1. Antiriciclaggio e funzionari di banca
Fino ad alcuni anni or sono, domandando a un funzionario di banca[1] quali fossero i suoi compiti, era facile sentirsi rispondere con un lungo elenco di mansioni, senza che – di regola – fosse fatto il minimo cenno al compito di rispettare gli obblighi antiriciclaggio.
Oggi, invece, è ben difficile incontrare un funzionario, soprattutto se direttore di filiale, il quale non ponga ai primi posti delle proprie mansioni gli adempimenti antiriciclaggio.
Dalla prima legge antiriciclaggio italiana[2], infatti, le Autorità creditizie hanno diramato istruzioni, raccomandazioni, decaloghi, nonché una poderosa normativa secondaria sul tema; il sistema bancario ha messo in campo un armamentario formativo senza precedenti; la legge ha assunto connotati sempre più invasivi rispetto all’operatività bancaria; la Autorità ammnistrative hanno inflitto sanzioni non da poco e la Giurisprudenza ha pronunciato condanne esemplari.
C’è chi fa notare che, in banca, oggi, l’antiriciclaggio è diventato l’argomento principale.
Nel riferirci al D. Lgs. 231/2007 e successive modifiche e integrazioni[3], che disciplina la materia, utilizzeremo le formule d’uso comune, vale a dire, “legge antiriciclaggio” e/o “Decreto”.
A proposito di espressioni d’uso comune, utilizzeremo anche la formula di “direttore di banca” per riferirci al responsabile di filiale, da tempo immemorabile considerato institore dell’impresa bancaria (art. 2203 cc), come confermato, fra l’altro, da una interessante sentenza di Cassazione del 2016[4], che ha formato oggetto di analisi su questa rivista[5].
In ogni caso, i funzionari di banca, soprattutto se direttori di filiale, si sono sempre trovati nell’occhio del ciclone e ne è riprova il fatto che la maggior parte delle pronunce amministrative e giurisdizionali sulle questioni sanzionatorie li riguardano direttamente; così come le sentenze penali di condanna che in taluni casi, in ipotesi di omissioni di segnalazioni di operazioni sospette ex artt. 35 e 58 del D. Lgs. 231/2007 (nel linguaggio comune SOS), hanno riconosciuto a loro carico (non senza pesanti forzature, ad avviso di chi scrive) la sussistenza degli estremi del delitto di riciclaggio ex art. 648-bis c.p.
È altrettanto notorio, per converso, che la maggior parte delle SOS pervenute alla UIF, di cui periodicamente l’Unità dà conto attraverso le proprie Relazioni[6], provengono dalle banche e quindi, indirettamente, dai responsabili delle dipendenze, tenuti a comunicare senza ritardo (art. 36, comma 2 del D. Lgs. 231/2007), ai delegati aziendali, le operazioni da segnalare in quanto “sospette” (art. 36 cit., comma 6).
Va precisato che il sistema bancario, resosi conto fin dalle origini della iniquità di un meccanismo che finisse con l’abbandonare a sé stessi i funzionari impegnati a combattere una battaglia impari contro i riciclatori del denaro, ha cercato di fornire loro qualche strumento d’ausilio nell’analisi dell’operatività, onde oggettivizzare i presupposti per l’inoltro delle segnalazioni di operazioni sospette, che rimangono senza dubbio il fulcro dell’intera disciplina.
Di qui, l’emanazione dei “decaloghi” della Banca d’Italia succedutisi nel tempo e la creazione di strumenti diagnostici d’ausilio, quali GIANOS e DISCOVERY.
2. Obbligo di SOS, inottemperanza e sanzioni. La presenza in penombra del codice penale.
A proposito dell’obbligo di SOS, è risaputo che la sanzione prevista per l’inottemperanza riveste natura amministrativa, così come, del resto, l’intero impianto sanzionatorio antiriciclaggio, ad eccezione di quanto stabilito dall’isolatissimo art. 55 del D. Lgs. 231/2007 che, peraltro, riguarda fattispecie tutto sommato marginali e comunque poco interessanti ai nostri fini[7].
In sostanza, in base all’art. 58 comma 1 del Decreto, “salvo che il fatto costituisca reato, ai soggetti obbligati che omettono di effettuare la segnalazione di operazioni sospette, si applica una sanzione amministrativa pecuniaria…”. Tralasceremo il resto, non senza ricordare che, dopo la previsione della sanzione basica di euro 3.000=, i castighi aumentano vertiginosamente[8] per le ipotesi di omissione aggravata e, soprattutto, per le ipotesi di diretta imputabilità ai “soggetti obbligati vigilati”, fra cui le banche[9].
Ciò su cui vale la pena di soffermarsi ai nostri fini è l’incipit: salvo che il fatto costituisca reato.
