1. Premessa
Il Disegno di Legge di Bilancio 2021 approvato il 16 novembre 2020 dal Consiglio dei Ministri contiene una disposizione molto attesa fra gli operatori finanziari attivi nel settore del private equity che si propone di porre rimedio (almeno in parte) ad una ingiustificata discriminazione che ha finora penalizzato i fondi esteri rispetto agli omologhi fondi d’investimento istituiti in Italia.
Per comprendere l’origine del problema occorre evidenziare che, per effetto delle modifiche introdotte dal D.L. n. 255/2010, gli organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR) istituiti in Italia, pur essendo ricompresi in linea di principio tra i soggetti passivi dell’IRES di cui all’art. 73 del T.U.I.R., non scontano di fatto alcuna imposizione sui propri redditi (ivi inclusi i dividendi e i capital gain) in quanto espressamente esonerati dalle imposte sui redditi, ai sensi del comma 5-quinquies del medesimo art. 73, a condizione che l’organismo collettivo, ovvero il soggetto incaricato della sua gestione, sia sottoposto a forme di vigilanza prudenziale. Inoltre, i fondi, qualificandosi come soggetti “lordisti”, salvo talune eccezioni, non subiscono alcuna ritenuta sui redditi di capitale percepiti. Pertanto, ai dividendi distribuiti da società italiane a favore di fondi regolamentati istituiti in Italia non si applica la ritenuta di cui all’art. 27 del D.P.R. n. 600/1973.
Viceversa, i dividendi corrisposti da società residenti a favore di OICR esteri restano soggetti a ritenuta alla fonte, a titolo d’imposta, nella misura del 26% ai sensi dell’art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973. Parimenti, sono assoggettate ad imposizione in Italia le plusvalenze realizzate per effetto della vendita di partecipazioni in società residenti, ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. f) del T.U.I.R.[1].
La suddetta discriminazione a danno dei fondi esteri, rappresentando una ingiustificata lesione delle libertà fondamentali sancite dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (di seguito il “Trattato” o “TFUE”), era stata da tempo denunciata alla Commissione Europea, la quale aveva avviato un’iniziativa investigativa presso le competenti Autorità italiane (EU PILOT 8105/15/TAXU) volta a verificare – prima dell’avvio formale di una procedura di infrazione – la disponibilità ad adeguare spontaneamente la normativa interna per eliminare il contrasto con i principi comunitari. Iniziativa che, da ultimo, si è tradotta nella modifica normativa in commento.
Nella prima parte del presente contributo, si ripercorrono i principi sanciti dalla giurisprudenza comunitaria che non solo con riferimento ai fondi d’investimento, ma anche nel caso di società e fondi pensione esteri, ha censurato la normativa di alcuni Stati membri in quanto, trattando diversamente i soggetti localizzati nel territorio dello Stato rispetto a quelli esteri, costituiva una ingiustificata restrizione alle libertà fondamentali sancite dal Trattato.
Nella seconda parte, invece, si analizza la nuova disposizione contenuta nel Disegno di Legge di Bilancio 2021 al fine di verificare se tale disposizione abbia adeguato la normativa domestica ai principi comunitari ovvero se permangano profili di incompatibilità che richiederebbero un ulteriore intervento legislativo.
2. La discriminazione dei fondi di investimento estero nella giurisprudenza comunitaria
La Corte di Giustizia, nell’ambito degli interventi volti ad eliminare le restrizioni alle libertà sancite dal Trattato, ha censurato la normativa di numerosi Stati membri che trattavano in modo differente i fondi residenti rispetto a quelli istituiti all’estero, dichiarandola incompatibile con le libertà fondamentali sancite dal Trattato e, in particolare, con la libera circolazione dei capitali di cui all’art. 63 del TFUE[2].
I giudici comunitari, in particolare, hanno affermato che una normativa nazionale che esonera da imposizione – a certe condizioni – i fondi istituiti sul proprio territorio mentre preleva una ritenuta sui dividendi distribuiti da società residenti a favore di fondi esteri costituisce una restrizione alla libera circolazione dei capitali in quanto è idonea a dissuadere, da un lato, i fondi esteri dall’effettuare investimenti in società residenti e, dall’altro, gli investitori residenti dal sottoscrivere quote di fondi esteri[3].
Quanto alla comparabilità, la Corte di Giustizia ha ulteriormente precisato che nei casi – come quello italiano – in cui l’esenzione prevista dalla normativa nazionale a favore dei fondi italiani non è subordinata ad un obbligo di redistribuzione a favore dei detentori delle quote del fondo, il confronto finalizzato ad accertare la sussistenza di una discriminazione deve essere effettuato unicamente al livello del fondo, senza prendere in considerazione anche la situazione dei titolari delle quote[4].
