Sommario: 1. Premessa; 2. Ricostruzione tipologica della fattispecie; 3. Inquadramento sistematico della nuova fattispecie nella vigente tassonomia normativa: in particolare, il “comparto crediti ristrutturandi”; 4. (Segue), in particolare, il “comparto nuova finanza”; 5. “Fondi di ristrutturazione” e operazioni di cartolarizzazione: interferenze normative; 6. Inquadramento della fattispecie nella prospettiva delle banche conferenti/cedenti.
1. Premessa
Inequivoco è suonato l’autorevole, recente monito del Governatore di Banca d’Italia: «si possono inoltre gestire meglio quei crediti deteriorati (quasi un terzo del totale) che fanno capo a imprese in temporanea difficoltà ma con concrete possibilità di rilancio, soprattutto con il rafforzamento della ripresa economica. E’ essenziale a questo fine un adeguato coordinamento tra le banche finanziatrici, che preveda anche l’intervento di operatori specializzati nelle ristrutturazioni aziendali […]»[1].Tra le diverse iniziative recentemente messe in campo per gestire lo scottante problema degli NPL delle banche italiane, particolarmente innovative ed efficaci paiono quelle perseguite pionieristicamente da alcuni operatori ricorrendo allo schema del “fondo comune di investimento”, soluzione e a cui paiono prestare crescente attenzione anche i policy makers. Queste iniziative, oltre a farsi carico delle pur opportune esigenze di “pulizia” dei bilanci bancari, hanno come ulteriore e meritorio obiettivo quello di efficientare i processi di ristrutturazione delle imprese in “crisi”, oggi “polverizzati” e “incagliati” negli uffici ristrutturazione di tutte le banche italiane che si trovano a dover gestire con strumenti “ordinari” una vera emergenza nazionale.
Il classico modello operativo del “fondo comune di investimento”, viene qui, dunque, reinterpretato nella nuova variante del “fondo di ristrutturazione” secondo una tipizzazione sociale che va delineandosi sul mercato e che presenta inediti profili di inquadramento sistematico nell’ambito della disciplina della gestione collettiva del risparmio. In tal senso, anticiperemo nel prosieguo alcune delle riflessioni che sono il frutto di un più ampio e argomentato lavoro di prossima pubblicazione che si inserisce in un percorso di approfondimento delle nuove dimensioni che è venuta ad assumere, nell’ultimo decennio, la “gestione collettiva del risparmio”[2]. In particolare, alla luce della peculiare politica gestoria che caratterizza tali fondi e che ha ad oggetto, appunto, la “ristrutturazione” di (crediti problematici verso) imprese in crisi, occorrerà innanzitutto verificare se e in che limiti possa oggi delinearsi un nuovo modello tipologico di “fondo comune di investimento”, al fine di procedere innanzitutto alla sua corretta collocazione sistematica nel vigente, articolato quadro normativo; operazione che prelude, a sua volta, all’individuazione della disciplina ad esso applicabile.
2. Ricostruzione tipologica della fattispecie
Nella ricostruzione tipologica della fattispecie in esame, attingeremo alle prassi che si vanno delineando sul mercato funzionali al peculiare profilo che l’attività gestoria viene qui ad assumere, sinteticamente individuabile in quella complessa e multiforme attività che oggi viene definita come la “ristrutturazione” dell’impresa in crisi, in particolare attraverso l’utilizzo di specifici strumenti di composizione di quella crisi (piani attestati, accordi di ristrutturazione, concordati in continuità).
