo.
Nella rappresentanza legale trova un proprio paradigma la figura dell’Ufficio di diritto privato. Dunque, fintanto che si discuta di corretto esercizio della funzione di intermediazione, le ipotesi patologiche seguono l’alternativa tra inefficacia (rimedio per l’eccesso di potere del rappresentante) e non imputabilità ovvero rifiutabilità degli effetti (disciplina dell’eccesso di potere del mandatario). Non vi è spazio invece per profilare la violazione di regole di mera condotta. Per fare ciò – come una giurisprudenza assai nota ha reputato infelicemente di fare – è necessario presupporre la valenza autonoma del consenso, sia pure procedimentalizzato, e la correlativa piena autoresponsabilità del cliente.
Tornando a guardare alla ristretta area delle contrattazioni OTC, si mostra con chiarezza il peso del conflitto strutturale poc’anzi menzionato. La mancanza originaria di terzietà dell’intermediario conduce di per sé a escludere il corretto esercizio della funzione qualora i caratteri del contratto stipulato non esprimano un’oggettiva attitudine coerente con l’interesse ascrivibile al cliente.In questo senso sembra tra l’altro sostanzialmente orientata la CONSOB quando distingue gli swap di copertura da quelli speculativi sulla base di caratteri contenutistici in realtà indicativi non già della presenza o no di una causa puramente aleatoria bensì della proporzionalità e della ragionevolezza del rischio assunto dalle parti. Risultato è la prospettazione di una ipotesi di pericolo di conflitto assimilabile a quella dell’art. 1471 n. 3 c.c., con conseguente annullabilità del contratto a prescindere dalla prova concreta di un abuso attuale e, comunque, in aggiunta ai detti rimedi della inefficacia e della rifiutabilità degli effetti.
Ancora, se, come già detto, in via generale il rilievo dell’informazione è affievolito dall’inversione di responsabilità in ordine alle scelte operate dal cliente con l’assistenza dell’intermediario e se ciò conduce a profilare l’esigenza di motivazioni congrue, tali da assicurare la giustiziabilità dell’operato discrezionale del medesimo intermediario, ciò è a maggior ragione da affermare nelle contrattazioni OTC. Segnatamente, a fronte della impenetrabilità dei contenuti spesso propria dei contratti di Interest Rate Swap, una recente quanto significativa decisione della Corte d’Appello di Milano ha collocato l’informazione nell’area della causa del contratto. Considerati i caratteri dell’operazione economica, che sempre si fonda su una scommessa, tale attività informativa dovuta a pena di nullità (per mancanza di causa, nella costruzione della Corte) viene specificamente individuata nella esibizione dei c.d. scenari probabilistici, i quali rappresentano graficamente le probabilità dei possibili esiti dell’operazione medesima. Ebbene – di là dalle necessarie osservazioni sulla causa di questi contratti, alla quale si accennerà più avanti, e nonostante proprio questa decisione affermi a chiare lettere la natura di Ufficio di diritto privato dell’intermediario valorizzando impeccabilmente il disposto dell’art. 21 TUF – sembra che l’opinione abbia comunque quale presupposto un’idea della considerata autonomia negoziale ancora troppo imperniata sull’autoresponsabilità del cliente.
Quid juris, infatti, ove fosse riscontrabile una completa attività informativa? Nell’ottica di quanti attribuiscono un ruolo decisivo alla comunicazione al cliente degli scenari probabilistici – vuoi per la consapevolezza del consenso, vuoi per l’esistenza stessa della causa – si dovrebbe dire che il contratto è valido senza riserve. L’alternativa inerente alla validità o no resta cioè quella direttamente connessa al rispetto di oneri formali, nella già menzionata logica della procedimentalizzazione del consenso. Ciò che non sembra affatto adeguato alla menzionata qualificazione dell’intermediario ai sensi dell’art. 21 TUF.
Ove la responsabilità in ordine ai contenuti della negoziazione fosse invece coerentemente collocata sull’intermediario, quale riflesso dell’esercizio della funzione sua propria, l’informazione semmai anche tramite gli scenari probabilistici assumerebbe più facilmente rilievo di elemento di giudizio a posteriori in ordine alla motivazione di tale esercizio. Il contratto è valido se la funzione risulta correttamente esercitata; non lo è se, sulla base di tutti i possibili strumenti conoscitivi e a prescindere dall’informazione che il cliente ha ricevuto, risulta chiaramente inidoneo a realizzare l’interesse di quest’ultimo. Piuttosto che riprodurre la finzione del consenso consapevole – quali che siano la chiarezza e la forza persuasive dell’informazione data – si dovrebbe dunque valutare, a fronte dell’interesse del cliente come percepibile a monte, ciò che poteva e doveva sapere l’intermediario, responsabile del perseguimento di tale medesimo interesse.
5. In perfetta corrispondenza con la tradizionale alternativa tra forma e causa quali metodi di controllo degli atti di autonomia privata, alla perdita di centralità degli oneri formali (forma e informazione) delineati dai procedimenti formativi consumeristici tende a corrispondere un recupero di rilievo della causa. Sia pure limitandosi all’essenziale un cenno al profilo c.d. statico è perciò necessario per delineare un quadro compiuto.