L’argomento concernente la verifica del carico fiscale in capo agli investitori non è stato ritenuto neppure una motivazione sufficiente a giustificare una restrizione alle libertà fondamentali nell’ottica di preservare la coerenza del regime fiscale. Ed infatti, secondo una costante giurisprudenza, un argomento fondato su siffatta giustificazione può essere accolto solo se venga dimostrata l’esistenza di un nesso diretto tra l’agevolazione fiscale concessa e la compensazione della stessa con un determinato prelievo fiscale. Tale nesso, tuttavia, è assente laddove – com’è anche nel caso italiano – l’esenzione dalla ritenuta alla fonte accordata ai dividendi di origine nazionale ricevuti da OICR residenti non sia subordinata alla condizione che tali dividendi siano redistribuiti ed assoggettati a tassazione in capo ai titolari delle quote del fondo[5].
Peraltro, con riferimento ad un caso in cui il beneficio dell’esenzione era subordinato alla condizione che l’OICR residente operasse una distribuzione minima, reale o fittizia, a favore dei detentori di quote, i quali sono debitori di una ritenuta prelevata a loro nome da detti organismi, la Corte ha ritenuto che il fatto di riservare ai soli OICR residenti la possibilità di beneficiare dell’esenzione costituisse comunque una misura non proporzionata che eccede quanto necessario al fine di garantire la coerenza del regime fiscale. Ed infatti, la coerenza interna del sistema fiscale avrebbe potuto essere mantenuta più semplicemente riconoscendo l’esenzione dalla ritenuta alla fonte anche agli OIRC esteri, subordinandola alla condizione che le autorità fiscali nazionali si accertino, con la piena collaborazione di tali organismi di investimento, che questi ultimi versino un’imposta equivalente a quella che sarebbe stata prelevata in capo ad un OICR residente sulla distribuzione minima calcolata in conformità alla normativa domestica[6].
La modifica normativa indotta dalla giurisprudenza prima brevemente richiamata si pone in linea con quanto già accaduto con riferimento ai dividendi distribuiti a favore di società residenti in altri Stati membri dell’Unione europea o negli Stati aderenti all’Accordo SEE per i quali oggi si applica la ritenuta dell’1,2%[7], in luogo di quella originariamente prevista pari al 27%. Anche in quella occasione, la finalità della modifica normativa era “essenzialmente quella di livellare il carico impositivo gravante sui dividendi corrisposti a soggetti residenti nella UE e nel SEE a quello gravante sui dividendi corrisposti a soggetti residenti, conformemente al principio di non discriminazione e alle libertà fondamentali di stabilimento e di circolazione dei capitali”[8].
Nello stesso senso, si pone la modifica normativa – anche questa originata da una procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea nei confronti dell’Italia[9] – volta ad allineare il regime dei dividendi percepiti da fondi pensioni esteri a quello applicabile in capo ai fondi pensione italiani.
Prima della modifica normativa, la tassazione dei dividendi di fonte italiana discriminava fra (i) fondi pensione di diritto italiano e (ii) fondi pensione di diritto estero:
- i primi, infatti, non subivano (e continuano a non subire) alcuna ritenuta[10], con il risultato che i dividendi rientra(va)no nel risultato netto maturato della gestione, soggetto a imposta sostitutiva con aliquota dell’11%[11];
- i secondi, invece, erano soggetti alla ritenuta prevista dall’art. 27, comma 3 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 per gli azionisti non residenti nella misura (allora vigente) del 27%.
La maggiore tassazione dei fondi pensione esteri rispetto a quelli italiani comportava una restrizione della libera circolazione dei capitali in quanto da un lato dissuadeva tali fondi dall’investire in società italiane e, dall’altro, rendeva più difficile per le società italiane attirare i capitali dei fondi pensione esteri.
Tale discriminazione è stata eliminata prevedendo la riduzione all’11% dell’aliquota della ritenuta sugli utili corrisposti ai fondi pensione istituiti negli Stati membri dell’Unione europea e negli Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo inclusi nella lista di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’art. 168-bis del T.U.I.R.[12][13].
Più in generale, il costante sforzo della Commissione di combattere simili forme di discriminazione a danno degli investitori stranieri è testimoniato dal recente avvio di una procedura di infrazione nei confronti della Francia. La Commissione, in particolare, ha inviato una lettera di costituzione in mora alla Francia invitandola ad adeguare la propria legislazione in materia di tassazione delle plusvalenze realizzate dai fondi di investimento esteri. La discriminazione evidenziata dalla Commissione discende dal fatto che quando un fondo d’investimento estero vende la propria partecipazione in una società francese, le plusvalenze sono imponibili se la quota è stata superiore al 25% della società in qualsiasi momento negli ultimi cinque anni, mentre le plusvalenze realizzate da analoghi fondi di investimento francesi sono esentate dal pagamento di tale imposta.