Da una parte, dunque, la norma conferma che – di per sé – l’omissione di SOS non risulta penalmente rilevante, dall’altra, però, lascia aperta la porta all’imputazione penale, ovviamente qualora il fatto costituisca reato.
I problemi ermeneutici che ne derivano non sono banali, posto che l’omissione di SOS rimane pur sempre sanzionabile – tipicamente – per via amministrativa e non penale; talché, non è agevole sistematizzare la questione senza considerare – fra l’altro – il principio di specialità amministrativa di cui all’art. 9 della Legge n. 689/1981[10], che esclude la possibilità di infliggere una “pena” laddove il fatto [omissione di SOS nel nostro caso] sia già diversamente sanzionato[11].
Altrettanto, non è dato trascurare l’annosa questione del ne bis in idem, posto che, in ipotesi di omissione di SOS, laddove ricorrano gli estremi del reato, l’una sanzione (penale), non assorbe assolutamente l’altra (amministrativa)[12].
Sta di fatto che negli ultimi anni non sono mancati (e sono tuttora in corso) processi penali a carico di funzionari/direttori di banca accusati di riciclaggio ex art 648 bis c.p. per avere omesso di segnalare operazioni sospette, con ciò dando l’impressione – all’accusa – di avere volontariamente mascherato la provenienza illecita (rectius: “criminosa”, per usare il linguaggio della norma[13]) del denaro.
In tali fattispecie, semplificando al massimo la problematica, al solo scopo di porla in discussione, l’accusa ha preso le mosse da una sorta di preteso automatismo in base al quale la violazione della norma antiriciclaggio (art. 35 D. Lgs. 231/2007) sarebbe idonea a configurare la consumazione del delitto di riciclaggio.
Non sono mancate, in letteratura, voci di sostegno a tale impostazione, fino a coniare il termine di “riciclaggio amministrativo”, ossia riveniente – appunto – dalla violazione di norme antiriciclaggio[14].
Orbene, fino a prima dell’entrata in vigore del D. Lgs. n. 195, il descritto “automatismo” trovava ovviamente il dovuto sbarramento nella necessità di scrutare l’elemento psicologico (dolo), che sul piano pratico non era (e non è mai) agevole riscontrare nell’ipotesi di un funzionario di banca che ometta di effettuare una SOS, ad eccezione – ovviamente – dei casi estremi di collusione.
Quasi sempre la giurisprudenza, per condannare, si è trovata nelle necessità ricorrere alla nozione di dolo eventuale, con tutte le criticità che ne conseguono.
Con l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 195 è naturale domandarsi se qualcosa sia cambiato.
È naturale, cioè, domandarsi se il D. Lgs. n. 195/ 2021, nel dare attuazione ad una direttiva specificamente intitolata lotta al riciclaggio mediante il diritto penale abbia o meno portato elementi di chiarezza.
3. L’esigenza di mettere a fuoco correttamente le novità portate dal D. Lgs. n. 195/2021
La direttiva (UE) 2018/1673, con i suoi distinguo sull’elemento psicologico del reato, aveva lasciato prefigurare un recepimento energico, in Italia, che dipanasse i dubbi: tale – perlomeno – era l’auspicio manifestato da chi scrive, in occasione di un precedente articolo pubblicato su questa Rivista[15].
Orbene, con riserva di tornare più diffusamente sul punto, è interessante notare che, all’indomani della pubblicazione del D. Lgs. n. 195/2021, è avanzato, fra i pratici, un grido d’allarme secondo cui il legislatore nazionale avrebbe trasformato il riciclaggio da reato tipicamente doloso, a reato colposo.
Tale posizione nascerebbe da una lettura forse un po’ sbrigativa del Decreto n. 195 che, all’art. 1, comma 1, lettera d), stabilisce che all’art. 648 bis c.p. “…al primo comma sono soppresse le parole <non colposo>”[16].
Vada sé che, se così fosse, il funzionario di banca che per ipotesi non effettui una segnalazione di operazione sospetta per mera colpa (ferma l’estrema opinabilità del concetto di sospetto[17]) non andrebbe esente dal rischio di vedersi incriminare per riciclaggio ex art. 648 bis c.p.
Ne discenderebbe, ovviamente, un motivo di forte insicurezza e di tensione, nocive al concreto svolgimento dell’attività di banca, specie di sportello, tensione che certo non farebbe bene all’operatività bancaria e, forse, non farebbe nemmeno bene alla lotta al riciclaggio del denaro.
Va subito detto, però, che una lettura meno impulsiva della norma induce a ritenere che la struttura del reato di riciclaggio ex art. 648 bis c.p. non sia stata stravolta dalla novella e che il Decreto n. 195/2021 non abbia dato spazio all’ipotesi (pur menzionata nell’ultima parte del “considerando” n. 13 della direttiva 2018/1673) di una estensione della punibilità del riciclaggio alle condotte meramente colpose.