La specificità, elemento comune, del profilo funzionale dei contratti derivati si coglie a un primo sguardo: essi regolano rischi, talvolta preesistenti in quanto strettamente e unicamente correlati a operazioni esterne al rapporto contrattuale, altre volte appositamente creati a mezzo dei medesimi contratti. A questo elemento e a ciò che a esso più strettamente attiene limiteremo l’attenzione articolando pochi rilievi.
L’approccio rispetto alla funzione di questi prodotti ha conosciuto, nel decennio a cavallo tra il primo e il secondo millennio, una stagione di prevalente agnosticismo. Dominanti due ordini di considerazioni: la finanziarietà è in sé carattere causalmente giustificativo di qualsiasi transazione che abbia a oggetto esclusivamente denaro; la finanza derivata è strumento che direttamente o indirettamente (a mezzo della c.d. finanza strutturata) consente una allocazione efficiente del rischio finanziario. Allocazione efficiente poiché operata con le regole spontanee e la forza ordinatrice (la mano invisibile) del mercato e dunque adeguata nella prospettiva anche degli operatori al dettaglio oltre che, ovviamente, del sistema. Semmai, a fronte di evidenti disfunzioni (i.e. market failures) c’è sempre la disciplina tagliata sul modello consumeristico a garantire il recupero dell’autoresponsabilità quale criterio sanante. A questo approccio, come detto prevalente in dottrina, faceva eco una giurisprudenza assai timida, intenta nella ricerca – quasi sempre frustrata – degli estremi per annullare per conflitto d’interessi; privata della possibilità di ricorrere alla nullità virtuale da una nota, già menzionata, decisione della Suprema Corte a sezioni unite; spesso disorientata nel tentativo di verificare il contenuto dei requisiti di appropriatezza o adeguatezza delle operazioni economiche realizzate e per maggiore semplicità attratta dai rimedi di natura risarcitoria.
Il quadro – quello dell’incidenza della crisi sulle categorie – si compie quando, esattamente all’indomani della crisi, ha inizio una linea di decisioni, in buona parte di Corti civili di merito, che affronta di petto il problema della causa e dell’oggetto dei contratti. Gli esiti sono variamente apprezzabili. Certamente è tuttavia decisivo ai nostri fini che l’abbandono dell’approccio agnostico sia realizzato a mezzo del ritorno all’analisi funzionale operata con l’ausilio delle classiche categorie della causa e dell’oggetto. Tutti i decisori, dal Tribunale di Trani alla Corte d’Appello di Milano ai recentissimi Tribunali di Torino e di Milano – sia quelli che concludono per la nullità sia quelli rarissimi di segno opposto –, anziché affidarsi, come in precedenza e come ancora il giudice amministrativo, a improbabili mescolanze di consulenze finanziarie e analisi normative di carattere mai più che testuale, recuperano un’operazione che sembrava irrimediabilmente desueta: qualificano.
A margine di queste decisioni la discussione anche dottrinale muta decisamente il proprio carattere. Tramonta la finanziarietà, dietro alla quale si guarda finalmente agli interessi concretamente perseguiti, termini apicali diventano copertura, speculazione e scommessa. L’impenetrabilità del contenuto, espresso da formule algebriche quasi sempre incomprensibili anche allo stipulante professionista (quello, per intenderci, che dovrebbe spiegarle al cliente), è sottratta – quale oggetto di giudizio – all’area del consenso ed è vista, volta per volta, come vizio della causa, inesistenza della stessa, vizio dell’oggetto. Per orientarsi su un terreno che resta estremamente accidentato torna essenziale il rasoio di Occam, al fine di distinguere tra scommessa pura, scommessa ragionevolmente collegata a operazioni sottostanti (definita da alcuni scommessa razionale) e scommessa irragionevolmente connessa a operazioni sottostanti. Ancora, per distinguere tra oggetto del contratto (che è il rischio come regolato e talvolta creato dal contratto medesimo, che perciò si può reputare oggetto di sé stesso) e oggetto della prestazione (che è la somma dovuta, all’esito dell’operazione o a scadenze date, da una parte in favore dell’altra); per escludere cioè, ad esempio, che l’interest rate swap abbia causa di scambio e che abbia a oggetto due tassi di interesse di segno opposto.
Si compie dunque il quadro con il contrappeso del recupero di categorie proprie del c.d. profilo statico, da molti reputate al tramonto, rispetto al più sopra rilevato mutamento delle categorie proprie del profilo dinamico. Quadro, come anticipato, ridotto al piano dei rapporti contrattuali e, anche rispetto all’estensione di questo, estremamente limitato.
Le ragioni di fondo rappresentabili alla base delle riscontrate evoluzioni – lo specifico fondamento costituzionale dell’iniziativa economica finanziaria, la stretta funzionalizzazione dell’attività degli intermediari, la necessità di qualificare sempre gli interessi espressi dalle operazioni in concreto realizzate – si possono tuttavia reputare comuni ai diversi piani in ragione dei quali si deve articolare l’intera materia. Ancora, sia pure tenendo fermo il confine – che, si è detto, è anzi da segnare con maggiore evidenza – tra disciplina dei rapporti e disciplina dell’attività, i cennati caratteri della causa e dell’oggetto possono ben essere riguardati come i relativi nessi collegamento.