3. La nuova disposizione introdotta dal Ddl di Bilancio
Come anticipato, il Ddl di Bilancio interviene sia sul regime fiscale dei dividendi sia su quello delle plusvalenze per allineare la tassazione applicabile ai fondi di diritto estero, istituiti in Stati membri dell’Unione europea o in Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo (SEE) che consentono un adeguato scambio di informazioni, a quella vigente per i fondi istituti in Italia. In particolare:
- relativamente ai dividendi, il comma 1 dell’art. 109 del Ddl modifica l’art. 27, comma 3 del D.P.R. prevedendo che “La ritenuta di cui al primo periodo non si applica sugli utili corrisposti a organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR) di diritto estero conformi alla direttiva 2009/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 2009, e a OICR, non conformi alla direttiva 2009/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 2009, il cui gestore sia soggetto a forme di vigilanza nel Paese estero nel quale è istituito ai sensi della direttiva 2011/61/UE del Parlamento e del Consiglio, dell’8 giugno 2011, istituiti negli Stati membri dell’Unione europea e negli Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo che consentono un adeguato scambio di informazioni”;
- il Ddl interviene anche sul regime delle plusvalenze estendendo, ai medesimi soggetti di cui al comma 1, l’esenzione già prevista per le plusvalenze realizzate dagli OICR istituiti in Italia derivanti dalle partecipazioni qualificate in società italiane.
Seppur lodevole, la modifica proposta non risolve del tutto il contrasto con la normativa comunitaria, lasciando aperte due questioni: la prima attiene all’entrata in vigore della modifica la quale è limitata ai dividendi percepiti e alle plusvalenze realizzate a decorrere dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni; la seconda riguarda l’ambito applicativo delle modifiche che risulta limitato ai fondi istituiti in Stati membri dell’UE o in Stati aderenti al SEE che consentono un adeguato scambio di informazioni escludendo, invece, i fondi extra-UE.
3.1 Decorrenza delle modifiche
Relativamente al primo aspetto, si osserva che la questione concernente l’efficacia temporale di una modifica normativa introdotta dal legislatore nazionale per prevenire la declaratoria di incompatibilità da parte della Corte di Giustizia si è già posta, esattamente negli stessi termini, con riferimento alle modifiche, prima richiamate, recate al regime dei dividendi distribuiti a favore di società UE/SEE dall’art. 1, comma 67, della L. 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008) mediante l’introduzione nell’art. 27 del D.P.R. n. 600/1973 del comma 3-ter che ha ridotto la misura della ritenuta allineandola al livello di tassazione subita dai dividendi percepiti da società italiane. Anche in quel caso, infatti, ai sensi del successivo comma 68 dello stesso art. 1, l’applicazione della nuova ritenuta in misura ridotta era limitata “agli utili formatisi a partire dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007”.
Successivamente, la Corte di giustizia, con sentenza del 19 novembre 2009, emessa nella causa C-540/07, ha stabilito che “La Repubblica italiana, avendo assoggettato i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri ad un regime fiscale meno favorevole di quello applicato ai dividendi distribuiti alle società residenti, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 56, n. 1, CE [libera circolazione dei capitali, n.d.r.]”[14].
I Giudici europei hanno, inoltre, affermato che “l’interpretazione che la Corte, nell’esercizio della competenza attribuitale dall’art. 234 CE, fornisce di una norma di diritto comunitario chiarisce e precisa il significato e la portata della norma stessa, quale deve o avrebbe dovuto essere intesa ed applicata sin dal momento della sua entrata in vigore …, a meno che la Corte non abbia limitato per il passato la possibilità di invocare la disposizione così interpretata …”[15].
A seguito della pubblicazione della richiamata sentenza, l’Amministrazione finanziaria nella Circolare n. 32/E 8 luglio 2011 ha espressamente riconosciuto che, al fine di dare piena ed effettiva applicazione all’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia, la nuova disposizione dovesse applicarsi anche ai dividendi formatisi prima del 1° gennaio 2008, a prescindere dalla decorrenza prevista dal comma 68 dell’art. 1 della finanziaria 2008.
Con riferimento alle sentenze interpretative dalla Corte di Giustizia, si ricorda che, secondo costante giurisprudenza, “Solo in via eccezionale, applicando il principio generale della certezza del diritto inerente all’ordinamento giuridico comunitario, la Corte può essere indotta a limitare la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata onde rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede”[16]. Più in dettaglio, la Corte ha limitato gli effetti nel tempo delle proprie sentenze, in via eccezionale, soltanto in presenza delle seguenti condizioni:
- se “vi era un rischio di gravi ripercussioni economiche dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa ritenuta validamente vigente”; e
- se “i singoli e le autorità nazionali [siano] stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa comunitaria a causa di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni comunitarie, incertezza alla quale avevano eventualmente contribuito gli stessi comportamenti tenuti da altri Stati membri o dalla Commissione”[17].