Dando uno sguardo d’insieme all’art. 648 bis c.p., infatti, risulta abbastanza evidente che la parte effettivamente modificata è solo quella che riguarda la categoria dei c.d. “reati presupposto”: questa sì, è stata effettivamente estesa ai reati meramente colposi.[18]
Vale la pena di ricordare che il riciclaggio è un post factum e vive quindi di “luce riflessa” del reato che lo “precede”.
La previsione di legge riguardo ai reati presupposto di riciclaggio è mutata nel tempo: il primo intervento legislativo, che segnò l’ingresso nel nostro ordinamento del reato di riciclaggio, risale al 1978: in base al DL n. 59/1978, convertito nella legge n. 191/1978, i reati presupposto di riciclaggio erano esclusivamente la rapina aggravata, l’estorsione aggravata e il sequestro di persona a scopo di estorsione. La legge n. 55/1990 ampliò il novero dei reati presupposto per aggiungervi la produzione e traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope. Infine, con la legge n. 328/1993 ampliò ulteriormente stabilendo che costituiva reato presupposto di riciclaggio qualsiasi delitto non colposo[19].
Il legislatore, dunque, non ha stravolto il riciclaggio, se non allargando le maglie dei reati presupposto, per ricomprendervi anche i colposi, precedentemente esclusi.
La questione circa le novità portate del D. Lgs. n. 195, però, non può essere liquidata con queste poche battute.
4. La rilevanza intrinseca e gli “effetti collaterali” del D. Lgs. n. 195/2021
Non v’è dubbio che la fine del 2021, tra tormenti di ogni genere, prima di tutto sanitari ma anche politici, è riuscita a sfornare una novità legislativa di non agevole interpretazione (se non all’apparenza) in ambito penalistico.
È già stato ricordato che in un precedente articolo pubblicato in questa rivista avevamo trattato il tema della sollecitazione proveniente dall’Europa circa una modificazione, nei singoli ordinamenti, della normativa sul riciclaggio penale[20].
La Direttiva UE 2018/1673 chiedeva ai legiferanti statuali di prevedere norme più stringenti in materia di contrasto al crimine economico, in specie per ciò che attiene il lavaggio di capitali.
Questa raccomandazione ipotizzava la possibilità di introdurre una sorta di “doppio binario” punitivo: una fattispecie, quale quella in vigore in Italia, strettamente dolosa e, eventualmente, una ipotesi subordinata colposa meno grave.
Sino ad oggi in Italia non si era mai immaginato di trasformare il riciclaggio ex 648 bis c.p. in un delitto colposo anche se, a ben considerare certi arresti giurisprudenziali in materia di riciclaggio di banca, è possibile ipotizzare, senza troppo azzardo ermeneutico, che la tendenza a collegare eziologicamente le condotte del 648 bis c.p. con la disciplina amministrativa antiriciclaggio (la 231/07 e modifiche successive) permetta all’interprete giudiziario di avventurarsi verso una forma latamente colposa di punibilità del riciclaggio[21].
Il Legislatore nazionale, con il recentissimo D.Lgs. n. 195, ha scelto una via ambigua per ricostruire i confini del delitto di riciclaggio: come già ricordato l’art. 1 (rubricato “Modifiche al codice penale”) ha stabilito che “all’articolo 648 bis sono soppresse le parole non colposo”. Ciò sta a significare, come già precisato, che il reato presupposto al reato di riciclaggio modifica il proprio elemento soggettivo, da doloso in colposo. La medesima novella ha poi inserito una nuova forma di riciclaggio, penalmente meno grave in ragione di una sanzione attenuata, in cui il reato presupposto può essere costituito anche da una contravvenzione.
L’ambiguità della riformulazione del riciclaggio penale ha diverse sfaccettature, giova accennarlo immediatamente, sfaccettature che fanno pensare ad una (seppure mascherata) inversione a U sul piano complessivo dell’attribuibilità giudiziaria del comportamento riciclatorio ad un agente modello.
La dottrina penalistica più rigorosa e positivista certamente avrà agio nel sostenere che la fattispecie di cui al 648 bis c.p. ha mantenuto ben saldo l’argine dell’elemento soggettivo nell’alveo del dolo e con questo salvaguardando argini potenti e decisivi per preservare la “buona fede” dell’operatore economico; semmai, la medesima dottrina, potrebbe evidenziare una certa bizzarria in seno alle aperture normative che permettono di identificare il reato presupposto anche in una fattispecie tipizzata dall’elemento soggettivo della colpa. È infatti assai ardimentoso rinvenire delitti contro il patrimonio, la persona o la lo Stato (ipotesi naturali di riciclaggio) di tipo colposo; analogamente appare poca cosa ipotizzare di inaugurare una poderosa lotta al riciclaggio fondata sulla punizione delle contravvenzioni come reato presupposto (a meno di voler offrire a queste una centralità e una “primavera” assai probabilmente neppure immaginata dal Legislatore del Trenta).