Lo schema operativo imperniato sul modello del “fondo comune di investimento” vede innanzitutto, nella sua fase genetica, il/la conferimento/cessione dei crediti “problematici” (underperforming) detenuti oggi dalle banche ad un “fondo comune di investimento”, venendosi in tal modo a formare l’originario nucleo patrimoniale che sarà poi oggetto di gestione, a fronte dell’attribuzione delle quote del fondo stesso alle banche conferenti/cedenti; i crediti oggetto di conferimento/cessione saranno quindi “gestiti” professionalmente dalla SGR secondo una politica gestionale che avrà come obbiettivo la “ristrutturazione” di quei crediti, onde massimizzarne il recovery rate, tramite la fuoriuscita dell’impresa target dalla situazione di crisi in cui essa versa; da questo punto di vista, dunque, l’oggetto dell’attività gestoria non sono qui propriamente i “crediti” in quanto tali, autonomamente e singolarmente considerati, quanto piuttosto l’impresa debitrice che si trova in stato di “crisi”. Evidentemente, un elemento vincente di questo schema sta nella possibilità del fondo di subentrare in una quota rilevante dell’indebitamento dell’impresa in crisi e sottoposta a ristrutturazione; solo così si massimizzeranno i benefici di questo schema di gestione del processo di ristrutturazione rispetto alla situazione di partenza che vede una pluralità atomistica di posizioni creditorie, spesso tra loro contrapposte, in capo a diverse e numerose banche[3]. Dal lato dell’impresa in crisi, questa benefica concentrazione delle posizioni creditorie prima polverizzate, comporterà altresì una più incisiva professionalizzazione (accelerazione e semplificazione) dell’intervento di ristrutturazione; dal lato delle banche conferenti/cedenti ciò si riflette in un miglioramento dei bilanci, nella liberazione di risorse per effetto della derecognition, nella razionalizzazione organizzativa e nel conseguente contenimento dei costi, nel miglioramento delle prospettive di recovery di quei crediti problematici (indirettamente attraverso la valorizzazione delle quote detenute nel fondo e dei flussi derivanti dai proventi da esso distribuiti). In definitiva, lo schema promuove e consente una efficace esternalizzazione e un generale efficientamento di un ruolo e di una funzione che non è e non dovrebbe esser propria della banca in un sistema come il nostro tuttora improntato al principio di separatezza banca-industria. Altrettanto funzionale ad un efficiente processo di ristrutturazione dell’impresa in crisi appare l’imprescindibile accompagnamento di quel processo con la disponibilità di c.d. nuova finanza; in tal senso, i modelli operativi che si vanno consolidando nella prassi prevedono dunque un intervento del “fondo di ristrutturazione” anche su tale complementare fronte, articolando quindi la sua operatività su due distinti comparti: a fianco del principale e tipico “ comparto crediti ristrutturandi”, sarà spesso presente, dunque, un accessorio “comparto nuova finanza”, destinato proprio a supportare la ristrutturazione delle imprese target attraverso l’erogazione di nuova finanza, opportunità questa solo recentissimamente normata e resa quindi concretamente percorribile nel rispetto del rigido sistema delle riserve allo svolgimento di attività bancaria e finanziaria.
3. Inquadramento sistematico della nuova fattispecie nel vigente tassonomia normativa: in particolare, il “comparto crediti ristrutturandi”
Occorre innanzitutto segnalare come una piena assimilazione normativa dei “fondi di ristutturazione” (e, in particolare, del “comparto crediti ristrutturandi”) ai fondi di private equity – figura atecnica e “anormativa” che sin qui nella prassi è stata assimilata ai “fondi di turnaround” – non pare pienamente corretta ed, anzi, potrebbe essere foriera, come vedremo, di ricadute disciplinari potenzialmente problematiche. In tal senso occorre subito marcare come differenza tra le due fattispecie la circostanza che mentre i fondi di private equity investono prioritariamente in strumenti finanziari di equity o quasi-equity, i fondi di ristrutturazione investono, per lo meno nella loro fase genetica, prioritariamente anche se non non esclusivamente, in “crediti”; la possibilità, per certi versi fisiologica, che il loro patrimonio venga, nel corso della vita del fondo, investito in strumenti finanziari, soprattutto di equity, o quasi-equity, è legata poi essenzialmente a successive operazioni di “conversione” che, nell’ambito degli strumenti di composizione della crisi d’impresa, risultassero funzionali alla più efficiente ristrutturazione dell’impresatarget debitrice e, quindi, ad una migliore “recovery” dei crediti oggetto di investimento iniziale. Una frettolosa assimilazione tra le due fattispecie, che non apprezzasse correttamente queste differenze, potrebbe far ritenere applicabile, lato banche cedenti/conferenti, una disciplina di vigilanza bancaria che potrebbe talora ingessare la loro partecipazione a queste operazioni (rinviando a quanto si dirà oltre, più diffusamente, al par. 6)[4].
