Con la sentenza in analisi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto da una società che viene ritenuta amministrativamente responsabile ai sensi dell’art. 25-quinquiesdecies del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in quanto i soggetti apicali integravano il reato di cui all’art. 2 del D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 («Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti») nell’interesse e a vantaggio della società stessa. In particolare, la Cassazione riprende il principio secondo cui l’IVA che il committente assume di avere pagato al preteso appaltatore per l’operazione soggettivamente inesistente di appalto di manodopera – in quanto corrisposta ad un soggetto che non era legittimato ad operare la rivalsa in ragione del divieto di intermediazione e del carattere fraudolento dell’operazione negoziale – non è detraibile ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. 633/1972.
Per quanto attiene ai fatti di causa, la Società è stata ritenuta responsabile per illecito amministrativo dipendente da reato ai sensi dell’art. 25-quinquiesdecies del D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (d’ora innanzi, D. Lgs. 231 o Decreto 231), norma che prevede un elenco di reati fiscali che rappresentano un “presupposto” ai fini della attribuzione di un particolare tipo di responsabilità (definita “amministrativa” in osservanza dell’art. 27 della Costituzione) nei confronti della persona giuridica, nel caso in cui i soggetti apicali (anche di fatto), ovvero altre persone fisiche sottoposte alla direzione o vigilanza dei primi, pongano in essere uno dei delitti annoverati dalla norma “nell’interesse o a vantaggio” dell’ente.
Nel caso di specie due persone fisiche, nella loro qualità di presidente del Consiglio di Amministrazione e Amministratore delegato della Società rispettivamente fino al 2018 e a partire dal 2018, avevano indicato nella Dichiarazione IVA elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture riferite ad operazioni inesistenti, integrando il delitto di cui all’art. 2 del D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (la cui rubrica recita: “Dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”) – reato “presupposto” ai fini della responsabilità amministrativa (dipendente da reato) delle persone giuridiche ai sensi del D. Lgs. 231 – al fine di evadere l’IVA con un conseguente beneficio patrimoniale per la Società pari a diversi milioni di euro relativi ad IVA indetraibile riferita ai periodi di imposta dal 2017 al 2020.
Lo schema adottato, ricostruito dai giudici di legittimità, può essere riassunto come di seguito.
- La Società A non assumeva lavoratori per erogare i propri servizi, ma effettuava le proprie operazioni impiegando forza lavoro fornita da soggetti terzi mediante la stipulazione – soltanto formale – di contratti di appalto di manodopera;
- i predetti contratti di appalto venivano poi subappaltati ad altro soggetto (Società B), costituitosi quale società consortile, che operava quale mero filtro, deputato a schermare la somministrazione di lavoro da parte delle cooperative finali consorziate;
- Le indagini poste in essere hanno consentito di riscontrare come, in realtà, la Società A operava come datore di lavoro dei lavoratori provenienti dalle cooperative, integrandosi pienamente il vincolo di subordinazione.
La Società A, destinataria di un decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP presso il Tribunale e successivamente confermato dal Tribunale del riesame, ha presentato ricorso per cassazione, affidandosi a quattro motivi.
In prima battuta, la ricorrente denuncia la violazione di legge proprio in relazione al delitto di cui all’art. 2 del D. Lgs. 74/2000, asserendo che le dichiarazioni IVA non garantirebbero il vantaggio fiscale per la Società richiesto dalla norma per l’integrazione del reato.
Per quanto riguarda l’inesistenza “oggettiva”, la contribuente osserva come il principio di neutralità che governa l’IVA renda indifferente, dal punto di vista del tributo, la qualificazione giuridica del contratto cui le fatture si riferiscono, in quanto la Società avrebbe anticipato, attraverso il pagamento della fattura ricevuta, un’imposta poi detratta in seguito, con la conseguenza che nessun vantaggio sarebbe stato ottenuto.
Dal punto di vista “soggettivo”, invece, la ricorrente sostiene che l’indicazione in fattura di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la fornitura o prestato il servizio sarebbe rilevante unicamente nel caso in cui la falsa indicazione comporti l’applicazione di una aliquota differente e, quindi, incida sull’entità dell’imposta dovuta.
Con il secondo motivo, la ricorrente si concentra sull’individuazione dei soggetti che svolgono le operazioni cui le fatture si riferiscono, denunciando la violazione delle norme del codice civile relative al contratto di mandato, con e senza rappresentanza, e al contratto di consorzio (artt. 1704, 1705 e 2602) sostenendo che la Società B si ponesse legittimamente quale intermediario, in qualità di vertice di un consorzio con attività esterna, tra le proprie consorziate e il committente dei servizi (Società A), in quanto non sarebbe necessario lo svolgimento diretto delle attività oggetto dell’appalto da parte del consorzio e nemmeno il possesso di risorse e strutture idonee a tal fine, posto che l’affidamento dell’esecuzione delle attività oggetto del contratto di appalto dal consorzio alle consorziate conseguirebbe al rapporto di mandato e non, invece, ad un subappalto, concludendo per l’esclusione di ogni ipotesi di fittizia interposizione e di falsità soggettiva come affermata dal tribunale del riesame.