Vale un azzardo ermeneutico rispetto al rigore kelseniano della “dottrina pura”[22]: anche il diritto – e specialmente la giurisprudenza che deve applicare il diritto nei tortuosi percorsi del facere della criminalità – è un linguaggio simbolico[23] e come tale il simbolo sotteso al “dire” di una riforma può andare ben oltre “il detto” rigoroso. L’aver rotto l’argine dell’elemento soggettivo, seppure del reato presupposto al riciclaggio, potrebbe causare una generale ricaduta di questa forma “alleggerita” di responsabilità anche con riferimento alla punibilità del “vero e proprio” riciclaggio penale.
Questo spirito (sempre per ripercorrere la funzione simbolica del linguaggio così ben evidenziata da Ernest Cassirer) si innesterebbe su un terreno già pronto a recepire inondazioni di questo genere: il riferimento è alla tendenza già consolidata di “lavorare” l’elemento soggettivo del 648 bis c.p. proprio considerando come indizio decisivo il (mancato) rispetto della normativa amministrativa (colposa) antiriciclaggio.
È del tutto evidente che, in specie con riferimento al riciclaggio di banca o quello del professionista (non casualmente trattasi delle due ipotesi maggiormente attenzionate dalla normativa antiriciclaggio) ciò potrebbe comportare una mutazione genetica (oramai pienamente legittimata) del rapporto tra dolo di riciclaggio, normativa amministrativa di copertura e nuovo “spirito” dell’intreccio normativo del delitto (o della contravvenzione) presupposti.
Oggi dunque, dal punto di vista pratico, immaginare che il tradizionale dolo del reato di riciclaggio tenga gli argini del rigore ermeneutico rischia forse di essere illusorio.
Peraltro, la vis respingente del riciclaggio, rispetto alla ben più seducente (ed efficiente, in chiave repressiva) melodia colposa del serpentesco contorno fatto di delitto e contravvenzioni presupposti o della normativa antiriciclaggio, rischia di capitolare anche per altre ragioni: è realmente un complesso esercizio cerebrale pensare come l’agente di riciclaggio possa (con dolo) favorire il riciclaggio dell’agente del delitto presupposto che (solo colposamente) sarebbe incorso nel denaro sporco (!). Di più: l’assoluto disinteresse giurisprudenziale verso la effettiva prova dell’avvenuto reato presupposto per la punibilità di quello ad esso strumentale (gli arresti giurisprudenziali sia in tema di violazione dell’art. 648 c.p. che di quello di cui all’art. 648 bis c.p. sono costanti e neppure meritano di essere menzionati) rappresenta un’ulteriore considerazione capace di far pensare che “lo spirito” della novella legislativa sarà foriera, quanto meno, di forti tensioni tra il rigorismo dogmatico della dottrina e l’introduzione di spunti assai suggestivi per far permeare di colposo tutto l’intreccio tra delitto di riciclaggio e corollari normativi e di fatto a questo.
Le ripercussioni di tutto questo sarebbero, evidentemente, enormi: d’ora in poi sarà sufficiente che il riciclatore non rispetti una qualsivoglia norma di comportamento per essere punito. Immediatamente balza all’occhio un tema: quali sono le norme di copertura e quindi di comportamento (di stretta osservanza) da riferirsi all’ipotesi di riciclaggio che fanno scattare, in caso di loro violazione, la condotta illecita?
Generalmente ogni delitto colposo (il discorso vale anche per il “presupposto” del riciclaggio) ha, alle spalle, una disciplina di comportamento ben definita: quella sanitaria per la colpa medica, quella sulla sicurezza per la colpa sui luoghi di lavoro, quella circa la conduzione dei veicoli per la colpa alla guida[24]. A ben vedere, la maggior parte dei passaggi di denaro non prevede nulla di tutto ciò e dunque il rischio è una facile deriva verso una forma neppure troppo mascherata di responsabilità oggettiva.
È del tutto evidente che il soggetto che si trovi a svolgere transazioni ordinarie non ha ad oggi nessuna forma di disciplina – a parte ovviamente la normativa antiriciclaggio, che peraltro contempla obblighi solo a carico di un numerus clausus di soggetti predeterminati[25] – che imponga specifiche attenzioni e comportamenti chiari e definiti.
Particolarmente complessa è l’esegesi da svolgersi in materia di riciclaggio di banca. Neppure per questo settore cruciale del contrasto al riciclaggio è possibile comprendere chiaramente quale possano essere le regole di copertura. È certamente possibile intravvedere queste nella già richiamata disciplina antiriciclaggio come sistema idoneo a questo scopo; allora viene da chiedersi: l’operatore di banca risponderà in virtù di una sorta di “responsabilità da posizione” (?).