Accingendoci allora alla ricomposizione di una tassonomia oggi non facilmente enucleabile dall’articolato quadro normativo della “gestione collettiva del risparmio”, con l’obiettivo di individuare quali siano le tipologie di fondo nel quale meglio incasellare la fattispecie qui in esame – operazione logica, come detto, preliminare per individuare correttamente la disciplina regolamentare e di vigilanza ad essa applicabile – occorre ricordare innanzitutto come nel vigente quadro legislativo primario non siano esattamente individuabili ben definite “categorie” di fondi sulla base della tipologia di beni in cui il patrimonio risulta investibile, ovvero della filosofia gestoria perseguita; una classificazione di massima degli OICR emerge solo nel Regolamento MEF[5], come poi implementato dalla disciplina di vigilanza di cui al Regolamento GCR[6]. A tal fine, e considerando che – per lo meno in una prima prospettiva analitica che però, vale sin d’ora anticiparlo, apparirà per certi versi fuorviante – l’oggetto tipico di “investimento” dei “fondi di ristrutturazione” pare esser a prima vista individuabile proprio nei “crediti”, (in particolare quelli non-performing, o meglio, under-performing), occorre allora soffermarsi a considerare in primis, e con particolare attenzione, quelle tipologie di OICR (quali oggi rinvenibili o meglio, ricostruibili dal composito tessuto normativo secondario e di vigilanza), che presentino proprio come tipico, programmatico o primario (quando non esclusivo) oggetto di investimento i “crediti”; e da questo punto di vista i “fondi di ristrutturazione” non potranno che essere strutturati necessariamente in forma di FIA chiusi, (potendo poi essere “riservati” o “non riservati”). Ciò premesso, occorre allora e innanzitutto valutare la riconducibilità dei “fondi di ristrutturazione” nel novero della categoria dei « FIA istituiti per realizzare operazioni di cartolarizzazione di crediti ai sensi della legge 30 aprile 1999, n. 130 »; pur potendosi individuare, per lo meno in senso lato, tratti di familiarità tra il fenomeno della cartolarizzazione dei crediti ex l. 30 aprile 1999, n. 130 e quello di un fondo che investa in “crediti” underperforming – a maggior ragione ove tali crediti costituiscano oggetto di iniziale costituzione del patrimonio del fondo per effetto di atti di cessione/conferimento o apporto – non sono tuttavia qui riscontrabili i tratti tipici e tipizzanti della fattispecie della cartolarizzazione “pura”, pur nella sua natura multiforme e cangiante che, come noto, può ben assumere anche la fisionomia del fondo comune di investimento. In particolare, appare del tutto inconciliabile nelle due distinte ipotesi dei “fondi di cartolarizzazione” e dei “fondi di ristrutturazione”, la composizione del substrato patrimoniale che, nei “fondi di cartolarizzazione”, non possono che essere “crediti”, mentre, come abbiamo visto, nei “fondi di ristrutturazione” questo non può affatto ritenersi un tratto tipico e imprescindibile del patrimonio gestito se non, forse e comunque non necessariamente, solo nella fase genetica e iniziale del fondo. Altrettanto, se non più diversa e inconciliabile appare, nelle due fattispecie, la filosofia gestoria applicata al patrimonio oggetto di gestione; nel caso di “fondi di cartolarizzazione”, di natura eminentemente statica e conservativa; nel caso dei “fondi di ristrutturazione”, per natura dinamica ed evolutiva.
Più articolata deve essere l’analisi in merito alla riconducibilità dei “fondi di ristrutturazione” alla fattispecie dei “fondi che investono in crediti”[7] quale può enuclearsi nell’ambito del Regolamento GCR; da tale tipizzazione discenderà l’applicabilità o meno anche ai primi dei vincoli prudenziali colà considerati.