Ora, nel caso di specie, quand’anche fosse verificata la prima condizione, non sembra affatto sussistere quella “rilevante incertezza” che avrebbe potuto generare affidamento da parte dell’Amministrazione finanziaria la quale potrebbe sostenere di essere stata indotta a pensare di agire correttamente seguendo, ad esempio, un consolidato orientamento (derivante dalla mancanza di giurisprudenza comunitaria o da contrastanti comportamenti adottati dalle istituzioni comunitarie). Semmai è vero il contrario. In primo luogo, la Commissione aveva – già da tempo – evidenziato allo Stato italiano l’incompatibilità della normativa nazionale con i principi comunitari invitando le competenti Autorità ad adeguare spontaneamente la normativa interna onde prevenire l’avvio di una formale procedura di infrazione. Inoltre, la Corte di Giustizia, con orientamento costante, in numerose controversie aventi ad oggetto fattispecie similari aveva già reso la sua interpretazione pronunciandosi sull’illegittimità di una normativa che – come quella di cui si discute – comportasse una discriminazione a danno dei fondi esteri rispetto ad analoghi organismi di investimento nazionali[18]. Di conseguenza, nel caso in esame, i principi di tutela dell’affidamento e di effettività dovrebbero confermare semmai l’applicazione retroattiva della nuova disposizione, dichiarando l’incompatibilità con le libertà fondamentali della restrizione derivante dal diverso trattamento fiscale applicato ai dividendi distribuiti a favore di fondi istituti all’estero rispetto a quelli nazionali.
Va tuttavia precisato che, nell’interesse preminente della certezza del diritto, la portata retroattiva delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia (ma lo stesso principio dovrebbe valere laddove uno Stato membro si adegui spontaneamente riconoscendo il contrasto della normativa interna con quella comunitaria) non incide sui c.d. rapporti esauriti, fermo restando il diritto dei contribuenti di chiedere a rimborso le imposte prelevate in contrasto con i principi comunitari quando non siano scaduti gli ordinari termini di decadenza delle azioni di rimborso[19].
Inoltre, come discusso più ampiamente al successivo paragrafo 4, la modifica normativa potrebbe incidere sulla soluzione dei contenziosi pendenti aventi ad oggetto i dividendi e le plusvalenze conseguiti da holding comunitarie facenti capo indirettamente a fondi UE regolamentati.
3.2 Estensione ai Paesi extra-UE
L’altra questione attiene alla possibilità per i fondi esteri extra-UE di far valere la discriminazione. Posto che la norma interna che esenta dalle imposte sui redditi i fondi italiani assoggettati a vigilanza non opera distinzioni in funzione dell’entità della partecipazione da cui scaturiscono i dividendi o in relazione alla quale è realizzata la plusvalenza, la fattispecie in esame dovrebbe ricadere nell’ambito di applicazione della libertà di circolazione dei capitali (e non di quella di stabilimento[20]), con la conseguenza che eventuali restrizioni possono essere invocate anche da fondi istituiti in Paesi terzi[21].
Tale conclusione dovrebbe valere sia con riferimento alla discriminazione relativa al trattamento fiscale dei dividendi sia con riferimento alle plusvalenze. A quest’ultimo proposito, in particolare, non dovrebbe rilevare la circostanza che, con riferimento alle plusvalenze realizzate per effetto della vendita di partecipazioni detenute in società italiane, la discriminazione a danno dei fondi esteri localizzati in Paesi White list si verifica solo con riferimento alle partecipazioni c.d. “qualificate”, mentre le plusvalenze relative alle partecipazioni non “qualificate” sono esonerate da imposizione in Italia ai sensi dell’art. 5, comma 5del D.Lgs. n. 461/1997. Ed infatti, ai sensi dell’art. 67, comma 1 lett. c) del T.U.I.R. si considerano qualificate le partecipazioni che rappresentano un percentuale di diritti di voto superiore al 2 o al 20 per cento ovvero una partecipazione al capitale o patrimonio superiori al 5 o al 25 per cento a seconda che si tratti di titoli negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni. Una partecipazione di tale entità, tuttavia, non consente di presumere che il suo titolare eserciti una sicura influenza sulle decisioni della società partecipata[22], con la conseguenza che per determinare la libertà applicabile occorre prendere in considerazione l’oggetto della normativa[23].
Il fatto che la nuova norma prenda espressamente in considerazione solo i fondi istituiti in altri Stati membri dell’Unione Europea o aderenti al SEE è presumibilmente da ascriversi al fatto che – a quanto ci consta – il procedimento prima citato (EU PILOT 8105/15/TAXU) avviato nei confronti dell’Italia ha riguardato solo i fondi UE/SEE. Tuttavia, anche al fine di prevenire ulteriori procedimenti di infrazione, sarebbe auspicabile che la modifica normativa in commento fosse estesa anche ai fondi esteri istituiti in Stati terzi.