Probabilmente, dunque, sarà sempre più arduo, se non impossibile, pensare alla non punibilità del bancario qualora costui abbia trascurato qualche adempimento della disciplina amministrativa, pur senza alcuna evidenza della volontà di “sbiancare” il denaro sporco.
Non solo ed a conferma di questo assunto: i “colposi classici”, al fine di punire penalmente una determinata condotta, usano legare la violazione della normativa di copertura a condotte di evento che costituiscono il fondamento del precetto normativo; proprio la materialità dell’evento rappresenta, infatti, il momento decisivo della valutazione sia della “prevedibilità” che della “evitabilità” dell’evento stesso. Con ciò, a differenza di quanto può prospettarsi per il nuovo art. 648 bis c.p., senza affidare il contenuto del precetto della norma penale a quella di copertura.
Infatti: il 648 bis c.p. è un delitto di mera condotta e dunque, non prevedendo un evento specifico ma una indefinita quantità di possibili post factum, non è dato sapere cosa debba rispettare l’agente (possibile riciclatore) poter prevedere ed evitare questi pseudo-eventi[26].
S’intenda, l’agente deve evitare e prevedere la possibilità del riciclaggio ma, poiché questo è manchevole di evento, diviene una mera ipotesi ciò che costui dovrebbe essere in grado di poter “vedere” e quindi “evitare” ex ante.
5. Cenni all’interrelazione con le problematiche riguardanti la responsabilità da reato degli enti
Sempre con riferimento al riciclaggio bancario vanno spesi alcuni cenni al rapporto tra la violazione dell’art. 648 bis c.p. e la responsabilità degli enti ai sensi del D.Lgs. 231/01[27].
È infatti di difficile soluzione comprendere come l’organismo di vigilanza possa e debba comportarsi e, specialmente, quali ricadute possa avere un’imputazione colposa con una incolpazione dell’ente.
È facilmente ipotizzabile che (al di là dei dovuti distinguo fra soggetti apicali e sottoposti) l’ente, tratto a giudizio per condotte colpose del soggetto apicale (caso tipico e tendenzialmente più grave), non possa spendere l’argomento difensivo usuale e, cioè, che la persona fisica abbia agito alle spalle ed in contrasto con l’organismo di vigilanza e con le regole poste dal modello organizzativo.
In questo modo, anche l’ente, come il bancario, verrebbe trascinato nella “responsabilità da posizione” specie nell’ipotesi del soggetto apicale. Oppure, al contrario, la persona giuridica non potrebbe mai essere punita (salvo manifeste trascuratezze o assenza totale del modello e dell’operato dell’o.d.v.) in quanto nulla avrebbe potuto opporre ad una condotta colposa, di per sé assolutamente impalpabile in quanto priva di evento e dunque di prevedibilità ed evitabilità da parte dell’o.d.v.
Il tema esorbita rispetto al perimetro di questo lavoro, tuttavia ci limiteremo ad un ulteriore brevissimo cenno alla questione della necessità o meno, a seguito della pubblicazione del D. Lgs. n. 195/2021, di aggiornare il modello di organizzazione e gestione dell’ente e, quindi, per quanto ci riguarda, della banca.
Per quanto ovvio, nella parte del modello in cui usualmente si descrivono i reati costituenti il c.d. “catalogo” dei reati presupposto, devono registrarsi i ritocchi intervenuti nel codice penale a proposito della ricettazione, del riciclaggio, del reimpiego e dell’autoriciclaggio (art. 1 del D. Lgs. 195 cit.). Da notare che analoghi ritocchi si rendono necessari a seguito di un altro recente decreto legislativo, di pari data rispetto al decreto n. 195: trattasi del D. Lgs. n. 184/2021 in tema di frodi e falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti[28].
A parte quanto precede, che costituisce un adempimento essenzialmente formale, occorre chiedersi se la riforma del riciclaggio, nei termini descritti, imponga variazioni di sostanza ai modelli 231.
La risposta al quesito, necessariamente posto in termini generici, non può che essere altrettanto generica, nel senso che, fatta salva l’analisi delle concrete situazioni che il modello è chiamato a disciplinare, se si condivide l’idea che la riforma dell’art. 648 bis c.p. porta con sé una sostanziale recondita recrudescenza del precetto penale, un buon modello di organizzazione e controllo dovrà vieppiù raccomandare la massima attenzione a scongiurare il rischio di porre in essere condotte astrattamente idonee a rientrare, anche colposamente, nel perimetro del pericolo di commissione dei reati di cui agli artt. 648, 648-bis, 648 ter e 648 ter 1 c.p.
