La fattispecie
Accade spesso nella normale operatività bancaria che vengano concessi finanziamenti alle imprese per la costruzione di impianti fotovoltaici nell’ambito dei quali, a garanzia del finanziamento concesso, viene pattuita sia la concessione di un’ipoteca volontaria sull’immobile sul quale l’impianto viene costruito sia la cessione in favore della banca dei crediti maturandi in forza della convenzione che le imprese stipulano con il Gestore dei servizi energetici (GSE).
Nell’ambito di tali operazioni il tema, assai attuale, che si pone è quello relativo alla possibilità di considerare tali crediti come frutti dell’immobile gravato da ipoteca.
L’impianto fotovoltaico è bene immobile?
Le disposizioni normative riferite all’ipoteca che assumono rilievo ai nostri fini sono, tra le altre, le seguenti:
– l’art. 2811 c.c.: “L’ipoteca si estende ai miglioramenti, nonché alle costruzioni e alle altre accessioni dell’immobile ipotecato, salve le eccezioni stabilite dalla legge”;
– l’art. 2865 c.c.: “I frutti dell’immobile ipotecato sono dovuti dal terzo a decorrere dal giorno in cui è stato eseguito il pignoramento”.
Alla luce di tali disposizioni, deve necessariamente verificarsi, da un lato, se l’impianto fotovoltaico costruito sull’immobile ipotecato possa essere effettivamente considerato un immobile, come tale suscettibile di rientrare nell’ambito di applicazione di cui all’art. 2811 c.c. ai fini dell’estensione dell’ipoteca ad esso ed ai suoi frutti, e, dall’altro, se i pagamenti dovuti dal GSE all’impresa possano essere considerati frutti dell’immobile e, come tali, attratti dal privilegio ipotecario.
Giova prendere le mosse dalla prima questione e, in particolare, dalla possibilità di iscrivere gli impianti fotovoltaici nel novero dei beni immobili.
Al riguardo, si osserva come l’art. 812 c.c. così testualmente disponga: “Sono beni immobili il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo.
Sono reputati immobili i mulini, i bagni e gli altri edifici galleggianti quando sono saldamente assicurati alla riva o all’alveo e sono destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione.
Sono mobili tutti gli altri beni”.
In tale prospettiva, rileviamo come la Circolare n. 36/E del 19/12/2013 dell’Agenzia delle Entrate effettui una dettagliata analisi dei profili catastali e fiscali relativi agli immobili ospitanti gli impianti fotovoltaici, affermando testualmente che “gli impianti fotovoltaici sono da considerarsi beni mobili quando soddisfano uno dei seguenti requisiti:
- a) la potenza nominale dell’impianto fotovoltaico non è superiore a 3 chilowatt per ogni unità immobiliare servita dall’impianto stesso;
- b) la potenza nominale complessiva, espressa in chilowatt, non è superiore a tre volte il numero delle unità immobiliari le cui parti comuni sono servite dall’impianto, indipendentemente dalla circostanza che sia installato al suolo oppure sia architettonicamente o parzialmente integrato ad immobili già censiti al catasto edilizio urbano;
- c) per le installazioni ubicate al suolo, il volume individuato dall’intera area destinata all’intervento (comprensiva, quindi, degli spazi liberi che dividono i pannelli fotovoltaici) e dall’altezza relativa all’asse orizzontale mediano dei pannelli stessi, è inferiore a 150 m3, in coerenza con il limite volumetrico stabilito all’art. 3, comma 3, lettera e) del decreto ministeriale 2 gennaio 1998, n. 28” (pag. 14).
Non può però ritenersi del tutto soddisfacente il ricorso a detta Circolare allorché, come spesso accade, la questione abbia natura prettamente civilistica, in quanto volta ad individuare innanzitutto la natura immobiliare o meno del bene in questione e ciò, come visto, al fine di stabilire se lo stesso possa rientrare nell’ambito di applicazione di cui all’art. 2811 c.c.
In tale prospettiva, pertanto, tale valutazione deve essere effettuata, in primis, in ragione di quanto previsto dall’art. 812 c.c. e, quindi, alla luce dell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità. Sul punto, in assenza di specifici precedenti di legittimità circa la natura immobiliare o meno degli impianti fotovoltaici, riteniamo di poter far riferimento ai principi esposti da una recente pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. S.U. 30 aprile 2020, n. 84349) la quale, nella motivazione, così si è espressa in relazione alla possibilità di ritenere che dei ripetitori di segnali telefonici installati sul tetto di un edificio possano essere considerati beni immobili:
“24.1. Le Sezioni Unite ritengono che i menzionati ripetitori debbano essere considerati beni immobili, rientrando essi tra le “altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio” secondo il disposto dell’art. 812 c.c., comma 2”.
