WEBINAR / 16 Gennaio
Value for money: nuova metodologia dei benchmark


Metodologia EIOPA 7 ottobre 2024 per prodotti unit-linked e ibridi

ZOOM MEETING
Offerte per iscrizioni entro il 13/12


WEBINAR / 16 Gennaio
Value for money: nuova metodologia EIOPA dei benchmark
www.dirittobancario.it
Articoli

Garanzia privata infortuni: sviluppi giurisprudenziali e prospettive future

23 Settembre 2022

Francesco Ceserani, Dottore in Giurisprudenza – Associate Chartered Institute


La garanzia privata infortuni ha dalle sue origini rappresentato un negozio socialmente tipico a forte diffusione nella società ma, nel contempo, refrattario ad ogni rigida sistemazione normativa. Ragion per cui, ha sempre suscitato dispute la sua collocazione nell’uno o nell’altro dei due plessi normativi, vita e danni, che caratterizzano la disciplina codicistica dell’esperienza assicurativa. L’analisi del formante giurisprudenziale rivela, a partire da inizio millennio, una poderosa operazione di ricostruzione in termini indennitari di tale garanzia: di essa vengono evidenziate le criticità e le perniciose conseguenze. Dopo aver passato in rassegna le principali opinioni espresse in dottrina, sulla base di un preciso riscontro nella normativa contrattuale di alcune polizze offerte dal mercato, si propone una lettura della garanzia privata infortuni, anche invalidanti, con funzione tipicamente previdenziale. In tal senso ne viene auspicata una disciplina legislativa all’interno di un autonomo tipo contrattuale di assicurazione delle persone, unitamente ad altri prodotti offerti dal mercato a protezione della persona.

Personal Accident Insurance, from its beginnins, is an insurance contract socially tipycal and widespread in society, but resistant to any normative arrangement. For this reason, it has raised disputes around its positioning in one or another of the two sets of regulation, life and non-life, which marks the contract of insurance in Italian Civil Code. The analysis of Courts decisions, from the start of the millennium, discloses a tremendous project of rebuilding of this coverage as an indemnity contract, of which are highlighted the inconsistencies and the destructive consequences. After a review of the leading opinions in the docrtrine, the Author makes an accurate comparison of the regulatory sets of a few policies supplied in the Italian market and suggests a construction of the accident insurance as a tipycal personal insurance. In that sense, the Author wishes for a reform which places the accident insurance in an independent contractual type among other insurance products dedicated to the personal well-being.    


1. Garanzia privata infortuni: una epifania del diritto vivente

Nel panorama italiano delle assicurazioni, la garanzia privata infortuni rappresenta un unicum, in quanto ha mantenuto inalterato il carattere primevo del negozio assicurativo che, fin dalle sue origini, costituisce il frutto della creatività della prassi mercantile[1], rifuggendo da ogni inquadramento normativo ad opera del legislatore.

Ed invero né la codificazione ottocentesca né l’attuale Codice Civile sono riusciti nell’intento di irrigidire all’interno di un impianto normativo quel peculiare e variegato assetto di prestazioni assicurative che l’autonomia privata ha saputo divisare e conglobare all’interno di una cornice contrattuale, allo scopo di far fronte al rischio di una disgrazia accidentale: l’assicurazione infortuni ha, infatti, ricevuto esclusivamente una regolamentazione per quanto concerne la gestione del relativo portafoglio rischi da parte dell’impresa assicurativa, nell’ambito delle disposizioni attualmente contenute nel Codice delle Assicurazioni Private[2].

Questa singolare caratteristica ha contribuito, unitamente ad una sapiente politica commerciale delle imprese assicuratrici, al fiorente sviluppo della garanzia infortuni privati che, dai suoi primordi, coevi alla rivoluzione industriale[3], ha registrato una sempre più marcata affermazione, fino a segnare un forte slancio a metà del novecento[4], in coincidenza con l’avvento della società del benessere, per poi consolidarsi negli anni successivi con un meno accentuato ma costante trend di crescita che dura fino ai nostri giorni[5].

Tuttavia, la circostanza di essere un contratto socialmente tipico, in quanto espressione delle quotidiane transazioni commerciali, ha comportato, accanto al vantaggio di una sua capillare diffusione, anche la difficoltà di una sua sistemazione giuridica che andasse al di là di una mera atipicità legale per approdare verso una più precisa connotazione, in considerazione del rigido impianto dicotomico a mezzo del quale il legislatore aveva nel frattempo provveduto a sistemare l’esperienza contrattuale assicurativa.

Le coordinate all’interno delle quali il Codice Civile del 1942 aveva elaborato in termini sistematici l’intera esperienza assicurativa poggiavano, infatti, esclusivamente su due soli fenotipi di contratto: un contratto con funzione indennitaria rispetto al rischio di danno ad una cosa ed un contratto di carattere previdenziale in ordine ad eventi di rischio attinenti alla vita umana (art. 1882 c.c.).

Diversamente da altri ordinamenti giuridici, seppure culturalmente vicini[6], il legislatore italiano non intese dunque attribuire uno statuto formale autonomo a quelle tipologie di coperture assicurative contro i rischi di incidenti, invalidità, malattie, vecchiaia, riunificabili nel sintagma di assicurazioni di persone.

2. L’evoluzione giurisprudenziale fino alla operazione di “reverse engineering” della garanzia ad opera delle S.U. della Suprema Corte di inizio millennio

In origine, peraltro, la giurisprudenza assolutamente prevalente non aveva espresso ambiguità o tentennamenti circa la collocazione della garanzia contro le disgrazie accidentali, anche non mortali, nell’uno o nell’altro polo del sistema codicistico, apparendo di immediata evidenza non solo come la disgrazia accidentale fosse da ascrivere ad un evento attinente la vita umana ma anche come la perdita di quest’ultima e persino la compromissione della integrità fisica della persona stessa fossero irriducibili ad una nozione di danno patrimoniale, oggetto di valutazione economica e traducibile in un preciso importo indennitario[7].

Questa uniformità del formante giurisprudenziale ben presto venne però a sfaldarsi proprio in coincidenza con la straordinaria espansione del ramo infortuni registratasi agli inizi della seconda metà del secolo scorso, quando, con particolare riguardo alla prestazione assicurativa per le conseguenze invalidanti dell’infortunio, presero a farsi strada pronunce delle Corti, sia di legittimità, sia di merito, favorevoli al suo inquadramento quale garanzia danni, soprattutto ove in polizza venissero espressamente richiamate alcune disposizioni del plesso normativo codicistico, quali l’art. 1916 c.c. o l’art. 1910 c.c., ritenute espressioni inequivocabili del principio indennitario[8].

