Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione ha riaffermato, in linea con la propria giurisprudenza che, in materia di frodi c.d. carosello, nel caso di sospetta interposizione fittizia del fatturante nell’operazione, la buona fede del cessionario è circostanza ostativa dell’emissione di una cartella di pagamento a suo carico, per superare la quale l’amministrazione finanziaria ha l’onere di provare che il contribuente potesse quantomeno conoscere dell’irregolarità dell’operazione.
Nell’atto di ricorso l’Agenzia delle Entrate denunciava – in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 del codice di rito – la violazione e falsa applicazione degli artt. 17, 18, 19 e 21 del D.P.R. 633/1972, in quanto la Commissione Tributaria Regionale avrebbe erroneamente ritenuto che l’IVA derivante da operazioni soggettivamente inesistenti fosse detraibile dalla società contribuente, quand’anche quest’ultima fosse stata in buona fede circa l’effettività dell’operazione.
L’Agenzia ricorrente muoveva dall’assunto di diritto che, nel caso di fittizia interposizione soggettiva del fatturante nell’operazione, la buona fede del cessionario, quand’anche accertata, sarebbe tout court irrilevante.
La Corte disattende un tale assunto, affermando di converso che, al fine di escludere la legittimità della detrazione dell’IVA, non è affatto sufficiente che l’Amministrazione dimostri l’inidoneità operativa del cedente, dovendo piuttosto fornire la prova che il sospetto evasore fosse stato in grado di percepire tale inidoneità in base alla sua diligenza specifica quale operatore medio del settore.
In altri termini l’amministrazione finanziaria ha l’onere di provare – in base ad elementi oggettivi, anche di carattere presuntivo – che il cessionario si trovasse di fronte a circostanze indizianti dell’esistenza di irregolarità nell’operazione.
A tal riguardo l’estensore richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, ferma nel ritenere che l’imposta sul valore aggiunto è indetraibile solo quando ricorrano le seguenti circostanze: (i) il soggetto destinatario della fattura fosse a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza (“sapeva o avrebbe dovuto sapere”) che l’operazione invocata a fondamento del diritto di detrazione si inscrivesse in una operazione di evasione dell’IVA commessa dal fornitore; (ii) l’amministrazione fiscale dimostri adeguatamente che sussistano indici di conoscenza o conoscibilità; (iii) tali indici siano valutati dal giudice nazionale (sul punto, tra le più recenti, CGUE sentenza 13 febbraio 2014, in causa C18/13, Maks Pen FOOD; sentenza 22 ottobre 2015, in causa C-277/14, PPUH Stehcemp).
La Suprema Corte tiene inoltre a precisare che il sindacato circa la ricorrenza in concreto di questo ulteriore ed indispensabile coefficiente soggettivo di percepibilità (o di effettiva percezione) dell’irregolarità evasiva costituisce una quaestio facti in quanto tale rimessa al giudice di merito.
Facendo applicazione di tale principio la Corte rigetta il ricorso rilevando che, alla stregua di quando affermato dalla CTR, l’amministrazione finanziaria non aveva fornito elementi sufficienti a dimostrare che la contribuente “sapeva o avrebbe dovuto sapere” dell’interposizione fittizia (dagli atti risultavano, anzi, indici di segno contrario quali ad. es. l’assenza nell’avviso di accertamento di dati “individualizzanti” concernenti le condizioni in cui si sono svolti i rapporti commerciali tra le parti, la limitata entità economica della contestazione, la sporadicità degli acquisti; l’attività pluriennale della società cessionaria, il mancato esercizio dell’azione penale nei confronti del legale rappresentante della contribuente.