Nella motivazione, in particolare, la Suprema Corte rileva come
“la giurisprudenza di legittimità abbia chiarito che costituisce bene immobile qualsiasi costruzione, di qualunque materiale formata, che sia incorporata o materialmente congiunta al suolo, anche se a scopo transitorio (Cass. n. 679/1968); che deve considerarsi costruzione qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, e ciò indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell’opera, dai caratteri del suo sviluppo volumetrico esterno, dall’uniformità o continuità della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione e dalla sua funzione o destinazione (Cass. n. 20574/2007); che, ai fini delle norme codicistiche sulla proprietà, la nozione di costruzione non è limitata a realizzazioni di tipo strettamente edile, ma si estende ad un qualsiasi manufatto, avente caratteristiche di consistenza e stabilità, per le quali non rileva la qualità del materiale adoperato (Cass. n. 4679/2009, pag. 6); che la nozione di “costruzione” comprende qualsiasi opera, non completamente interrata, avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo (Cass. n. 22127/2009 che ha ritenuto che integrasse la nozione di “costruzione” una baracca di zinco costituita solo da pilastri sorreggenti lamiere, priva di mura perimetrali ma dotata di copertura).
Sulla base di questi rilievi la Suprema Corte afferma che, in definitiva, ricordato il risalente ed autorevole insegnamento secondo cui la distinzione tra immobili e mobili è, al pari di tutte le altre distinzioni sulle cose, ispirata da criteri economico-sociali e non da criteri naturalistici, deve affermarsi che, ai fini della qualificazione di un bene come immobile, l'”incorporazione” a cui fa riferimento dell’art. 812 c.c., comma 1, vada intesa come relazione strumentale e funzionale tra bene incorporato e bene incorporante, Di talchè ciò che rileva – più che la stabilità dell’unione del bene al suolo, o il tipo di tecnica usata per realizzare tale unione, o la irreversibilità dell’unione stessa – è l’idoneità del bene incorporato al suolo a formare oggetto di diritti non in sè isolatamente considerato, ma in quanto rapportato alla sua dimensione spaziale. Un bene è immobile, in senso giuridico, in quanto gli interessi che esso soddisfa sono determinati proprio dalla sua staticità, nel senso che esso assolve a determinate esigenze in quanto insiste su un certo luogo. Ciò che, appunto, può dirsi di un ripetitore di segnale.
Del pari, sempre in motivazione, la Cassazione precisa che:
“24.4. Va aggiunto che i ripetitori telefonici devono altresì considerarsi – oltre che, genericamente, beni immobili ai sensi dell’art. 812 c.c. – anche “costruzioni” agli specifici effetti tanto dell’art. 934 c.c. (e, dunque, suscettibili di accessione), quanto dell’art. 952 c.c. (e, dunque, suscettibili di costituire oggetto di un diritto di superficie). […]
24.6. Nè, si osserva da ultimo, la tesi che i ripetitori di segnale rientrano nella categoria delle “costruzioni”, che qui si sostiene, trova ostacolo nella disposizione, che pure si rinviene nel D.P.R. n. 259 del 2003, art. 86, citato comma 3, che le infrastrutture suddette “non costituiscono unità immobiliari ai sensi del D.M. Finanze 2 gennaio 1998, n. 28, art. 2 e non rilevano ai fini della determinazione della rendita catastale”. Tale disposizione ha infatti portata e finalità esclusivamente tributaria […].
Fermo restando che il punto 24.6 della pronuncia citata chiaramente esclude la rilevanza delle disposizioni di natura tributaria ai fini “civilistici”, è chiaro come i principi sopra esposti sono idonei a confermare la possibilità di ricondurre anche gli impianti fotovoltaici nel novero dei beni immobili.
Ritenuto, pertanto, che l’impianto fotovoltaico possa costituire, in astratto, un bene immobile, la circostanza per la quale esso sia stato installato sul tetto dell’immobile ipotecato ne determina la sua attrazione nell’ambito di detta ipoteca ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2811 c.c.
I crediti vantati dall’impresa finanziata verso il gse sono frutti civili?
Sul punto occorre innanzitutto osservare come sia pacifico che il privilegio ipotecario si estenda anche ai frutti civili generati dal bene ipotecato, così come confermato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 9 maggio 2013, n. 11025).