In altri casi, si è tentato di sostenere che, in assenza di convenzioni fiscali che prevedano una reciproca assistenza amministrativa, la restrizione ai movimenti di capitali nei confronti di Stati terzi dovrebbe essere giustificata dall’esigenza di garantire l’efficacia dei controlli fiscali. Tale obiezione, per quanto in linea di principio condivisibile, non sembra tuttavia valida con specifico riferimento al caso in esame.
Il tema è stato già affrontato dalla Corte di Giustizia nella sentenza C-190/12, DFA avente ad oggetto il caso di un fondo con sede negli Stati Uniti che aveva investito in partecipazioni di società di capitali con sede in Polonia. In quella sede, la Corte ha evidenziato che “la giustificazione attinente alla necessità di garantire l’efficacia dei controlli fiscali è ammissibile unicamente qualora la normativa di uno Stato membro subordini il beneficio di un vantaggio fiscale al rispetto di requisiti la cui osservanza possa essere verificata unicamente ottenendo informazioni dalle competenti autorità di uno Stato terzo e qualora, in considerazione dell’assenza di un obbligo convenzionale, a carico di detto Stato terzo, di fornire informazioni, risulti impossibile ottenere chiarimenti dal medesimo (v. sentenza Haribo Lakritzen Hans Riegel e Österreichische Salinen, cit., punto 67 e la giurisprudenza citata)”[24].
Tale giustificazione, secondo la Corte, non può essere però invocata quando “esiste un contesto normativo di reciproca assistenza amministrativa … che consente lo scambio di informazioni che risultino necessarie ai fini dell’applicazione della normativa tributaria”[25].
Nel caso in esame, considerato che la nuova norma subordina l’esonero dei dividendi (e delle plusvalenze) alla condizione che i fondi esteri siano conformi alla Direttiva 2009/65/CE (c.d. Direttiva UCITS) o, in caso di fondi non conformi alla predetta direttiva, che il fondo (rectius: il soggetto deputato alla gestione) sia soggetto a forme di vigilanza nel Paese estero nel quale è istituito ai sensi della Direttiva 2001/61/UE (c.d., Direttiva AIFMD), il medesimo regime fiscale dovrebbe essere esteso a tutti quei fondi esteri istituiti in Paesi che garantiscono un adeguato scambio di informazioni con l’Italia in grado di garantire la possibilità di verificare che l’organismo non residente, stante le sue caratteristiche, sia qualificabile alla stregua di un organismo collettivo di investimento e che il suo gestore sia assoggettato a forme di vigilanza sostanzialmente equivalenti a quelle previste dalla normativa comunitaria in tema di fondi armonizzati ovvero di fondi alternativi.
A questo ultimo proposito, si evidenzia che – seppure con riferimento ad ambiti diversi – in più di una occasione l’Amministrazione finanziaria ha chiarito che per qualificare una determinata entità estera alla stregua di un OICR occorre verificare che tale entità presenti i requisiti sostanziali nonché le stesse finalità dei fondi di investimenti italiani[26]. In particolare, tale verifica è stata condotta partendo dalla definizione contenuta nel Testo Unico della Finanza la quale evidenzia “quali caratteristiche imprescindibili, la funzione economica dell’OICR, ossia la gestione collettiva del risparmio raccolto tra una pluralità di investitori e l’autonomia delle scelte di gestione della società di gestione rispetto all’influenza dei partecipanti”[27].
Quanto al requisito della vigilanza si rammenta che, già in altre occasioni, l’Amministrazione finanziaria ha positivamente valutato la circostanza che la società di gestione del fondo fosse assoggettata a forme di vigilanza prudenziale da parte delle Autorità dei Paesi extra-comunitari nei quali erano istituite[28].
4. Le implicazioni della nuova disposizione sul contenzioso pendente e sull’attività di accertamento nei confronti delle holding comunitarie
La nuova disposizione, oltre ad applicarsi ai dividendi e alle plusvalenze conseguiti da fondi esteri che detengono direttamente una partecipazione in una società italiana, dovrebbe essere destinata ad influenzare, in via indiretta, anche il caso di fondi esteri che partecipano in società italiane per il tramite di sub-holding localizzate in altri Stati membri.
È noto, infatti, che in linea con le indicazioni diramate nella Circolare n. 6 del 30 marzo 2016 nel caso di dividendi incassati (o plusvalenze realizzate) da una società madre comunitaria partecipata in ultima istanza da un fondo estero, l’Agenzia delle Entrate “in presenza di una struttura intermedia d’investimento priva di sostanza economica, nel suo complesso o con riferimento alla singola transazione, in mancanza di ragioni extra fiscali non marginali, [ritiene che] i benefici fiscali indebiti, conseguiti per mezzo della stessa, poss[a]no essere disconosciuti applicando il regime ordinariamente previsto per il fondo (nell’ipotesi di investimento diretto)”. Tale interpretazione, come espressamente chiarito nella citata circolare si fonda sull’applicazione “delle disposizioni antielusive, specifiche o generali, previste dall’ordinamento nazionale, comunitario o convenzionale” le quali consentono di “contrastare il fenomeno di interposizione nel pieno rispetto delle libertà fondamentali”.