Il clivage determinatosi in sede giurisprudenziale rifletteva anche posizioni emergenti in sede dottrinaria, tese a valorizzare una funzione riparativa della garanzia per le conseguenze non mortali dell’infortunio[9] e comunque non si traduceva in un contrasto esacerbato, anzi, le varie pronunce cercavano di sottrarsi alle strettoie del letto di Procuste costituito dal sistema bipolare codicistico, contemperando l’applicazione di disposizioni dell’uno o dell’altro plesso normativo, nel rispetto dell’assetto di interessi divisato dalle parti nel contratto e nella consapevolezza della intrinseca atipicità del negozio[10].

L’atteggiamento flessibile adottato dalla giurisprudenza coincideva con la visione che della garanzia infortuni aveva espresso l’industria assicurativa in un Convegno tenutosi a Napoli e ad Ischia nell’ottobre del 1961 e che, formalizzata in un documento conclusivo[11], può essere sintetizzata nei termini seguenti:

  • la garanzia infortuni è assicurazione di persone, in quanto avente ad oggetto la invalidità o la morte da infortunio e, di conseguenza, non può essere assoggettata alle disposizioni regolanti le assicurazioni di cose né, per contro, essere assimilata ad un’assicurazione sulla vita;
  • essa presenta dunque caratteristiche proprie che si riflettono nell’assetto contrattuale stabilito dalle parti in polizza, nella quale è possibile, pur rispettando le norme inderogabili di cui all’art. 1932 c.c., predisporre una autonoma normativa negoziale per le garanzie in essa dedotte, eventualmente inserendo (art. 1910 c.c.) od escludendo (art. 1916 c.c.) specifiche disposizioni ed in tal modo attribuendo o meno valenza indennitaria alla prestazione;
  • nelle ipotesi in cui le disposizioni contrattuali non si prestassero ad univoche interpretazioni, ad essa dovrebbero essere applicabili senz’altro le disposizioni generali in materia di contratto di assicurazione, solo quelle compatibili con la circostanza che oggetto della copertura sono rischi (invalidità e morte) che attengono alla persona umana, per quanto concerne il plesso normativo dedicato alle assicurazioni danni, mentre rimarrebbero inapplicabili le disposizioni sulle assicurazioni vita, alle quali la garanzia non potrebbe essere assimilata, ed in particolare la norma dell’art. 1924 c.c. sul mancato pagamento dei premi.

Nel documento, veniva, in sostanza, accolta dall’industria assicurativa la tesi del tertium genus, autorevolmente prospettata in dottrina dal Salandra[12] in occasione della entrata in vigore del Codice Civile, in quanto considerata la più adeguata anche per accompagnare lo sviluppo commerciale del ramo in un contesto economico in pieno sviluppo.

Ad essa, tuttavia, si contrapponeva una posizione, altrettanto autorevole[13], secondo la quale, nel rispetto del sistema bipolare codicistico, la garanzia relativa agli infortuni non mortali poteva agevolmente collocarsi all’interno delle assicurazioni danni, atteso che alla menomazione dell’integrità fisica del corpo umano veniva data in polizza una valutazione patrimoniale (art. 1908 c.c.) e dunque risultava imprescindibile l’applicazione del principio indennitario, al fine di evitare che l’autonomia privata utilizzasse il contratto a scopi speculativi: si proponeva dunque la figura di un contratto misto nel quale,  accanto alla causa previdenziale propria della garanzia caso morte, conviveva una funzione compensativa per le altre prestazioni dedotte in polizza, ivi compresa quella relativa alle menomazioni di carattere permanente residuate a seguito dell’evento infortunistico.

Il formante giurisprudenziale, nonostante si facessero sempre più frequenti pronunce tendenti a sottolineare la funzione compensativa  della copertura, qualora in essa fosse inserito il richiamo a disposizioni codicistiche proprie del ramo danni ad opera  dell’autonomia contrattuale delle parti,  fino agli ultimi decenni del secolo scorso ha sempre rifuggito da un rigido inquadramento della garanzia infortuni, optando  per ricostruzioni che sapientemente riuscivano a far prevalere funzione previdenziale o funzione riparatoria in base a quanto concretamente articolato dalle parti in polizza.

Sul finire del secolo scorso, però, in tale panorama si distinguevano alcune decisioni che già costituivano segni premonitori della successiva svolta indennitaria che avrebbe segnato il formante giurisprudenziale: sul finire degli anni ’80 alcune pronunce[14] sancivano la natura di debito di valore dell’obbligazione dell’assicuratore per la garanzia infortuni non mortali, in quanto avente funzione reintegrativa della perdita subita dall’assicurato e dunque da collocare nell’ambito delle assicurazioni contro i danni; mentre a metà degli anni ’90 una pronuncia[15] affermava l’applicabilità, non in quanto espressamente richiamato dalle parti in polizza, bensì ex proprio vigore, dell’art. 1910 c.c., quale espressione del principio indennitario, al fine di evitare che l’assicurato potesse, mediante la stipula di diversi contratti per il medesimo rischio, effettuare operazioni speculative con la percezione di una pluralità di indennizzi, conseguendo così un  indebito arricchimento, con evidenti effetti pregiudizievoli non solo per le imprese di assicurazione ma anche per l’economia in generale.

Proprio la questione dell’applicabilità o meno della disciplina dettata nell’art. 1910 c.c. all’assicurazione infortuni ha costituito la base sulla quale la Suprema Corte, agli inizi di questo millennio (Cassazione Civile Sezioni Unite, 10 aprile 2022 n.5119), ha operato un processo di reingegnerizzazione della garanzia, non tanto risolvendo, come ha ammesso la stessa Corte, un contrasto su “l’inquadramento dell’assicurazione contro gli infortuni nell’ambito di uno dei due tipi di assicurazione legislativamente disciplinati, con conseguente integrale applicazione delle rispettive discipline”, quanto valutando la “compatibilità e coerenza con tale assicurazione” della disciplina codicistica in tema di assicurazioni plurime.

Alla questione viene data risposta positiva, senz’altro in relazione ai primi due commi della norma, proprio in quanto ritenuta norma a presidio del principio indennitario, trovando poi una formale conferma della funzione indennitaria della garanzia infortuni nell’espresso richiamo alle “assicurazioni contro le disgrazie accidentali” contenuto nell’art. 1916 c.c. in tema di diritto di surroga dell’assicuratore.

Il combinato disposto delle due disposizioni consente quindi alla Suprema Corte di asserire in modo inequivocabile che “l’infortunio è sicuramente evento produttivo di danno per l’assicurato” sia esso danno patrimoniale ovvero biologico, ragion per cui la relativa garanzia non può che soggiacere ai vincoli dettati dal principio indennitario, in funzione preventiva alla realizzazione di fini di lucro.