Alla luce di una puntuale analisi della disciplina vigente e di una attenta ricostruzione della sua ratio, appare tuttavia chiaro come, per “fondi che investono in crediti”, debba intendersi una ben specifica tipologia di fondi – sia per natura e composizione del relativo patrimonio, sia per filosofia gestoria perseguita – a cui il “fondo di ristrutturazione” non pare affatto riconducibile, non potendo pertanto ritenersi a quest’ultimo applicabile la medesima disciplina prudenziale prevista per i primi (e che risulta infatti funzionale e coerente con la ben diversa filosofia gestoria solo da questi perseguita). Con la locuzione di “fondi che investono in crediti”, con riguardo all’utilizzo fattone nelle rilevanti disposizioni di cui al Regolamento GCR, devono dunque intendersi quei fondi che tipicamente, o meglio, programmaticamente investono essenzialmente (se non proprio esclusivamente, come invece è imposto per i “fondi di cartolarizzazione” ex l. 30 aprile 1999, n. 130 ) in “crediti”, perseguendo quindi una filosofia gestoria di quei crediti eminentemente di tipo conservativo, finalizzata al loro mero recupero, al loro incasso, con le modalità che di volta in volta potranno risultare le più adeguate in virtù della loro natura performing o non performing. I “fondi di ristrutturazione”, ovvero il loro “comparto crediti ristrutturandi”, alla luce della ricostruzione sopra fatta del loro tipico substrato patrimoniale ( costituito da crediti nella fase genetica e iniziale e da strumenti finanziari di equity o quasi-equity, nel corso della vita del fondo) e della loro peculiare filosofia gestoria (avente ad oggetto più l’impresa debitrice in stato di crisi, piuttosto che i crediti in quanto tali) non ci paiono riconducibili ad alcuna già definita tipologia normativa di fondi. In particolare, avendo riguardo alla ratio delle prescrizioni prudenziali applicabili ai “fondi che investono in crediti”, essa non appare in alcun modo funzionale e compatibile con la ben diversa filosofia gestoria perseguita da un “fondo di ristrutturazione”. Essa, come detto, è per sua natura dinamica e non si pone affatto come esito necessario o principale quello dell’incasso dei crediti, potendo questi essere tipicamente oggetto di rimodulazione delle scadenza, di trasformazione, di conversione in equity e, in ultima analisi, di dismissione anche prima della loro naturale scadenza in vista dell’obiettivo ultimo che è qui individuabile nel risanamento dell’impresa.
4. (Segue), in particolare, il “comparto nuova finanza”
Con l’emanazione del d.l. n. 18 del 14 febbraio 2016 – che introduce nella Parte II, Titolo III, del TUF il nuovo Capo II-quinquies, rubricato « OICR di credito » (nuovi articoli da 46-bis a 46-quater) – è stata definitivamente confermata la possibilità, anche per i FIA (e non solo quelli italiani ma anche, a certe condizioni, quelli UE), di effettuare attività di concessione di finanziamenti, purché a favore di soggetti mutuatari diversi dai consumatori, delineandosene una specifica, per quanto scarna, disciplina (al momento in cui si scrive ancora da completare, per lo meno per i FIA UE, tramite l’emanazione di apposite disposizioni attuative). Occorre, ai nostri fini, osservare come la disciplina del direct lending così introdotta con il recente citato decreto risulti di natura eminentemente “comportamentale”, limitandosi cioè a disciplinare alcune regole di condotta che dovranno adottarsi nello svolgimento di tale attività (essenzialmente prevedendosi che essa possa esser svolta solo nei confronti di soggetti non “consumatori” ed estendendo ad essa la disciplina della trasparenza e i poteri sanzionatori di cui al TUF); non pare invece poter assumere alcuna portata “strutturale”, con riguardo alle caratteristiche “tipologiche” che i fondi che si prefiggono di svolgere quella attività devono presentare. In tal senso, dunque, alla nuova definizione di « OICR di credito », non potrà attribuirsi alcuna innovativa valenza tassonomica, in aggiunta alle categorie tipologiche oggi enucleabili nella normativa secondaria. E allora – ai sensi e per gli effetti di questa limitata disciplina comportamentale – sarà da qualificarsi come « OICR di credito » (che, necessariamente dovrà essere, tipologicamente, un “fondo chiuso”, o meglio un FIA, che potrà essere “riservato” o non riservato”), ogni tipologia di OICR nel momento in cui ,come consentito in via generale e come recepito nella stessa definizione di OICR, esso investa “ in crediti erogati a valere sul patrimonio dell’OICR “; né potrà dunque in alcun modo ricostruirsi oggi una nuova tipologia di “OICR di credito” che, per esser tale, debba avere come oggetto esclusivo o anche solo principale tale attività di “finanziamento”; viceversa, però, nulla esclude che un OICR di credito che “possa” avere come unica “asset class” quella dei “crediti erogati a valere sul proprio patrimonio” e che, quindi, svolga come attività principale o anche esclusiva quella di direct lending.