Non è questa la sede per approfondire il dibattito sul (presunto) utilizzo abusivo delle holding europee[29]. Dovrebbe essere però ormai evidente che se, a seguito di una espressa modifica normativa come quella in commento, i fondi esteri possono beneficiare dell’esonero da imposizione in Italia laddove percepiscano direttamente i relativi dividendi (o realizzino le plusvalenze), non dovrebbe residuare spazio per contestazioni fondate sul principio dell’abuso mancandone uno dei presupposti essenziali, ossia il conseguimento di un risparmio fiscale.
In virtù della portata interpretativa del principio sancito dalla nuova disposizione, tale principio dovrebbe contribuire non solo ad arginare (per il futuro) eventuali accertamenti a carico delle holding europee controllate da fondi esteri, ma dovrebbe estendersi anche a tutte le fattispecie pregresse già oggetto di accertamento ed ancora non risolte con sentenza passata in giudicato. Ne consegue che l’Amministrazione finanziaria dovrebbe abbandonare tutti i contenziosi attualmente pendenti che scaturiscono da accertamenti in cui sia stato contestato alla holding intermedia la possibilità di beneficiare dell’esonero da imposizione in base alla Direttiva madre-figlia (nel caso dei dividendi) ovvero in cui sia stata negata l’applicazione della Convenzione al fine di esonerare da imposizione le plusvalenze derivanti dalla cessione di una partecipazione in una società italiana; e ciò, a prescindere da qualsiasi valutazione in merito alle motivazioni economiche o commerciali che giustificano la costituzione della predetta holding.
Da ultimo, si osserva che, trattandosi di un ostacolo alla libera circolazione dei capitali, la discriminazione – come argomentato più in dettaglio al precedente paragrafo 3.2 – può essere fatta valere anche dai fondi extra-UE. Pertanto, la circostanza che la nuova norma riconosca (e ponga conseguente rimedio a) una discriminazione a danno dei soli fondi UE/SEE, non deve indurre a ritenere che il legislatore abbia deliberatamente voluto mantenere un trattamento differenziato per i fondi extra-UE ritenendolo conforme ai principi comunitari. Ed infatti, la mancata estensione delle modifiche normative anche ai fondi istituiti in Paesi terzi ben può essere ascrivibile – come già detto – al fatto che la modifica normativa risponde all’indagine della Commissione Europea che aveva ad oggetto solo i fondi UE/SEE ovvero a meri vincoli di copertura finanziaria che hanno impedito (ma non giustificano) di dare piena attuazione alla normativa comunitaria.
[1] Fanno eccezione le plusvalenze relative a partecipazioni non qualificate in società quotate di cui all’art. 23, comma 1, lett. f), n. 1) del T.U.I.R. e le plusvalenze relative a partecipazioni non qualificate realizzate da soggetti White List ai sensi dell’art. 5, comma 5, del D.Lgs. n. 461/1997. Tali fattispecie però generalmente non ricorrono nel caso dei fondi di private equity i quali di norma effettuano investimenti in partecipazioni di controllo o di minoranza qualificata tali da attribuire al titolare il potere di partecipare attivamente alla gestione della partecipata.
[2] Cfr., sentenza del 18 giugno 2009, C-303/07, Aberdeen; sentenza 10 maggio 2012, Santander da C-338/11 a C-347/11; sentenza 10 aprile 2014, C-190/12 DFA; sentenza 21 giugno 2018, C-480/16, Fidelity Funds; sentenza 30 gennaio 2020, C-156/17, Ka Deka.
[3] Cfr., sentenza 21 giugno 2018, C-480/16, Fidelity Funds, punto 44 e sentenza 10 maggio 2012, Santander da C-338/11 a C-347/11, punto 17.
[4] Cfr., sentenza 10 maggio 2012, Santander da C-338/11 a C-347/11, punto 39.
[5] Cfr., sentenza 10 maggio 2012, da C-338/11 a C-347/11, Santander, punti da 51 a 53.
[6] Cfr., sentenza 21 giugno 2018, C-480/16, Fidelity Fund, punti 83 e 84.
[7] Si veda art. 27, comma 3-ter, D.P.R. n. 600/1973 introdotto dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244.
[8] Cfr., Circolare n. 26/ del 21 maggio 2009. Si rammenta che – anche allora – la modifica normativa era stata introdotta a seguito di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea nei confronti dell’Italia in relazione al trattamento discriminatorio dei dividendi. Nonostante la modifica normativa operata dall’Italia mediante l’introduzione del citato comma 3-ter, la Commissione proponeva ricorso alla Corte di Giustizia in quanto l’Italia aveva mantenuto un regime fiscale più oneroso per i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri o degli Stati aderenti al SEE prima dell’entrata in vigore della modifica normativa. Alla denuncia seguiva il ricorso alla Corte di Giustizia che confermava la posizione della Commissione con la sentenza 19 novembre 2009, C-540/07, Commissione UE verso Repubblica Italiana, autorizzando il rimborso delle maggiori ritenute prelevate prima dell’adeguamento della normativa interna ai principi comunitari.