Né alla qualifica dell’infortunio quale “evento dannoso da indennizzare” può essere di ostacolo la determinazione in polizza della “misura dell’indennizzo” in una somma capitale a discrezione delle parti, in quanto proprio in ambito di assicurazioni danni viene dal legislatore espressamente riconosciuta le liceità di una polizza stimata (art. 1908 c.c.).

La perentorietà del dictum viene però ad essere subito mitigata, paventando la difficoltà pratica circa l’applicazione alla garanzia infortuni non mortali dei successivi due commi dell’art. 1910 c.c., relativi all’obbligazione solidale degli assicuratori plurimi ed al conseguente diritto di regresso, con la motivazione, non aliena da contraddizione, della “peculiarità dell’assicurazione infortuni”, quale “assicurazione di persone e non di cose”  tale da comportare “conseguenti difficoltà di rapportare la misura dell’indennizzo ad un danno di consistenza obiettivamente accertabile”.

La nozione di infortunio quale “evento dannoso da indennizzare” viene invece completamente a soccombere a fronte di una disgrazia accidentale provocante conseguenze non invalidanti bensì mortali, atteso che, a giudizio del supremo consesso, in tal caso l’evento non sarebbe più produttivo di un danno alla persona ma si risolverebbe in un rischio lesivo della vita umana.

La riscontrata duplicità di rischio insita nel medesimo contratto porta la Corte ad obliterare, con riguardo agli infortuni mortali, le considerazioni fin qui svolte a supporto dell’applicazione del principio indennitario all’infortunio invalidante ed a proporre per il contratto una “disciplina di tipo misto”.

Nell’infortunio con conseguenze mortali, infatti, secondo i giudici di legittimità,  si assiste ad uno schema “del tutto simile a quello dell’assicurazione sulla vita” nel quale beneficiario della prestazione assicurativa “non è l’assicurato sul quale incide l’evento morte, ma un terzo” per cui vengono meno le finalità di lucro e di locupletazione determinate appunto dalla scissione tra la persona dell’assicurato, titolare dell’interesse garantito, e quella del beneficiario della prestazione economica dedotta in contratto.

Ne discende la necessaria applicazione delle disposizioni del plesso normativo codicistico relativo alle assicurazioni sulla vita (in particolare art. 1919 e 1920 c.c.), mentre risulterà inadeguato il ricorso alle norme disciplinanti le assicurazioni di cose.

In ispecie, la Suprema Corte esclude decisamente “la vigenza del principio indennitario” per gli infortuni mortali, di cui risulta espressione l’art. 1910 c.c., difettando ogni finalità di indebito arricchimento, così come ogni incentivo alla provocazione dolosa del sinistro, da parte dell’assicurato “per il naturale istinto di conservazione”, potendo comunque l’assicuratore avvalersi per ogni eventuale tentativo di frode ai suoi danni della disposizione dell’art. 1900 c.c. in materia di disciplina generale sul contratto di assicurazione.

Un discorso meno risoluto e più articolato viene invece svolto con riguardo all’altro caposaldo del principio indennitario, identificato nella surroga ex art. 1916 c.c., la cui applicabilità, pur esclusa in via di principio, potrebbe tuttavia trovare valido fondamento in quelle situazioni in cui i terzi beneficiari della garanzia infortuni mortali, coincidano, quali prossimi congiunti del de cuius, con i titolari del diritto al risarcimento dei danni nei confronti del terzo responsabile dell’evento: la norma, in questa specifica ipotesi, potrebbe costituire efficace strumento allo scopo di impedire il cumulo in capo ai medesimi soggetti di prestazioni economiche, seppure provenienti da titoli diversi (risarcitorio da illecito civile ed indennitario da garanzia assicurativa)[16].

Si può senz’altro affermare che con questa pronuncia la Suprema Corte abbia effettuato una operazione di reingegnerizzazione della garanzia, lasciando, peraltro, alcuni insoddisfatti[17], anche perché costellata da una serie di contraddizioni ed aporie, riuscendo, tuttavia, nell’intento di imbrigliare all’interno del sistema binario codicistico quel peculiare assetto contrattuale che la prassi mercantile aveva nel tempo costruito in funzione protettiva avverso le disgrazie accidentali: una operazione finalizzata però, come si vedrà, ad un preciso obiettivo.

Come ogni operazione di reverse engineering che si rispetti, la Corte è partita dall’indagine sulla prestazione erogata (indennizzo a ristoro di un danno/somma capitale anche in assenza di danno) a seguito della disgrazia accidentale, identificandone natura e funzione, per poi risalire, a ritroso, alla qualificazione della garanzia che quella prestazione promette quale mitigazione del rischio coperto.

Nella “pars destruens” del processo ricostruttivo, viene spazzata via ogni teoria precedentemente avanzata, sia in sede dottrinaria sia in sede giurisprudenziale, cancellando le due visioni totalizzanti, rispettivamente quella previdenziale e quella indennitaria, ma anche il tentativo di costruire un tertium genus, e, nonostante all’apparenza possa sembrare il contrario, anche la teoria del contratto misto.

Infatti, venendo alla “pars construens”, la nuova struttura della garanzia poggia su due eventi di rischio (evento di danno alla persona/evento attinente alla vita umana) cui corrispondono due diverse garanzie (garanzia danni/garanzia vita) funzionalmente preposte a due distinte cause (causa indennitaria/causa previdenziale) all’interno di un’unica operazione negoziale che, pertanto, viene a conglobare in sé due differenti contratti collegandoli tra di loro.

Tuttavia, “la coesistenza, in un unico modello di polizza, di due distinti contratti collegati” viene teorizzata, non  per mero intento classificatorio, giacchè la stessa Corte aveva premesso che non si trattava di risolvere un semplice problema di inquadramento normativo della polizza nel sistema disciplinare dicotomico del Codice Civile, bensì ponendosi quale obiettivo finale, palesatosi vieppiù dai successivi sviluppi giurisprudenziali, la dilatazione dello spettro di azione del principio indennitario con un’ampiezza tale da abbracciare anche la sfera del danno alla persona, concepito quale pregiudizio di esclusiva natura patrimoniale.

Ponendosi agli antipodi del risalente orientamento giurisprudenziale “che riteneva ripugnante al diritto ed alla morale attribuire un valore al corpo dell’uomo”[18], la Suprema Corte senza esitazione concepisce la disgrazia accidentale invalidante quale evento dannoso che, intaccando la integrità del corpo umano, ne compromette le potenzialità produttive di ricchezza, ragion per cui la prestazione compensativa prevista in garanzia deve soggiacere alla ferrea logica del principio indennitario, vigente nelle assicurazioni contro i danni a cose, volta a scongiurare forme di locupletazione derivanti dall’attribuzione di importi in misura superiore al pregiudizio fisico effettivamente sofferto.