Il tutto, nell’ambito dell’esercizio di quella “delega” conferita dallo Stato ai privati, perché provvedano coi mezzi propri a prevenire e contrastare la commissione di reati nel loro interesse o a loro vantaggio[29].
6. Considerazioni conclusive
In estrema sintesi: l’Italia godeva di una buona disciplina legislativa, fortemente ancorata al modello legale delle ipotesi delittuose di mera condotta e, dunque, radicalmente dolosa. L’Europa aveva ipotizzato un “doppio binario” per cui sarebbe dovuta nascere una nuova norma, meno grave, che forse sarebbe stata addirittura capace di valorizzare, meglio di come è avvenuto sino ad oggi, la voluntas necandi dell’imputato per riciclaggio.
L’impressione plastica che viene suggerita dalla lettura della riforma contenuta nel D. Lgs. n. 195 è che il Legislatore italiano abbia invece un po’ “saltato il fosso”, cancellando – con un malizioso tratto di penna che colpisce il delitto presupposto, per arrivare surrettiziamente all’ipotesi delittuosa principale – il vecchio dolo da riciclaggio, rimpiazzandolo – a ben vedere – con una formulazione nuova e mascherata di “colpa in concreto”.
Peraltro, questa novella normativa, pare assecondare una tendenza oramai consolidata che vede il diritto penale tradizionale (quello del dolo o della colpa, dell’evento e del rigoroso rispetto del principio di legalità) sbriciolarsi sempre più e proiettarsi verso forme ibride di diritto amministrativo e dell’incontrollabile diritto del rischio.
Tutto questo, fra l’altro, con ripercussioni processuali decisive in materia di prova del reato. È infatti assai probabile che, perlomeno sul piano pratico, la difesa avrà scarsi argomenti dimostrativi capaci di svincolare il “riciclatore per caso” dalla gravissima responsabilità penale che può colpirlo.
Oltretutto, salvo i casi limite di soggetti corrotti e collusi, nella stragrande maggioranza dei casi l’ipotesi di funzionari di banca incriminati per riciclaggio avendo omesso – è il caso tipico – di effettuare segnalazioni di operazioni sospette, riguarda persone che si trovano catapultate in un procedimento penale senza quasi rendersi conto della problematica giuridica e dei passaggi processuali che precedono il loro coinvolgimento.
Ne derivano situazioni drammatiche per le quali sovente rischia di incrinarsi il rapporto fiduciario fra banca e funzionario, con conseguenze varie, anche, talvolta, di tipo disciplinare, fino, in alcuni casi, al licenziamento.
La peculiarità e la drammaticità di queste fattispecie lascia forse spazio per aggiungere, alle considerazioni di puro diritto che precedono, una manciata di spunti di riflessione sul piano psicologico cognitivo[30]. Infatti, la perdita di valore del precetto giuridico (deprivato della sua forza normativa sia cogente che limitante) rischia di proiettare il cognitivo delle parti processuali e del giudice in una sorta di eclissi nel rapporto tra soggetto umano togato (giudice, avvocato o pubblico ministero che sia) norma di valutazione della prova e fonte di prova. Per intendersi: il cognitivo del giudice “guarda” alla fonte di prova attraverso l’effetto limitante della norma e così riesce a cogliere dalla fonte di prova (cioè l’oggetto del giudizio) ciò che effettivamente il diritto e l’ordine normativo nel loro complesso esigono per rispettare il “giusto processo”[31].
Sia consentito prospettare il dubbio che, con lo svuotamento totale dell’art. 648 bis c.p., viene rimodulato il rapporto tra i tre elementi di cui sopra (il cognitivo del togato, la legge e la prova) rimescolandoli in una diversa prospettiva che mette lo sguardo dell’uomo giuridico al posto della norma, nel mezzo tra la fonte di prova e la legge. La conseguenza è che il giudicante rischia di guardare alla fonte probatoria da “uomo comune” così da essere deprivato dei limiti sostanziali e processuali che consentono di tenere la cognizione giudiziaria all’interno del volere del “giusto processo” e proiettandolo, al contrario, nel soggettivismo illimitato e imprevedibile.
* * *
Ci si può aspettare che la dottrina penalistica e – soprattutto – la giurisprudenza si troveranno a dover affrontare questioni ermeneutiche di non poco momento che, assai probabilmente, potranno andare al di là della mera lettura positivista della novella legislativa (d’altronde la prassi di utilizzare la normativa extrapenale e financo quella “deontologica” come modello capace di integrare l’approccio psicologico dell’agente può far pensare che l’apertura normativa a presupposti colposi possa divenire una interferenza con la fattispecie di cui all’art. 648 bis c.p. di non agevole soluzione).