Con specifico riguardo alla fattispecie qui oggetto di esame – i “fondi di ristrutturazione” – come già visto sopra tale attività di “finanziamento” si aggiungerà tipicamente come accessoria a quella principale di “investimento” del “comparto crediti ristrutturandi”, venendo a costituire l’oggetto di uno specifico “comparto” precipuamente finalizzato a supportare le politiche di “ristrutturazione” rendendo disponibili per le società target la c.d. “nuova finanza” ( essa parendo oggi erogabile in qualsiasi forma tecnica) che rappresenta, in molte di queste operazioni, un tassello imprescindibile per il loro successo. In tale peculiare veste, allora, il “fondo di ristrutturazione” (ovvero il suo “comparto nuova finanza”) potrà esser sicuramente qualificabile (anche) come « OICR di credito » ai sensi e per gli effetti della nuova citata disciplina comportamentale a cui dovrà dunque attenersi nello svolgimento di quell’attività di concessione di “nuova finanza” a supporto delle operazioni di ristrutturazione in cui avrà “investito”; similmente, in tale veste di “OICR di credito”, e con riferimento ai crediti “erogati”, il fondo (ovvero il suo “comparto nuova finanza”) pare riconducibile nell’ambito della categoria tipologica dei “fondi che investono in crediti” e come tale ad esso risulterà allora applicabile la disciplina prudenziale per essi prevista.
5. “Fondi di ristrutturazione” e operazioni di cartolarizzazione: interferenze normative
Come risulterà dall’analisi sin qui svolta – e pur con le rilevanti diversità di disciplina sin qui evidenziate e che ci hanno condotto a escludere la riconducibilità dei “fondi di ristrutturazione” (e in particolare del comparto crediti ristrutturandi) nell’ambito della fattispecie normativa sia dei “ FIA istituiti per realizzare operazioni di cartolarizzazione di crediti ai sensi della legge 30 aprile 1999, n. 130 “ che dei “fondi che investono in crediti” – ci muoviamo qui in un territorio assai contiguo a quello classicamente riferibile alle operazioni di “cartolarizzazione”, posto che oggi il termine pare risultare genericamente riferibile ad un fenomeno giuridico-finanziario che fuoriesce dai confini della l. 30 aprile 1999, n. 130, per abbracciare forme e moduli operativi ben diversi tra loro[8]. La “materia prima” oggetto di intervento, seppur con logiche gestionali ed esiti assai diversi, è in entrambi i casi sempre e principalmente quella dei “crediti” e lo strumento giuridico su cui principalmente si incentra la costruzione di tali operazioni è individuabile nel negozio di “cessione” (nel caso dei “fondi di ristrutturazione” spesso reinterpretato nella forma di “conferimento”); occorre dunque domandarsi se e in che limiti profili di disciplina che condividono una identica ratio e finalità possano dunque ritenersi applicabili in entrambi i casi. In particolare appare ai nostri fini rilevante il disposto dell’art. 7, comma 1, della l. 30 aprile 1999, n. 130; l’esatta delimitazione dell’ambito di applicazione della disciplina ivi estesa anche « alle cessioni di crediti a fondi comuni» non è tuttavia di immediata comprensione. Occorre cioè indagare se essa debba ritenersi riferibile alle sole « cessioni di crediti a fondi comuni » che intervengano nell’ambito di (e siano qualificabili come) “pure” operazioni di cartolarizzazione, articolate ai sensi e per gli effetti della l. 30 aprile 1999, n. 130, ovvero se la previsione normativa in questione possa intendersi come volta ad estendere l’applicazione di limitati spezzoni di quella normativa anche al di fuori delle operazioni tecnicamente qualificabili in senso stretto come “cartolarizzazioni l. 30 aprile 1999, n. 130”.