Ma i crediti vantati dall’impresa finanziata nei confronti del GSE – al di là del fatto che essi siano oggetto di cessione in favore della banca – possono essere considerati frutti civili?
Al riguardo, si osserva come la disposizione normativa di riferimento sia rappresentata dall’art. 820, III comma, c.c., la quale così testualmente dispone:
“Sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Tali sono gli interessi dei capitali, i canoni enfiteutici, le rendite vitalizie e ogni altra rendita, il corrispettivo delle locazioni”.
Al fine di individuare quale possa essere l’effettivo perimetro della nozione di frutti civili, si ritiene di poter richiamare la motivazione di risalente pronuncia di legittimità (che non consta essere stata successivamente confutata), la quale così si esprime in relazione a fattispecie inerente ai canoni di affitto d’azienda comprendente gli immobili ipotecati:
“Questa Corte ha affermato che la prelazione ipotecaria si estende ai frutti civili prodotti dall’immobile ipotecato dopo la dichiarazione di fallimento.
Le relative sentenze (n. 2355 del 15.5.1978 e n. 572 del 29.1.1982) avevano ad oggetto i canoni di locazione dell’immobile ipotecato nonché gli interessi maturati su tali canoni e sul prezzo di vendita dell’immobile.
L’orientamento va confermato, non essendo state addotte argomentazioni contrarie.
[…]
La unica questione che questa deve risolvere è quindi la qualificazione quale frutti civili dei canoni di affitto dell’azienda, nell’ammontare di essi corrispondente al godimento degli immobili ipotecati facenti parte dell’azienda.
L’art. 820, terzo comma, c.c., dispone che “sono frutti civili che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia”.
Ciò che è decisivo quindi è che il bene sia utilizzato da un terzo e che la utilizzazione abbia un corrispettivo: non rilevano nè la peculiarità dell’utilizzazione, nè il titolo di conferimento della stessa nè la qualificazione del corrispettivo.
Non è pertanto ostativo alla qualificazione in esame il fatto che il bene immobile abbia costituito una delle componenti dell’azienda data in affitto, salva, in tal caso, la individuazione concreta della parte di canoni correlata al godimento del bene.
Tale conclusione, peraltro, non è oggetto di contestazione, poiché ciò che invece si deduce è che l’azienda costituisce un bene mobile, e, pertanto, i canoni d’affitto della stessa costituiscono proventi mobiliari, e, conseguentemente, va applicata, su di essi, la disciplina dei privilegi mobiliari e, in particolare, quella prevista dall’art. 2777 c.c. per i crediti di lavoro.
(Cass. 10 agosto 1992, n. 9429, in motivazione).
Rapportati tali principi al quesito che ci occupa sarebbe innanzitutto necessario verificare in che cosa consistano i crediti (poi ceduti alla banca) effettivamente vantati dall’impresa nei confronti del GSE.
Normalmente la risposta al quesito si rinviene nelle convenzioni che le imprese finanziate stipulano con il GSE e, del pari normalmente, tali convenzioni disciplinano la cessione dalle imprese al GSE dell’energia elettrica prodotta dall’impianto fotovoltaico prevedendo il corrispettivo dovuto dal GSE per tale cessione sulla base di “tariffe incentivanti” previste dalla normativa di settore.
Si pone quindi il tema relativo alla possibilità di ritenere che il corrispettivo di detta cessione possa effettivamente integrare un frutto che “si ritragga dalla cosa” (nella specie l’impianto fotovoltaico): riteniamo che a tale quesito possa darsi risposta positiva, atteso che il frutto civile è comunque rappresentato da un credito verso un terzo derivante dall’utilizzo del bene.
Né, in tale prospettiva, si ritiene che la circostanza per la quale il credito in esame derivi dalla fornitura di energia elettrica e, quindi, consegua ad un processo di trasformazione effettuato dall’impianto fotovoltaico grazie alla sua componente tecnologica, sia di per sé un impedimento. Ciò in quanto detta componente tecnologica è direttamente integrata nell’impianto e, una volta che se ne assuma la natura di immobile, non pare esservi ragione per escludere la riconducibilità di detto credito al genus dei frutti civili.
Conclusioni
Alla luce di quanto precede, riteniamo che si possa dare risposta positiva ad entrambi i quesiti che ho posto:
- L’impianto fotovoltaico installato su bene immobile è anch’esso bene immobile;
- i contributi dovuti dal GSE alle imprese possono essere considerati frutti degli immobili, gravati da ipoteca volontaria costituita a favore della Banca, sui quali sono stati installati.