[1] A rigore, il termine “funzionario” è superato da quando la contrattazione collettiva nazionale di lavoro del settore bancario ha adottato il termine “quadro direttivo”; tuttavia, rimane d’uso comune, specie a proposito delle tematiche che ci occupano.
[2] Trattasi della Legge 5 luglio 1991, n. 197.
[3] Trattasi del Decreto Legislativo del 21 novembre 2007, n. 231, come modificato dal Decreto Legislativo del 25 maggio 2017, n. 90 e poi dal Decreto Legislativo del 4 ottobre 2019, n. 125.
[4] Cass. Civ. Sez. I, 26 gennaio 2016, n. 1365.
[5] Si veda Avv. Vittorio Mirra “Il direttore di filiale può stare in giudizio in nome della banca preponente” in Diritto Bancario, 19 settembre 2016.
[6] Si vedano i rapporti annuali UIF in www.bancaditalia.it.
[7] Critiche della dottrina, B. Santacroce “La segnalazione di operazioni sospette dopo la legge 9 agosto 1993, n. 328: novità e prospettive di riforma, in Banca, Borsa e Titoli di Credito, 1995, 118 ss., secondo cui “sorprende che una norma come l’art. 3 della legge 5 luglio 1991, n. 197, che si colloca in una posizione di centralità nella disciplina della strategia antiriciclaggio, non sia munita di sanzione penale”.
[8] Sanzioni da 30.000 euro a 300.000 euro, con la precisazione che qualora le violazioni producano un vantaggio economico, l’importo è elevato fino al doppio dell’ammontare del vantaggio medesimo o fino a un milione in caso di indeterminatezza del vantaggio.
[9] Per “soggetti obbligati vigilati” si intendono, ai sensi dell’art. 3, comma 2 del D. Lgs. 231/2007 cit., le banche, le Poste, gli istituti di moneta elettronica, gli istituti di pagamento, le società di intermediazione mobiliare, le società di gestione del risparmio, le società d’investimento a capitale variabile, le società d’investimento a capitale fisso, gli agenti di cambio, gli intermediari iscritti nell’albo previsto dall’art. 106 TUB, Cassa Depositi e Prestiti, le imprese di assicurazione che operano nel ramo vita, gli intermediari assicurativi operanti in analogo campo, i soggetti eroganti microcredito, i confidi, i soggetti autorizzati a cartolarizzazioni, le fiduciarie, le succursali in Italia di intermediari bancari e finanziari e di imprese assicurative, gli intermediari aventi sede all’estero, i consulenti e società di consulenza finanziaria.
[10] Trattasi della Legge 24 novembre 1981, n. 689 “Modifiche al sistema penale. DEPENALIZZAZIONE”.
[11] Sul principio di specialità amministrativa si veda E. PENCO, Il principio di specialità amministrativa tra declinazioni interne formali e spinte europee sostanziali, in Diritto Penale Contemporaneo n. 3/2015.
[12] Sul ne bis in idem, vedasi Scozzarella “La questione del ne bis in idem nella giurisprudenza della cedu e nella giurisprudenza nazionale di merito, di legittimità e della corte costituzionale” in Diritto Penale Contemporaneo, 2019.
[13] Si veda l’art. 2, comma 2 del D. Lgs, 231/2007 cit.
[14] Così DI VIZIO in “Il riciclaggio nella prospettiva penale ed in quella amministrativa. Definizioni di riciclaggio”, Quaderno Banca d’Italia n. 8-2017.
[15] Si veda E. CAPPA – L. D’AURIA, La Direttiva UE 1673/2018 sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale. Criticità per il settore bancario, in Diritto Bancario.it, maggio 2021.
[16] Altrettanto dispone il D. Lgs. 195/2021, art. 1, comma 1, lettera f) a proposito del delitto di autoriciclaggio.
[17] Sia consentito richiamare in argomento E. CAPPA – U. MORERA, Normativa antiriciclaggio e segnalazione di operazioni sospette, Ed. Il Mulino, 2008.
[18] Si veda, in tal senso, G. PISTELLI, Riflessioni critiche sulla riforma dei reati di ricettazione, riciclaggio, reimpiego e autoriciclaggio di cui al D. Lgs. 8 novembre 2021, n. 195, in SP Sistema Penale n. 12/2021.
[19] Sulla evoluzione storica dell’art. 648 bis c.p. antecedente al D. Lgs. n. 195/2021 si veda L. D. CERQUA, Il delitto di riciclaggio dei proventi illeciti (art. 648-bis c.p.) in “Il riciclaggio del denaro. Il fenomeno, il reato, le norme di contrasto”, a cura di E. CAPPA e L. D. CERQUA, Ed. Giuffré 2012.
[20] Si veda la NOTA n.15.
