Con sentenza n. 4339 del 4 marzo 2016, la Corte di Cassazione statuisce il principio secondo cui gli interessi passivi non devono sottostare al principio di inerenza per poter essere dedotti dal reddito d’impresa. Tale affermazione sorge da una rettifica dell’Agenzia delle Entrate che sosteneva la necessaria presenza di una valida ragione economica per la deduzione degli interessi passivi.
A tal proposito, giunto il processo dinnanzi alla Corte di Cassazione, i giudici di legittimità, disattendendo la tesi dell’Ente impositivo, affermano che gli interessi passivi soggiacciono esclusivamente alle regole previste dell’attuale art. 96 del TUIR, il quale permette la deduzione degli interessi passivi fino a concorrenza di quelli attivi e, per la parte eccedente, con il solo limite del 30% del ROL.
Pertanto, ai fini della deduzione degli interessi passivi non occorre che essi siano conformi al principio di inerenza, dovendo solo rispettare i limiti di cui all’art. 96 del TUIR.
Preme osservare, inoltre, che l’attuale art. 109, comma 5, del TUIR prevede l’esclusione dal rispetto del principio di inerenza per gli interessi passivi poiché “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.
Alla luce di ciò, risulta chiaro che la deduzione degli interessi passivi prescinda da un giudizio di inerenza e, che, come anche affermato già in precedenza dalla stessa giurisprudenza di legittimità mediante la sentenza n. 10501 del 14 maggio 2014, soggiace esclusivamente ai limiti previsti dall’attuale art. 96 del TUIR.