La ricostruzione storica e sistematica della norma e l’esatta comprensione della sua intima ratio ci induce a ritenere che l’estensione di una limitata parte della disciplina prevista dalla l. 30 aprile 1999, n. 130, ( e in particolare degli artt. 4 e 6, comma 2, richiamati per rinvio dall’art. 7, comma 2-bis), non possa postularsi solo ed esclusivamente in relazione alle “pure” operazioni di cartolarizzazione, ma debba estendersi ad ogni ipotesi in cui, si abbia una « cessione di crediti a favore di fondi comuni », che intervenga nell’ambito di una più ampia “operazione” anche solo latamente di “cartolarizzazione” e ove sia individuabile una identità di ratio che giustifichi l’estensione di quel limitato corpo di norme anche alla diversa fattispecie in questione, seppur evidentemente non ascrivibile tecnicamente al novero delle operazioni di “cartolarizzazione ex l. 30 aprile 1999, n. 130”[9]. Pare allora plausibile e giustificabile che l’operazione programmatica di “cessione/conferimento” di crediti ristrutturandi che costituisce la fase genetica del “fondo di ristrutturazione” – per effetto del richiamo contenuto nell’art. 7, comma 2-bis, l. 30 aprile 1999, n. 130 all’art. 4, comma 1 della medesima legge – possa giovarsi delle formalità semplificate di opponibilità della cessione ai terzi e al debitore ceduto, essendo, come detto, rinvenibile qui la medesima ratio che ha giustificato tale disciplina di favore nell’ambito delle operazione di “cartolarizzazione pura”; analogo discorso ci pare possa farsi con riguardo alla disciplina tributaria richiamata con il rinvio all’art. 6, comma 2 e alla disciplina fallimentare (rectius, delle esenzioni da revocatoria fallimentare) per effetto del rinvio sempre all’art. 4, comma 3.
6. Inquadramento della fattispecie nella prospettiva delle banche conferenti/cedenti
Nella prospettiva delle “banche conferenti/cedenti i crediti” le quali, per effetto di tale schema, verranno a detenere quote del “fondo di ristrutturazione”, l’operazione dovrà esser valutata, inter alia, alla luce della disciplina della separatezza banca-industria, disciplinata oggi nel nostro ordinamento dalla Parte Terza, Capitolo 1, delle Disposizioni di vigilanza per le banche – Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 della Banca d’Italia, come modificata dal 15° Aggiornamento dell’8 marzo 2016 (le “Disposizioni di Vigilanza Banche”). In particolare, occorrerà interrogarsi su come debbano esser trattate le quote del “fondo di ristrutturazione” che venissero ad essere detenute dalla banca per effetto della cessione/conferimento dei crediti, con specifico riguardo all’evenienza – che può ritenersi fisiologica negli scenari di ristrutturazione in cui troverà applicazione la politica gestoria di questa nuova tipologia di fondi – che il “fondo di ristrutturazione” possa venir a detenere, nel corso della sua gestione, partecipazioni di equity nelle società target, per effetto di operazioni di “conversione” dei crediti. Tale fondo potrebbe allora venir ricondotto, perlomeno in prima battuta, nell’ambito dei “veicoli di private equity”, con conseguente applicazione delle norme prudenziali applicabili alle banche in relazione agli “investimenti indiretti in equity” di cui alla Sezione VI delle citate Disposizioni di Vigilanza Banche. In tal senso, al fine di ritenere non direttamente riferibili ad una banca le partecipazioni di equity che siano detenute da “veicoli di private equity” di cui la banca stessa detenga quote, occorrerà verificare la ricorrenza degli articolati requisiti ivi previsti che, in via generale, risultano sicuramente compatibili con quelli che potrebbero essere normalmente riscontrabili in capo ai “fondi di ristrutturazione”. In primis, risulterà qui facilmente verificata l’assenza di alcuna influenza/ingerenza gestoria delle banche sulle decisioni di investimento che sono rimesse esclusivamente all’autonomia decisionale della SGR. Tuttavia – anche laddove alcune specifiche caratteristiche del “fondo di ristrutturazione” non dovessero risultare