[21] La giurisprudenza in tema di riciclaggio bancario è pressoché inedita ma le pieghe delle motivazioni di merito lasciano ampiamente intendere come la tendenza oramai invalsa da tempo sia quella di creare un ponte interpretativo tra la fattispecie penale di cui all’art. 648 bis c.p. e la normativa antiriciclaggio, quanto meno sovrapponendo la condotta trascurata dell’operatore bancario in ambito amministrativo come un segnale di “accettazione” della (possibile) provenienza illecita dei danari, in questo modo spostando la prova del delitto sulla dimostrazione della violazione antiriciclaggio (con pericolosi deragliamenti rispetto al principio di stretta legalità).
[22] Va richiamata perlomeno la Théorie pure du droit di H. KELSEN, la cui prima pubblicazione risale al 1934.
[23] Per una disamina completa del concetto di linguaggio come simbolo, cfr. E. CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, Vol. I “Il linguaggio”, Pgreco, 2015.
[24] Il rapporto tra delitto colposo e “norma di copertura” è decisivo per individuare quella che la dottrina e la giurisprudenza chiamano colpa normativa. Essa consiste nella necessità di creare e individuare uno strettissimo collegamento tra la già citata norma di copertura e il fatto-evento. Per intenderci: il delitto colposo deve ammettere la possibilità che tutta una serie di eventi possano non risultare punibili penalmente (ma, eventualmente solo civilmente) qualora non venga ravvisato il nesso eziologico tra la violazione amministrativa e l’evento dannoso o pericoloso.
[25] La legge antiriciclaggio, pur valevole erga omnes, prevede un numerus clausus di soggetti obbligati: è già stato richiamato in proposito l’art. 3 del D. Lgs. 231/2007 cit.
[26] È del tutto evidente come, la mancanza di un evento certo, indiscutibile e materialmente concreto rende il rapporto tra la violazione della normativa di copertura e il post factum dannoso o pericoloso una sorta di “scommessa al buio” capace di lasciare l’agente senza i giusti parametri comportamentali e l’interprete giudiziario senza alcun criterio rispettoso del principio di stretta legalità a cui agganciare il proprio giudizio.
[27] Trattasi ovviamente del D. Lgs. in data 8 giugno. 2001, n. 231 “Responsabilità amministrativa da reato”.
[28] Si veda il D. Lgs. 8 novembre 2021, n. 184, Attuazione della direttiva (UE) 2019/713 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 aprile 2019, relativa alla lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti e che sostituisce la decisione quadro 2001/413/GAI del Consiglio.
[29] Sul tema è interessante la lectio magistralis del Professor G. M. FLICK Fisiologia e patologia della depenalizzazione nel diritto penale dell’economia, resa nell’ambito del convegno del Centro Studi Giorgio AMBROSOLI Fuga dalla giurisdizione, verso una giustizia che giustizia non è? in Milano, 26 novembre 2010, in www.centrostudiambrosoli.it.
[30] La psicologia cognitiva è parte di quella ampia galassia che compone le neuroscienze e le scienze cognitive. Queste discipline rappresentano la grande novità della contemporaneità, consentendo di comprendere – o almeno di cominciare a comprendere – il funzionamento della macchina più complessa della natura e cioè il cervello umano. Le neuroscienze abbracciano discipline assai eterogenee tra loro: la filosofia della mente, l’etica, la biologia, l’intelligenza artificiale, la psicologia neurale e l’antropologia culturale (per citarne solamente alcune). Il diritto e la giustizia risultano ancora in ritardo, nonostante le scienze cognitive siano una disciplina che consentirebbero di affrontare senza pregiudizi il complesso tema del decidere, momento essenziale del fare giustizia.
[31] Il “giusto processo” (così come preveduto dall’art. 111 Cost.) non è solamente un concetto giuridico. Più precisamente: qualora detto precetto venga relegato come mero concetto giuridico rischierebbe di perdere la sua forza attrattiva del cognitivo del giudicante. È decisivo consentire alla norma di svolgere appieno la propria funzione di traino del libero convincimento delle parti processuali e questo scopo si realizza comprendendo come, dal punto di vista del cognitivo, la norma debba sempre mantenere la funzione di filtro che si frappone tra il cervello di chi “manovra” la fonte di prova e la prova stessa. Solamente il pieno rispetto di questo rapporto tra uomo giudiziario, prova e legge consente la trasformazione, secondo il dire della dottrina statunitense, della proof (la fonte probatoria e dimostrativa) in evidence (cioè in mezzo di prova utile per la giurisdizione). Ciò che qui viene definito come eclissi consiste proprio nello scalzare la norma dal ruolo di filtro, lasciando che il togato entri in contatto con la prova in maniera deprivata dalla guida ermeneutica offerta dalla regola. Una simile condizione di minorata cognizione giudiziaria può essere causata proprio dallo svilimento della norma.