[9] Commissione UE comunicato stampa del 23 luglio 2007, IP/07/1152.
[10] Cfr., Circolare 16 giugno 2004, n. 26/E, in cui si precisa che “tale regime fiscale [la ritenuta sui dividendi] non si ritiene applicabile a quegli enti non commerciali che determinano le imposte sulla base di discipline speciali, quali ad esempio i fondi pensione che sono soggetti ad un’imposta sostitutiva dell’11% sul risultato maturato della gestione ai sensi del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 e per i quali gli utili concorrono a formare detto risultato senza subire alcuna ritenuta alla fonte”.
[11] La misura dell’imposta sostitutiva è stata aumentata e attualmente si applica con l’aliquota del 20%.
[12] Modifica operata dalla L. 7 luglio 2009, n. 88 (Legge Comunitaria 2008), il cui art. 24, commi da 1 a 3 ha modificato l’art. 27, comma 3 del D.P.R., n. 600/1973.
[13] L’art. 168-bis del T.U.I.R. demandava ad un decreto (mai emanato) l’individuazione degli Stati o territori che consentono un adeguato scambio di informazioni con l’Italia. Successivamente, l’art. 168-bis del T.U.I.R. è stato abrogato dall’art. 10, comma 1, del D.Lgs. n. 147 del 14 settembre 2015 ed il medesimo art. 10, al successivo comma 3, ha stabilito che, a seguito di tale abrogazione, quando leggi, regolamenti, decreti o altre norme o provvedimenti fanno riferimento alla lista di Stati e territori che consentono un adeguato scambio di informazioni di cui al predetto art. 168-bis, “il riferimento si intende ai decreti emanati in attuazione dell’articolo 11, comma 4, lettera c), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239”. In ragione di ciò, pertanto, occorre fare riferimento alla lista di cui al D.M. 4 settembre 1996 come successivamente integrata e modificata.
[14] Cfr., sentenza 19 novembre 2009, C-540/07, Commissione UE verso Repubblica Italiana, punto 64.
[15] Cfr., sentenza 19 novembre 2009, C-540/07, Commissione UE verso Repubblica Italiana, punto 63.
[16] Cr., sentenza 6 marzo 2007, C-292/04, Meilicke, punto 35 e giurisprudenza ivi citata.
[17] Cfr., sentenza 15 marzo 2005, C-209/03, Bidar.
[18] Cfr., le sentenze citate alla precedente nota 2.
[19] Si veda, sentenza 15 settembre 1998, C-231/96, Edis nella quale si precisa che “15. Secondo una giurisprudenza costante, l’interpretazione di una norma di diritto comunitario data dalla Corte nell’esercizio della competenza ad essa attribuita dall’art. 177 chiarisce e precisa, quando ve ne sia il bisogno, il significato e la portata della norma, quale deve, o avrebbe dovuto, essere intesa ed applicata dal momento della sua entrata in vigore. Ne risulta che la norma così interpretata può e deve essere applicata dal giudice anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa se, per il resto, sono soddisfatte le condizioni che permettono di portare alla cognizione dei giudici competenti una controversia relativa all’applicazione di detta norma (v., in particolare, sentenze 27 marzo 1980, causa 61/79, Denkavit italiana, Racc. pag. 1205, punto 16, e 13 febbraio 1996, cause riunite C-197/94 e C-252/94, Bautiaa e Société française maritime, Race. pag. 1-505, punto 47).
- Da quanto precede discende che, benché gli effetti di una sentenza interpretativa della Corte retroagiscano normalmente sino alla data di entrata in vigore della norma interpretata, perché quest’ultima venga applicata dal giudice nazionale a fatti precedenti a tale sentenza occorre inoltre che siano state rispettate le modalità processuali nazionali, di natura sia sostanziale sia formale, stabilite per agire in giudizio.
- Del resto, risulta da una giurisprudenza consolidata che, in mancanza di disciplina comunitaria in materia di ripetizione di tributi nazionali indebitamente riscossi, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario, fermo restando che le dette modalità non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (citate sentenze Rewe, punto 5, Comet, punti 13 e 16, e, più di recente, 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, Race, pag. 1-4599, punto 12)”.