esattamente compatibili con quelle, assai articolate, che, ai sensi di tale normativa, deve avere un “veicolo di private equity” affinché l’investimento che la banca venga ad assumere in esso non debba comportare la riconducibilità in capo ad essa degli investimenti fatti dal veicolo nelle società target (cosa che potrebbe allora avvenire solo nel rispetto degli specifici limiti di vigilanza relativi all’assunzione di “partecipazioni in imprese non finanziarie”) – un diverso e forse più corretto approccio ermeneutico potrebbe comunque condurre ad esiti altrettanto rassicuranti. E infatti, l’analisi dell’operazione in questione alla luce della citata disciplina degli “investimenti indiretti in “equity” di cui alla Sezione VI delle citate Disposizioni di Vigilanza Banche potrebbe risultare, a questi fini, parziale e affrettata(in tal senso, anche sotto un profilo tipologico, come visto sopra, questa “nuova” tipologia di fondi non risulta affatto, per più versi, riconducibile nell’ambito della tradizionale categoria atecnica dei “fondi di private equity”). Più corretta e sostanzialmente coerente alla politica gestoria di una tale tipologia di “fondo di ristrutturazione”, potrebbe risultare allora la riconducibilità delle partecipazioni che venissero acquisite dal fondo (e, quindi “indirettamente”, in senso lato, delle banche conferenti/quotiste), all’ipotesi della specifica deroga di cui alla Parte Terza, Capitolo 1, Sezione IV, paragr. 2 delle stesse Disposizioni di Vigilanza Banche, riferibile alle “partecipazioni in imprese in temporanea difficoltà finanziaria”. Ciò consentirebbe di evitare comunque che l’investimento da parte delle banche nelle quote del fondo debba essere soppesato alla luce del rispetto dei limiti di vigilanza altrimenti applicabili (limite di concentrazione e limite complessivo), ingessando o inibendo la possibilità di alcune banche di conferire i loro crediti a fronte delle quote del “fondo di ristrutturazione”.
La corretta ricostruzione tipologica dei “fondi di ristrutturazione” pare infine funzionale al corretto inquadramento dell’operazione alla luce dell’articolata disciplina della c.d. “Volcker Rule” nel caso in cui ad essa fossero soggette le banche “conferenti”. In tal caso potrebbe conseguentemente risultare problematico, per esse, acquisire e detenere le quote di un fondo che, ai sensi di tale normativa, dovesse esser qualificabile come “covered fund” (essenzialmente gli hedge fund e i fondi di private equity). La c.d. Volcker rule è infatti un insieme di norme articolate che prevede la separazione tra le attività tradizionali di commercial banking e le attività di investment banking che si inserisce nel corpus normativo, denominato Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act (c.d. Dodd Frank Act) che è stato approvato dal Congresso americano nel 2012 ed è entrato in vigore nel luglio 2012, seppur non sia ancora totalmente operativo (l’attuazione degli elementi fondamentali della legge è stata più volte posticipata; al momento è prevista per il 2017). In tal senso, allora, potrebbe valutarsi la possibilità di far godere il “fondo di ristrutturazione” della esenzione appositamente prevista per le “Loan Securitization”, ai sensi del punto (8), della Section 284.10, (8) del Code of Federal Regulation. Tale esenzione risulta applicabile ove risultino verificati i requisiti ivi dettagliati e che parrebbero ben poter essere riscontrabili con riguardo alla fattispecie del “fondo di ristrutturazione” che stiamo qui esaminando. Né, al contrario, parrebbe potersi sostenere che tale situazione sia oggi riscontrabile, nel nostro ordinamento, solo con riguardo alle c.d. “vere” cartolarizzazioni ex l. 30 aprile 1999, n. 130. Peraltro, come già osservato sopra, al termine cartolarizzazione pare potersi oggi ben attribuire, oltre ad un significato “tecnico” (in senso stretto riconducibile ai rigidi requisiti della l. 30 aprile 1999, n. 130), anche un significato “atecnico” e più ampio che, anche a questi fini, potrebbe rivelarsi più funzionale.