Non frappone ostacoli al traguardo della piena realizzazione del principio indennitario in ambito infortuni invalidanti, l’evidenza, emergente dalla prassi mercantile, della determinazione contrattuale della somma assicurata: anzi, a parere dei giudici di legittimità, l’espressa previsione codicistica nelle assicurazioni contro i danni (art. 1908 c.c.) secondo cui “il valore delle cose assicurate può essere tuttavia  stabilito al tempo della conclusione del contratto, mediante stima accettata per iscritto dalle parti” costituisce autorevole conferma della propugnata tesi.

Sullo sfondo di questa visione fagocitante del principio indennitario si staglia la concezione di un homo oeconomicus, volto alla massimizzazione della ricchezza, per cui l’evento aleatorio della disgrazia accidentale potrebbe incidere in tale sua esclusiva dimensione, traducendosi in danno di natura patrimoniale.

Appare poi evidente come la Corte sia mossa dall’assillo che il comportamento opportunistico (moral hazard) dell’assicurato lo possa spingere ad un utilizzo illecito del contratto assicurativo, a meri scopi speculativi, fino ad arrivare a paventare “l’incentivo alla provocazione volontaria del sinistro anche mediante forme di autolesionismo”

Unica forma di prevenzione verso queste forme di locupletazione e distorsione della garanzia viene ravvisata nel baluardo costituito dal principio indennitario, sotto la cui protezione attrarre anche la garanzia contro la disgrazia accidentale, persino quella mortale, alla quale, non senza evidente contraddizione[19], la Suprema Corte ritiene applicabile, nella eventualità in cui i prossimi congiunti dell’assicurato risultino anche titolari del diritto al risarcimento verso il terzo responsabile dell’infortunio mortale, il diritto di surroga ex art. 1916 c.c., volto appunto ad impedire la locupletazione derivante dal cumulo di beneficio assicurativo e risarcimento nel loro patrimonio.

Se si vogliono definire i capisaldi a cui è approdato questo processo di reingegnerizzazione della polizza infortuni, essi possono agevolmente essere sintetizzati in questi termini:

  • scissione del rischio di disgrazia accidentale, in base alla distinzione tra i due beni colpiti: salute e vita;
  • enucleazione dei due eventi in cui essi vengono ad estrinsecarsi sulla persona dell’assicurato: evento invalidante ed evento mortale;
  • qualificazione dell’evento invalidante quale evento dannoso, in quanto lesivo della integrità fisica della persona, concepita esclusivamente in funzione della sua capacità lavorativa e, pertanto, incidente sulla sua sfera economico-patrimoniale;
  • convivenza all’interno della polizza infortuni di due distinte funzioni: funzione indennitaria per la garanzia contro le disgrazie invalidanti e funzione previdenziale per la garanzia caso morte;
  • conseguente espansione del principio indennitario, nelle sue epifanie di cui agli artt. 1910 e 1916 c.c., quale cardine inderogabile delle assicurazioni contro i danni a cose, alla disciplina delle assicurazioni contro le disgrazie accidentali invalidanti e, nella sua precipua funzione preventiva rispetto a forme di locupletazione, applicabile, mediante l’istituto della surroga, anche alle disgrazie mortali, nelle circostanze di cumulo di beneficio assicurativo e di risarcimento in capo ai prossimi congiunti dell’assicurato deceduto per fatto illecito di terzi.

A distanza ormai di un ventennio, si può senz’altro affermare che di questo arresto giurisprudenziale di inizio millennio sia stata colta essenzialmente la sua valenza di tentativo di incanalare nel sistema binario codicistico una garanzia frutto della prassi mercantile e di cui il formante giurisprudenziale, fino ad allora, aveva sostanzialmente rispettato la innata irriducibilità a schemi dogmatici rigidi e precostituiti, mentre non può essere sottaciuto come siano passati inosservati o non adeguatamente evidenziati alcuni assunti che hanno costituito il fondamento della operata ridefinizione della garanzia privata infortuni.[20]

Essi possono essere ravvisati, in una concezione del pregiudizio alla persona inferto dalla disgrazia accidentale quale evento di danno, in quanto nocumento alla sua capacità di lavoro e di guadagno e dunque suscettibile di una valutazione economica obiettiva; in una dimensione esuberante ed irretrattabile del principio indennitario; in una sua funzione preventiva rispetto a ritenute indebite locupletazioni, a paventati comportamenti opportunistici dell’assicurato, se non addirittura a suoi tentativi di frode.

Se all’epoca tali assunti potevano apparire in retroscena rispetto alla ribalta rappresentata dalla rimodulazione della garanzia, essi, a distanza di un decennio, verranno riscoperti e si presenteranno in veste di protagonisti sul proscenio del panorama giurisprudenziale, incidendo anche nei rapporti con la sfera del danno alla persona da responsabilità civile.

3.Verso una proiezione pervasiva del principio indennitario

In un primo tempo, non vengono colte le potenzialità innovatrici insite nella nuova classificazione e, soprattutto, nelle asserzioni che la sorreggevano, riproponendo il formante giurisprudenziale una modulazione della garanzia flessibile ed attenta all’assetto negoziale voluto dalle parti.

Appare significativa, in tal senso, l’accortezza con la quale si fa uso di istituti, quali la surroga, successivamente considerata quale tetragono dispositivo a tutela del principio indennitario, della quale ci si domanda se lo scopo sia quello di salvaguardare tale principio, vietando al danneggiato di conseguire un doppio indennizzo oppure quello di tutelare il principio di responsabilità, inibendo all’autore dell’evento dannoso illecito di avvantaggiarsi del frutto della protezione assicurativa stipulata dal danneggiato.

Si ammette, di conseguenza, il cumulo di indennizzo e risarcimento, qualora l’assicuratore abbia rinunciato al diritto di surroga, escludendone la sua automatica applicazione, in quanto producente l’iniquo risultato di un ingiustificato arricchimento del responsabile in pregiudizio della vittima dell’illecito (Cass. Civ. Sez. III, 6 dicembre 2004 n. 22883).

Il punto di svolta avviene a distanza di un decennio, quando con due coeve pronunce della Terza Sezione della Corte Suprema, ad opera dello stresso Consigliere relatore[21], si mette a frutto quanto seminato nell’arresto di inizio millennio delle Sezioni Unite, sviluppandone le conseguenze operative ed ampliandone la portata all’ambito della responsabilità civile, con l’obiettivo ben preciso di pervenire ad una regola generale che vieti il cumulo tra prestazione con funzione indennitaria e prestazione risarcitoria.