In terzo luogo, la ricorrente si concentra sulla qualificazione delle prestazioni da parte del tribunale del riesame, il quale, a suo dire, avrebbe violato e falsamente applicato le norme relative alla responsabilità del committente verso l’appaltatore finendo col considerare le prestazioni offerte dalla Società B (e dalle sue consorziate) quali somministrazioni di manodopera.
Infine, con il quarto motivo, la ricorrente prospetta la violazione o falsa applicazione dell’art. 12-bis del D. Lgs. 74/2000 – norma relativa alla confisca dei beni che costituiscono il prezzo o il profitto del reato in caso di condanna o patteggiamento – in ragione dell’assenza del profitto e di attualità del debito fiscale da tutelare col sequestro preventivo finalizzato alla confisca.
La Cassazione, esaminando congiuntamente i quattro motivi proposti, chiarisce preliminarmente che gli inadempimenti tributari delle cooperative e dei consorzi, realizzatesi nel sistematico omesso versamento dell’IVA, che consentiva il mantenimento di tariffe d’opera vantaggiose per il committente principale, hanno costituito lo spunto da cui gli inquirenti sono partiti per ricostruire l’adozione, da parte della Società A, del modello operativo descritto, per cui il reato tributario contestato alla ricorrente, cui il sequestro preventivo impugnato si riferisce, riguarda unicamente le dichiarazioni IVA presentate in proprio.
La Società A, agli occhi della Corte, risulta pienamente consapevole delle criticità del modello adottato e ciò è stato ritenuto comprovato sulla base di due elementi: in primo luogo, a causa del sequestro, in occasione di una perquisizione presso un suo stabilimento, di una slide descrittiva del modello (“swot modello coop“), la quale analizzava le implicazioni positive e i profili di rischiosità ad esso sottesi (tra questi ultimi, peraltro, va annoverata proprio la possibilità di commissione di attività criminose); inoltre, dal fatto che i contratti sottoscritti fossero particolarmente vantaggiosi da un punto di vista economico, circostanza che consentiva di ipotizzare che le evasioni fiscali e contributive fossero preordinate a consentire la pattuizione di prezzi minimi, sostenibili solo sul presupposto che le cooperative finali avrebbero poi omesso di versare l’IVA.
Secondo la Suprema Corte, le conseguenze in termini di fatturazione comportano che l’IVA dovuta dalla Società B veniva neutralizzata dall’IVA a credito per le fatture emesse dalle società cooperative finali, le quali, tuttavia, non effettuavano versamenti, accumulavano un debito IVA e poi venivano liquidate e sostituite da ulteriori cooperative che assorbivano i medesimi lavoratori che mantenevano il proprio impiego presso la Società A, che restava del tutto indifferente rispetto alla rotazione dei fornitori di manodopera.
Infine, la Società A portava in detrazione l’IVA addebitata dalla Società B (per un importo pari, per il periodo di tempo dal 2017 al 2020, a oltre 20 milioni di euro).
Giuridicamente, da un punto di vista penale, le fatture pagate alla Società B (emittente) si riferiscono ad operazioni soggettivamente inesistenti nella lettera del citato art. 2: infatti, i servizi – non di appalto, ma di somministrazione (illecita) di lavoro – venivano resi dalle cooperative finali e non dal soggetto emittente indicato nella fattura, con scarto tra rappresentazione documentale e realtà fattuale. Peraltro, la Corte conclude per la configurabilità del concorso tra intermediazione illegale di manodopera e art. 2 nel caso di utilizzo di fatture rilasciate da una società che ha effettuato l’interposizione illegale (Sez. III, n. 20901 del 26/06/2020, Rv. 279509 – 02; Sez. III, n. 24540 del 20/03/2013, Rv. 256424).
Invece, da un punto di vista tributario, diretta conseguenza dell’inesistenza (soggettiva) dell’operazione cui le fatture si riferiscono è l’indetraibilità IVA (art. 19 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 fa riferimento, infatti, ad “operazioni effettuate”), che viene assunta come elemento integrante la fattispecie delittuosa di cui all’art. 2.
Questo ultimo principio è stato più volte ribadito dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione: in caso di accertamento del carattere fraudolento dell’intermediazione di manodopera, l’IVA che il committente (nella specie) assume di avere pagato al preteso appaltatore per l’operazione soggettivamente inesistente – in quanto corrisposta ad un soggetto che non era legittimato ad operare la rivalsa in ragione del divieto di intermediazione e del carattere fraudolento dell’operazione negoziale – non è detraibile ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. 633/1972, proprio per il fatto che l’alterazione del meccanismo di riscossione dell’imposta in questione, attraverso la realizzazione di comportamenti illeciti dei contribuenti, non consente il dispiegamento dell’ordinaria operatività del diritto alla detrazione dell’imposta sulle operazioni passive dell’imprenditore o del professionista (Cass. civ., Sez. V, n. 16852 del 20/05/2013; Cass. civ., Sez. V, n. 10475 del 11/12/2013, Cass. civ., Sez. V, n. 17805 del 18/07/2017).
Stante quanto anzidetto, e considerata la piena consapevolezza del meccanismo fraudolento da parte della Società A, che ne era nei fatti promotrice, la Corte ha conseguentemente confermato la ricorrenza della responsabilità amministrativa dell’ente con riferimento al reato contestato, che giustifica il provvedimento cautelare impugnato.