[1] Cfr. Ignazio Visco, intervento al 22° Congresso ASSIOM FOREX, Torino 30 gennaio 2016
[2] Mi sia consentito di rinviare per approfondimenti a P. Carrière, La riformulazione della riserva di attività alla gestione collettiva del risparmio e le sicaf: luci e ombre, in Riv. delle Società, I, 2014, 449; Id., Fondi comuni di investimento tra liquidazione giudiziale e soluzioni negoziali della crisi d’impresa, in Il Fallimento, 2014, 617; Id., La “crisi” dei fondi comuni di investimento: tra autonomia patrimoniale e soggettività, in Riv. dir. soc., 2014; Id., Problemi aperti di fund governance dei fondi chiusi, in Riv. dir. soc., 2011, I, 39 ss.; Id., Dove vanno i fondi comuni di investimento (chiusi): spunti di riflessione su alcune recenti tendenze in atto nel risparmio gestito, in Scritti giuridici per P.G. Marchetti Liber discipulorum, Milano, 2011, 171 ss.; Id., L’ambito applicativo della riserva di attività alla gestione collettiva del risparmio: ricostruzione critica, in Riv. delle Società, I, 2005, 1115 ss.
[3] A tal fine, come già proposto in questa stessa sede, potrebbe oggi essere assai utile pensare, con la necessaria fantasia, ad un meccanismo legale di creditor drag along; un obbligo, cioè, in capo alle banche che siedono attorno ad un tavolo di ristrutturazione nell’ambito di una procedura stragiudiziale, di conferire i propri crediti ad un operatore specializzato, ove così decida la maggioranza delle banche. Si rinvia alle più approfondite riflessioni svolte in M. Bascelli-P. Carrière, Oltre la “bad bank” il “creditor drag along”. L’urgenza di pensare a soluzioni innovative e di sistema per gestire i processi di ristrutturazione, in Dirittobancario.it, Febbraio 2016.
[4] Da valutare alla luce della loro peculiare politica gestoria è l’applicazione ai “fondi di ristrutturazione”, come tipicamente avviene per i fondi di private equity, al ricorrere delle circostanze ivi previste, della disciplina dell’asset stripping di cui al Capo II-quater del Titolo Terzo, Parte II del TUF.
[5] D.M. n. 30 del 5 marzo 2015.
[6] Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio, adottato da Banca d’Italia con Provvedimento del 19 gennaio 2015.
[7] Fattispecie talora sinteticamente qualificata come “fondi di crediti”, con locuzione che però oggi si presta a facile confusione rispetto alla fattispecie, di nuovo conio normativo, dei “fondi (o OICR) di credito”, di cui al nuovo Capo II-quinquies del Titolo Terzo, Parte II del TUF, su cui si rimanda al prossimo paragrafo.
[8] Cfr., recentemente e in maniera assai convincente e condivisibile anche L. Carota, La cartolarizzazione dei crediti, in F. Galgano (opera ideata e diretta da), Le operazione di finanziamento, Torino, 2016, 957 (nota 185).
[9] Id., La cartolarizzazione dei crediti, op. cit., 957.