Focalizzando l’attenzione sulla prima sentenza[22], incidente proprio sulla garanzia contro le disgrazie accidentali invalidanti, richiamata la qualifica di evento dannoso dell’infortunio non mortale ed il suo inquadramento all’interno delle assicurazioni contro i danni, i giudici della Terza Sezione ne desumono la spiccata funzione indennitaria, ostativa al fatto che l’assicurato, una volta indennizzato, possa cumulare anche la prestazione risarcitoria del terzo responsabile, potendo eventualmente pretendere, in sede di risarcimento, il residuo danno non coperto dalla garanzia assicurativa.

L’aspetto innovativo della pronuncia consiste nell’attribuzione al principio indennitario di forza cogente irretrattabile e, nello stesso tempo, di potenzialità pervasive che oltrepassano la sfera del rapporto assicurativo per invadere gli ambiti di pertinenza della responsabilità civile ed interferire con le finalità ad essa precipue.

Se dunque il pregiudizio alla persona arrecato dall’infortunio invalidante si risolve in un danno patrimoniale, eliso dalla funzione compensativa della garanzia assicurativa, la forza dirompente e cogente del principio indennitario ad essa sotteso, attraverso la longa manus dell’istituto della surroga, impedisce all’assicurato di poter vantare nei confronti dell’autore dell’illecito altra forma di ristoro patrimoniale (fatta ovviamente salva la pecunia doloris), in quanto, diversamente, verrebbe a conseguire una indebita locupletazione.

Ritorna il tema assillante del comportamento opportunistico dell’assicurato, dell’ingenerarsi di un suo interesse positivo[23] all’avverarsi del sinistro, con una distorsione del contratto assicurativo a scopi speculativi se non addirittura fraudolenti, pericoli che possono essere sventati solo mediante una automatica operatività della surroga ex art.1916 c.c., funzionale a garantire l’indefettibile applicazione del principio indennitario, ritenuto principio inderogabile di ordine pubblico economico.

Nemmeno l’argomentazione della pattuizione in polizza della rinuncia alla surroga ex art. 1916 c.c. o del suo mancato esercizio da parte dell’assicuratore possono, a detta dei giudici, costituire validi fondamenti per giustificare il cumulo di indennizzo e risarcimento, in tal modo legittimandosi un ingiustificato arricchimento da parte del danneggiato, in spregio al principio indennitario.

Invero, si contesta che la surroga costituisca un diritto potestativo, il cui esercizio sia rimesso alla discrezionalità dell’assicuratore, in quanto la proiezione espansiva del principio indennitario oltre i confini del rapporto assicurativo, consente di introdurre anche una sua innovativa lettura, confutando il consolidato orientamento giurisprudenziale che la configurava quale mero strumento rimesso alla discrezione dell’assicuratore in un’ottica essenzialmente endoassicurativa[24].

La liquidazione dell’indennizzo da parte dell’assicuratore infortuni elide il danno ed estingue il credito risarcitorio del danneggiato nei confronti del responsabile civile, il quale si trasmette automaticamente in capo all’assicuratore solvente, indipendentemente dalla sua volontà di volersi avvalere o meno del diritto di surroga, della cui rinuncia potrà avvantaggiarsi esclusivamente il responsabile e giammai il danneggiato/assicurato, il quale, altrimenti, verrebbe ad arricchirsi, violando il principio indennitario[25].

La postura stentorea di tale principio viene poi ad essere intensificata, attribuendogli una potenzialità espansiva, di cui si fa sapiente uso per giustificare, questa volta sul versante risarcitorio, la bontà della tesi del divieto di cumulo di indennizzo e risarcimento.

Poiché la tesi de quo è costruita sulla constatazione fattuale della unicità dell’evento di danno che viene a colpire il danneggiato, prescindendo da ogni considerazione circa la diversità dei titoli da cui discendono obbligazione indennitaria e risarcitoria, ritenuta del tutto irrilevante, si afferma, conseguentemente, che, qualora lo stesso dovesse ricevere dapprima il ristoro dal responsabile, l’adempimento della obbligazione ex delicto estingue il credito risarcitorio e dunque il danno risarcibile: venuto meno il danno risarcibile, l’adempimento dell’obbligazione indennitaria da parte dell’assicuratore non troverà più alcuna giustificazione, non essendoci più alcun danno da indennizzare.

Come non è possibile cumulare più indennizzi i quali, complessivamente, vengano ad eccedere l’ammontare del danno subito dal danneggiato, così costui non è legittimato a pretendere da un lato l’indennizzo dall’assicuratore e dall’altro il risarcimento dal responsabile civile, in quanto entrambi, indennizzo e risarcimento, assolvono alla medesima funzione compensativa dell’unico danno prodottosi in capo al danneggiato/assicurato.

La proiezione pervasiva del principio indennitario, quale fondante una concezione della integralità del risarcimento che ne viene a limitare fortemente le potenzialità[26], consente, mediante il rispolvero e la rilettura della tralaticia regoletta della compensatio lucri cum damno, di comprovare la tenuta del divieto di cumulo, operando anche sul versante del danno illecito, venendo tuttavia a sconvolgere gli equilibri che reggono le plurifunzionalità della responsabilità civile ed in particolare la finalità di deterrenza.

Il risultato operativo della decisione, derivante dalla pervasività anche in ambito aquiliano del principio indennitario, comporta, dal lato del danneggiato, una ridotta compensazione risarcitoria in ragione della detrazione dal danno risarcibile della somma liquidatagli dall’assicuratore infortuni e, dal lato del responsabile, una quasi sicura locupletazione, riuscendo nella maggior parte dei casi a sottrarsi ad un’azione di rivalsa dell’assicuratore infortuni, attesa la frequente presenza in polizza di una clausola di rinuncia alla surroga, di cui risulterebbe l’esclusivo beneficiario.

La volontà di impedire ad ogni costo ogni forma di cumulo in capo all’infortunato in ottemperanza ad una debordante concezione del principio indennitario provoca, come conseguenza, un grave vulnus al principio di responsabilità, consentendo all’autore del danno illecito di incamerare a proprio vantaggio il frutto di un atto di previdenza dell’infortunato[27].

Questi costituiscono gli approdi cui perviene l’elaborazione degli spunti già presenti in nuce nell’intervento di collocazione sistematica della garanzia privata infortuni compiuto ad inizio secolo dalle Sezioni Unite e che negli anni successivi si vengono a consolidare con ulteriori pronunce volte ad affermare una visione dogmatica e a vocazione totalizzante del principio indennitario[28].