Alzando ancora lo sguardo, resta da osservare che la rilevata funzione di allocazione e creazione di rischio sottende il carattere più significativo della finanza derivata – la quale, come già detto in principio, non ha connessione strutturale necessaria con fenomeni di produzione o di circolazione di ricchezza – e altresì chiarisce le ragioni per le quali essa può essere considerata un simbolo o anche una metafora, espressivi, l’uno e l’altra, della crisi dell’economia occidentale ben oltre la sua attuale contingenza: anzitutto di un modo di essere del tessuto socio economico e di una modalità dello sviluppo nei sistemi capitalistici c.dd. avanzati; poi della crisi progressiva della società del benessere e dell’ascesa del modello economico della finanza globalizzata, iniziata quest’ultima nei primi anni del secolo breve e compiutasi a far capo dalla fine della guerra fredda.
Si profila qui un altro lungo e assai impegnativo tratto del percorso, un nuovo quadro, dove diverse categorie giocano un ruolo essenziale e debbono essere ridiscusse, prima fra tutte quella del conflitto di interessi guardata però a livello sistemico rispetto al ruolo, ancora di sistema, di gestione del rischio svolto (o no) dagli intermediari.
*
È il testo, rimaneggiato e con notevoli ampliamenti, della relazione al seminario Crisi economica e categorie civilistiche, dell’Associazione Civilisti Italiani con il Consiglio Nazionale Forense, svoltosi nei giorni 28/29 giugno 2013.
Per un ampio sostegno bibliografico mi è possibile rinviare:
– con riguardo al rilievo sistemico, sotto diversi profili, della finanza derivata, ai saggi contenuti nel volume a cura di F. Cortese e F. Sartori, Finanza derivata, mercati e investitori, Collana Iura, Pisa, 2010 (e ivi, tra gli altri, a R. Di Raimo, Fisiologia e patologie della finanza derivata. Qualificazione giuridica e profili di sistema);
– con riguardo al piano dei rapporti tra banche e clienti ai saggi contenuti nel volume a cura di D. Maffeis, Swap tra Banche e clienti. Le condotte e i contratti, in Quaderni di Banca, borsa e tit. cred., Milano 2014 (e ivi, tra gli altri, a R. Di Raimo, Dopo la crisi, come prima e più di prima (il derivato finanziario come oggetto e come operazione economica);
– su vari profili strutturali e funzionali della finanza derivata, ai numerosi scritti di D. Maffeis su questa rivista; altresì su soggetti e causa, ancora su questa rivista, tra gli altri, agli articoli di M. Semeraro; specificamente sul peculiare profilo funzionale, a M. Indolfi, Aleatorietà convenzionale della causa dei contratti derivati, Padova, 2013.
– quanto alla casistica e alla regolamentazione di varia fonte, l’intero orizzonte si trova ben tracciato nei contenuti delle sezioni ‘Giurisprudenza’, ‘News’ e ‘Approfondimenti’ del portale Dirittobancario.it, che ospita anche questa rivista.
Sulla qualificazione dei contratti derivati è necessario il confronto con G. Gabrielli, Operazioni su derivati: contratti o scommesse?, in Contr. impr., 2009, p. 1135 ss.
Sulla natura e sulla struttura dei rapporti finanziari è imprescindibile P. Ferro-Luzzi, Lezioni di diritto bancario, I, Torino 2004, p. 122 ss.; Id., Il tempo nel diritto degli affari, in Banca borsa tit. cred., 2000, p. 407 ss., nonché, anche con specifico riferimento ai prodotti finanziari derivati, Id., Attività e prodotti finanziari, in Riv. dir. civ., 2010, p. 133 ss. Sulla natura e sulla consistenza funzionale del mercato del finanziamento quale mercato della ricchezza assente parimente imprescindibile è P. Spada, Introduzione al diritto dei titoli di credito, Torino, terza ed., 2012; e vedi ora, anche, M. Cossu e P. Spada, Dalla ricchezza assente alla ricchezza inesistente. Divagazioni del giurista sul mercato finanziario, in Banca borsa tit. cred., 2010, p. 401 ss.
Per i profili di maggiore respiro inerenti ai riflessi della finanziarizzazione dei mercati sui rapporti contrattuali è significativa la lettura di A. Jannarelli, Il contraente risparmiatore, in F. Capriglione (a cura di), I contratti dei risparmiatori, Milano, 2013, p. 35 ss., e, con riguardo alla struttura dei mercati finanziari, di F. Sartori, Informazione economica e responsabilità civile, Padova 2011.
Infine, per un ottimo affresco storico, utile per la collocazione dei fenomeni in un quadro più ampio che, certamente, ne aiuta la comprensione, G. Berta, L’ascesa della finanza internazionale, Milano 2013.