La questione della decorrenza dei termini di decadenza per le azioni di rimborso di una imposta dichiarata in contrasto con il diritto UE è stata affrontata anche dalla Cassazione a Sezioni Unite (sentenza 16 giugno 2014 n. 13676) la quale ha chiarito che il principio di certezza delle situazioni giuridiche (tanto più cogente in materia di entrate tributarie) impedisce di rimettere in discussione i rapporti c.d. esauriti ovvero qualsiasi situazione o rapporto giuridico che sia divenuto irretrattabile per lo spirare di termini di prescrizione o di decadenza, per l’intervento di una sentenza passata in giudicato o per altri motivi previsti dalla legge. Sulla base di tale premessa, quanto alla data da cui decorre il termine di decadenza per il diritto al rimborso, la stessa Cassazione – risolvendo un precedente contrasto – si è espressa nel senso che il suddetto termine decorre dal giorno del pagamento rivelatosi successivamente indebito (e non dalla data della pronuncia della Corte che dichiara l’incompatibilità della normativa nazionale con il diritto UE).
[20] Nel caso in esame dovrebbe escludersi una restrizione alla libera prestazioni di servizi. Infatti, la Corte di giustizia, nella sentenza del 21 giugno 2018, C-480/16, Fidelity Fund, con riferimento ad una vicenda analoga avente ad oggetto il trattamento fiscale di dividendi percepiti dagli OICVM, ha precisato che “ammesso che la normativa di cui trattasi nel procedimento principale abbia l’effetto di vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di un OICVM con sede in uno Stato membro diverso dal Regno di Danimarca, ove fornisce legittimamente servizi analoghi, siffatti effetti sarebbero l’inevitabile conseguenza del trattamento fiscale di cui sono oggetto i dividendi versati a tale OICVM non residente in Danimarca e non giustificano un esame autonomo alla luce della libera prestazione dei servizi”.
[21] Si rammenta che la libera circolazione dei capitali è l’unica delle quattro libertà fondamentali che si estende anche agli Stati terzi.
[22] Si veda, in relazione alla titolarità di un terzo delle azioni di una società, sentenza 13 aprile 2000, C-251/98, Baars; su partecipazioni nella misura del 10%, anche sentenza 3 ottobre 2013, C-282/12, Itelcar e 11 settembre 2014, C-47/12, Kronos International.
[23] Si veda, in tal senso, sentenza del 13 novembre 2012, Test Claimants in the FII Group Litigation, C‑35/11, punti 89 e 90 nonché giurisprudenza citata. Per quanto concerne la possibilità di ricondurre la fattispecie in esame alle limitazioni del principio di libera di circolazione dei capitali e non a quello di libertà di stabilimento nonché con riferimento all’inapplicabilità della c.d. clausola di stand-still sia consentito rinviare ad un nostro precedente contributo su questa rivista, Luca Rossi – Marina Ampolilla, Direttiva madre-figlia – Holding estere detenute da fondi internazionali e libertà di circolazione dei capitali, in Diritto Bancario del 10 settembre 2020. La necessaria estensione dei principi introdotti dalla nuova norma anche ai fondi extra-UE è stata conferma in dottrina anche da Luca Miele, Dividendi corrisposti a fondi di investimento non residenti esenti da ritenuta, in Eutekne, 17 novembre 2020 e Paolo Arginelli – Mario Tenore, Esenzione da estendere agli OICR “vigilati” extra-UE, in Eutekne, 23 novembre 2020.
[24] Cfr., sentenza 10 aprile 2014, C-190/12 DFA, punto 84.
[25] Cfr., sentenza 10 aprile 2014, C-190/12 DFA, punto 85.
[26] Cfr., Circolare n. 2/E del 15 febbraio 2012, pag. 14 avente ad oggetto il regime di esenzione applicabile ai proventi derivanti dalla partecipazione ai fondi comuni di investimento immobiliare di diritto italiano percepiti da OICR esteri.
[27] Cfr., ex pluribus, Risposta n. 147 del 28 dicembre 2018 e n. 430 del 25 ottobre 2019 avente ad oggetto la stessa fattispecie di cui alla nota precedente.
[28] Cfr., Risoluzione n. 76/E del 12 agosto 2019 la quale con riferimento alla norma di cui all’art. 26, comma 5-bis del D.P.R. n. 600/1973 avente ad oggetto l’esonero da ritenuta degli interessi sui finanziamenti a medio lungo termine corrisposti a investitori istituzionali esteri “soggetti a forme di vigilanza” ha ritenuto adeguatamente verificata tale condizione con riferimento al caso di un fondo costituito sotto forma di limited partnership di diritto inglese gestito da una società di gestione con sede legale in Guernsey autorizzata e vigilata dalla Guernesy Financial Services Commission (GFSC). Si vedano anche, fra gli altri, le Risposte già citate alla nota precedente aventi ad oggetto fondi localizzati negli Stati Uniti o alle Isole Cayman gestiti da società di gestione oggetto di supervisione e controllo da parte del SEC.
[29] Sull’argomento sia consentito rinviare ad un nostro precedente intervento a commento delle c.d. sentenze danesi, Luca Rossi – Marina Ampolilla, Le holding nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Bollettino Tributario n. 3-2020, p. 189.