Negli anni immediatamente successivi si segnalano, infatti, una serie di decisioni, sempre della Terza Sezione della Suprema Corte, le quali:

  • nella ipotesi di assicurazioni plurime infortuni, si ravvisa un onere in capo all’assicurato, qualora agisca per ottenere il pagamento dell’indennità di polizza, di provare che il cumulo fra la chiesta indennità e le somme eventualmente da lui già riscosse per il medesimo sinistro da altri assicuratori non superi l’ammontare del danno sofferto in conseguenza dell’infortunio, poiché tale circostanza rappresenta un fatto costitutivo del diritto da lui fatto valere, in quanto, ai sensi del secondo inciso del terzo comma dell’art. 1910 c.c. un danno indennizzabile sussiste solo se esso ricorre (Cassazione Civile Sez. III, 13 aprile 2015 n. 7349);
  • nella ipotesi di assicurazioni plurime infortuni, si ravvisa un onere in capo all’assicurato, qualora agisca per ottenere il pagamento dell’indennità di polizza, di provare che il cumulo fra la chiesta indennità e le somme eventualmente da lui già riscosse per il medesimo sinistro da altri assicuratori non superi l’ammontare del danno sofferto in conseguenza dell’infortunio, poiché tale circostanza rappresenta un fatto costitutivo del diritto da lui fatto valere, in quanto, ai sensi del secondo inciso del terzo comma dell’art. 1910 c.c. un danno indennizzabile sussiste solo se esso ricorre (Cassazione Civile Sez. III, 13 aprile 2015 n. 7349);
  • sempre nella fattispecie di assicurazioni plurime, la tacita rinuncia dell’assicuratore a far valere la reticenza dell’assicurato non comporta la presunzione ex art. 2727 c.c. di una tacita volontà di dar corso al contratto e che, pertanto, costituisce fatto costitutivo del diritto dell’assicurato all’indennizzo, la prova di non aver percepito indennizzi da altri assicuratori sufficienti a ristorarlo del danno subito (Cassazione Civile, Sez. III, 21 luglio 2016 N.14993);
  • nella liquidazione del danno civilistico, oltre alla detrazione degli importi spettanti al danneggiato a titolo di indennità di accompagnamento ex L. 12 giugno 1984 n.222, deve essere detratto, in base alla eccezione di compensatio lucri cum damno (peraltro, senza pratiche conseguenze in quanto non riproposta in sede di appello né nel ricorso di legittimità), anche quanto percepito dalla vittima dal proprio assicuratore infortuni (Cassazione Civile, Sez. III, 20 aprile 2016 n.7774).

Volendo sintetizzare i passaggi fondamentali che hanno scandito questo profondo tornante giurisprudenziale che ha investito non solo la collocazione della garanzia privata infortuni ma anche i rapporti tra prestazioni del welfare privato e sociale e risarcimento, si possono indicare come segue:

  1. inquadramento della garanzia facoltativa infortuni non mortali tra le assicurazioni danni;
  2. superamento del carattere endoassicurativo del principio indennitario e sua vocazione totalizzante anche nei riguardi di terzi soggetti rispetto al contratto di assicurazione, quale principio inderogabile e di ordine pubblico;
  3. automaticità dell’istituto della surroga assicurativa e nel contempo sua applicazione entro le coordinate dettate dall’inderogabilità del principio indennitario;
  4. innovativa lettura della regola operativa della compensatio lucri cum damno, svincolata da ogni considerazione del titolo generativo delle prestazioni di cui viene a beneficiare il soggetto danneggiato ed assurta a principio generale disciplinante la determinazione del danno civilistico in base ad un mero rapporto di causalità di fatto.

4. Il principio indennitario quale regolatore della logica distributiva del danno civilistico, mediante la revisione della compensatio lucri cum damno da parte della Suprema Corte

La riscoperta e reinterpretazione della ormai desueta regoletta operativa della compensatio lucri cum damno (c.l.c.d.), costituirà poi il trait d’union per istituire una interconnessione tra sistema di welfare e sistema risarcitorio sotto l’egida del principio indennitario, quale precetto regolatore di ogni prestazione ritenuta di carattere compensativo e, ad opera di un quadruplice intervento delle Sezioni Unite della Cassazione, verrà dato così il suggello ad una blindatura del welfare privato in chiave indennitaria.

La quaterna di pronunce delle Sezioni Unite emesse dalla Suprema Corte nel 2018[29] si pone, in realtà, quale

epilogo di questo percorso giurisprudenziale, inaugurato ben prima delle ordinanze di rinvio che le hanno promosse, e che ha costituito l’abbrivio per sollevare quel “contrasto occulto” che ha indotto il più alto consesso della giurisdizione ad interrogarsi sulla opportunità di “sottrarre dal risarcimento del danno gli emolumenti versati al danneggiato da assicuratori privati o sociali, ovvero da enti di previdenza”.

L’affondo iniziale contro l’impostazione dell’orientamento tradizionale, alieno dal riconoscere rilievo ai benefici collaterali conseguiti dalla vittima dell’illecito, viene portato confutando la tesi della rilevanza del titolo in base al quale è avvenuto lo spostamento di ricchezza a favore della vittima dell’illecito mediante l’acquisizione di un beneficio collaterale, poiché, diversamente opinando, verrebbe posta nel nulla l’operatività della regola, dovendosi sempre constatare una distinzione giuridica tra tale titolo acquisitivo e quello di responsabilità, determinante la titolarità in capo al danneggiato del risarcimento.

Fatta tabula rasa di ogni comparazione giuridica fra i titoli dei flussi finanziari che pervengono da diverse fonti alla vittima di un illecito, si procede alla ricostruzione della regola in un’ottica puramente materialistica, ricorrendo alla valutazione del mero nesso causale che sostiene le varie attribuzioni a favore del danneggiato, avendo cura di precisare che tale nesso debba essere valutato nei termini della causalità adeguata, eliminando ogni distinzione tra causa e mera occasione, ritenuta ormai un retaggio della tradizione da superare.

A questo punto, però, i giudici si rendono conto che il criterio di selezione adottato rischia di far operare la regola della c.l.c.d. in termini bilancistici, quale mera operazione contabile: essi ritengono, dunque, opportuno inserire nel meccanismo operativo della c.l.c.d., quale correttivo al puro operare del nesso causale materiale, l’ulteriore criterio della rilevanza della funzione svolta dal beneficio collaterale acquisito dalla vittima a seguito dell’illecito.

Una volta intercettato il beneficio nella seriazione causale che si dipana dal fatto illecito, ne dovrà essere dunque valutata la specifica funzione svolta e, qualora collimante con quella compensativa del danno illecito, ritenuta quale finalità prioritaria del sistema della responsabilità civile, pur nella poliedricità delle sue funzioni, dovrà essere portato in detrazione dal risarcimento, anche in ossequio al principio di indifferenza, in base al quale l’illecito non può costituire un pretesto di un ingiustificato arricchimento per il danneggiato.

Si paventa, pertanto, il pericolo, cercando di sventarne l’accadimento, che un generoso sistema di welfare, sia esso di fonte pubblica o privata, possa portare ad una locupletazione della vittima dell’illecito, inserendo il rivisitato meccanismo della c.l.c.d. in un sistema di determinazione del danno civilistico risarcibile che vede sovrapporsi il principio indennitario, non più relegato all’ambito endoassicurativo, al principio della integralità del risarcimento, inteso in una del tutto peculiare accezione[30].

Consapevoli della complessità della questione, i giudici di legittimità, tuttavia, abdicano alla ricerca di una soluzione di tipo generale, supportata da un impianto concettuale e dogmatico, ritenendo preferibile fornire risposte casistiche in base alle specifiche fattispecie, pur non rinunciando a formulare delle linee guida per pervenire alla soluzione del conflitto di natura distributiva generato dal concorrere di obbligazione risarcitoria e prestazioni assicurative o previdenziali.

Tecnicamente, l’operazione delineata dalla Suprema Corte parte da due assiomi:

  • irrilevanza giuridica del titolo da cui proviene il beneficio;
  • rilevanza assorbente del puro nesso di causalità giuridica, nella sua accezione di causalità adeguata ex art. 1223 c.c.

Il test eziologico, tuttavia, costituisce solo una premessa utile per individuare i vantaggi rilevanti, ma rappresenta l’inconveniente che, per altro verso, rende ammissibile l’acquisizione anche di quei benefici che nell’illecito:

  • rinvengono un mero «coefficiente causale» (ad esempio, l’acquisto di lasciti successori), oppure
  • costituiscono «il frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato».

Peraltro, la circostanza che il beneficio derivi da una scelta autonoma del danneggiato e comporti un suo sacrificio finanziario non costituisce per la Suprema Corte elemento impeditivo per l’applicazione del defalco dal risarcimento danno.

Il requisito essenziale (sebbene da solo non sufficiente) che rende operante la regola della c.l.c.d. viene quindi rinvenuto in un’attenta analisi della funzione dell’emolumento ricevuto dal terzo, effettuata per singole classi di fattispecie.

Il corretto modus procedendi per l’applicazione della regola della c.l.c.d. comporta quindi una positiva risposta ai seguenti quesiti:

  • se l’attribuzione patrimoniale abbia o meno lo scopo di compensare, anche pro quota, il pregiudizio patito dal beneficiario;
  • se vi sia o meno una generica previsione legislativa di un diritto di surroga o rivalsa, tale da consentire all’ente erogatore del beneficio di recuperare dal responsabile dell’illecito gli importi corrisposti al danneggiato.

Risulta, invece, del tutto irrilevante che il titolare del diritto di surroga intenda esercitarlo in concreto oppure vi rinunci, essendo a tale istituto attribuita efficacia automatica, per effetto della mera previsione in via legislativa e del tutto svincolata dalle discrezionali modalità del suo esercizio da parte dell’assicuratore, sia esso sociale o privato.

Reinterpretando categorie giuridiche quali il principio indennitario ed innestando nella logica del danno civilistico l’attribuzione di benefici collaterali all’illecito, la Suprema Corte, dietro il riparo degli strumenti asettici della tecnica giuridica, interviene, in supplenza del legislatore, cui spetterebbe la responsabilità politica della decisione, nel modificare le condizioni alle quali l’ordinamento giuridico subordina gli spostamenti di ricchezza tra individui[31].

In questo contesto, l’attribuzione di una efficacia automatica alla surroga assicurativa, ricondotta nell’alveo dell’istituto della surroga legale ex art. 1203 n.4 c.c., svolge, secondo i giudici,  una funzione riequilibratrice all’interno del modificato assetto distributivo portato dalla nuova lettura della c.l.c.d. ma, nei fatti, risulta in linea con la forza sovraordinante del principio indennitario, quale criterio disciplinante la determinazione del danno risarcibile e destinato a sovrapporsi al principio di responsabilità.

Sebbene l’unica decisione della quaterna di pronunce relativa ad una polizza assicurativa privata riguardasse non una garanzia infortuni bensì un’assicurazione contro i danni a cose, il nuovo corso sancito dalla Suprema Corte non ha esitato ad imporsi.

Nel quartetto di pronunce, si evidenzia, invero, un’unica decisione concernente l’innesto nella logica distributiva del danno civilistico del beneficio collaterale, nel caso di specie derivante dalla rendita per invalidità permanente erogata dall’INAIL al lavoratore per un infortunio in itinere, disponendone, in ottica compensativa, il defalco, nonostante l’ente non avesse esercitato il diritto di rivalsa, già peraltro caduto in prescrizione[32].

La sancita apoteosi del principio indennitario, con la scongiurata locupletazione dell’infortunato, ha quindi prodotto, quale correlato e non irrilevante effetto, che il responsabile dell’illecito, profittando dell’altrui copertura assicurativa (nel caso prestata da assicuratore sociale), si è visto, invece, premiare con un sostanzioso alleggerimento del proprio obbligo risarcitorio, in spregio al principio di responsabilità che impone di sopportare integralmente tutte le conseguenze pregiudizievoli del proprio comportamento.

Ben presto, anche i benefici collaterali provenienti dal welfare privato contro le disgrazie accidentali saranno costretti a passare sotto il giogo delle forche caudine della rimodulata regola operazionale a mezzo di pronunce sia di merito che di legittimità, attuative del nuovo indirizzo.

Nello stesso anno, il Tribunale di Bolzano[33] porta in detrazione dal risarcimento spettante alla vittima di un sinistro stradale, dal quale ha riportato postumi pari al 13%, l’importo ricevuto in base alla polizza privata infortuni dalla stessa stipulata; mentre il Tribunale di Firenze[34] all’assicurato che già aveva percepito un risarcimento di € 56.500 dall’assicuratore RCA di controparte e che reclamava dal proprio assicuratore infortuni una indennità per postumi invalidanti pari a 14 punti, applica la c.l.c.d., pur in presenza in polizza di clausola di rinuncia all’azione di surroga.

A consolidamento dell’arresto giurisprudenziale del 2018, arriva l’anno successivo, da parte della stessa Cassazione[35], la conferma della decisione della corte di merito (Tribunale di Como, 4 agosto 2014 n.816) la quale, in applicazione della c.l.c.d.,  nega al conducente e riconosce invece al trasportato, nella misura di soli € 32,81, il risarcimento per le lesioni riportate in un incidente stradale con responsabilità concorsuale, atteso che, entrambi, avevano già riscosso dal proprio assicuratore infortuni importi pari a € 2.780 ciascuno e sebbene le rispettive polizze contenessero rinuncia a rivalsa.

5. L’insostenibile e perniciosa funzione indennitaria conferita alla garanzia privata infortuni

Nell’arco di un ventennio, il formante giurisprudenziale ha sconvolto quel precario equilibrio sul quale, in assenza di una disciplina normativa, si reggeva la garanzia privata infortuni, nata e congegnata dalla prassi mercantile nell’intelaiatura di un negozio socialmente tipico, refrattario ad ogni ingessatura dogmatica e sapientemente assecondato dalle corti nei limitati casi in cui venivano adite a dipanare questioni che, in via del tutto eccezionale, non trovavano soluzione all’interno dell’assetto contrattuale divisato dalle parti.

Il fulcro sul quale è stata impostata tutta la costruzione indennitaria della garanzia è stato inizialmente posto nella identificazione, da parte delle Sezioni Unite del 2002, dell’infortunio non mortale quale evento di danno a carattere squisitamente patrimoniale, incidente cioè sulla esclusiva capacità di produrre reddito della persona.

Tale configurazione appare del tutto singolare, ove si consideri che la stessa giurisprudenza, ormai da decenni si era svincolata dalle strettoie della concezione patrimoniale del danno civilistico di matrice ottocentesca, per poi raccogliere all’interno di un sistema bipolare il variegato polimorfismo dei pregiudizi arrecati dall’atto illecito alla persona.

Ma l’irriducibilità dell’evento infortunistico nella stessa categoria giuridica del danno emerge vieppiù con cristallina evidenza  dalla constatazione che un’affatto non disprezzabile casistica in cui esso viene a realizzarsi, appare attribuibile a fattori naturali integranti il caso fortuito[36], non essendo riconducibile né a responsabilità di terzi né a colpa dello stesso infortunato, ipotesi quest’ultima che, tra l’altro, non integrerebbe un danno illecito, atteso il consolidato principio di esclusione dalla sfera della risarcibilità del danno autoprodotto dallo stesso danneggiato, come sancito dall’art. 1227 c.1 c.c.[37]

Forzata se non addirittura irrealistica si rivela dunque la collocazione, nel primo capoverso della bipartizione definitoria dell’art. 1882 c.c., della disgrazia accidentale invalidante, giacchè essa denota, anche nel suo valore lessicale comune, un evento attinente alla vita umana che, incidendo sulla integrità fisica della persona, ne viene a sconvolgere i piani e le prospettive future anche, ma non solo, sotto il profilo di un pregiudizio alle sue potenzialità produttive di reddito.

Tuttavia, anche a voler accedere ad una visione monofunzionale della persona, interamente protesa alla produzione di ricchezza, risulta comunque inconfutabile l’obiezione circa l’impossibilità di conferire al corpo umano un valore economico oggettivo quale quello (prezzo) attribuibile ad un bene materiale (cosa) in base al meccanismo dell’incontro di domanda ed offerta sul mercato.

Né a tale assunto può essere validamente opposto l’ormai affermatosi sistema tabellare di valutazione del danno alla persona in ambito risarcitorio, posto che trattasi di dispositivo convenzionale, sancito per legge, per la determinazione del valore dell’integrità psicofisica della persona, compromessa dall’atto illecito del terzo e volto alla sua compensazione con somma in denaro, nell’ottica di una riduzione della sua intrinseca indeterminatezza e per favorire la capacità previsionale in sede assicurativa, tenuto conto, oltretutto, del suo operare nell’ambito di sistemi di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile[38].

Del resto, le tabelle di valutazione del danno civilistico alla persona, oltre ad apprezzare anche la dimensione areddituale della persona (accanto al danno biologico statico e cioè riguardante una generica capacità di produrre reddito, prendono in considerazione la componente dinamica relativa alle attività extralavorative della persona e quella della sofferenza psichica) seguono metodologie di stima (età, sesso, possibilità di graduazione della stima del danno in rapporto a specifiche circostanze) del tutto avulse dalle dinamiche di formazione di un prezzo di mercato.

Ciononostante, la Suprema Corte ha liquidato sbrigativamente ogni obiezione all’equiparazione al danno a cose della disgrazia invalidante, trovandone conferma probatoria tramite l’ardito sillogismo secondo il quale, se nell’ambito della polizza infortuni le parti possono determinare convenzionalmente, al momento della stipula del contratto,  nella somma assicurata per I.P. il valore del danno alla persona, allora si è di fronte ad un’assicurazione di cose, stante l’inconfutabile affermazione codicistica che “il valore delle cose assicurate può essere tuttavia stabilito al tempo della conclusione del contratto, mediante stima accettata per iscritto dalle parti” (art. 1908 c.2)[39].

L’audace quanto inconferente argomentazione della Corte, a supporto della sistemazione della disgrazia invalidante tra i danni a cose, ha fornito poi il fondamento logico per perseguire la finalità di imbrigliare la garanzia infortuni invalidanti nelle catene di un principio indennitario, quale regola inderogabile di ordine pubblico economico, senza peraltro avvedersi che la disposizione del capoverso dell’art. 1908 c.c. ammette una forma di copertura assicurativa contro i danni svincolata proprio da quelle regole che ne costituiscono i caposaldi[40].

La polizza stimata, infatti, congegnata mediante una stima convenzionale, alla stipula del contratto, della cosa assicurata, a prescindere dal suo valore oggettivo di mercato, spesso di difficile determinazione o facilmente controvertibile, consente che l’indennizzo venga liquidato in base a tale valore stimato, a prescindere da un accertamento del valore reale della cosa al momento del sinistro, fatta salva la prova di frode o esagerazione dolosa[41].

Ma tanto risoluto è l’intento, perseguito dalle Sezioni Unite di inizio secolo, di assoggettare la garanzia infortuni invalidanti al principio indennitario che, in palese contraddizione con la operata qualifica di polizza stimata, ritengono che, nonostante l’assicurato abbia assoluta discrezionalità “di stabilire l’importo dell’indennizzo, svincolandolo da ogni obiettivo riferimento alle conseguenze dannose della lesione” e l’assicuratore “la facoltà di non accettare la proposta”, ciò non osti, pur a fronte di perfezionamento dell’accordo contrattuale, ad una “valutabilità” a posteriori e in termini oggettivi, “del pregiudizio che un infortunio può determinare nel patrimonio o nella persona” tale da rendere “percepibile la manifesta sproporzione tra l’indennizzo preteso …. e presumibili conseguenze dell’infortunio”.

Ora, se la polizza stimata consente di derogare alla regola fondante il principio indennitario della equivalenza tra valore assicurabile e valore assicurato con riguardo a beni aventi misura oggettiva di mercato, non si comprende come la stima del valore della persona, irriducibile ad una dimensione quantitativa di mercato, dopo essere stata operata ed accettata per iscritto da entrambe le parti alla stipula del contratto, possa essere sindacata ex post, al momento del sinistro, senza peraltro precisare i parametri di riferimento da opporre a tale stima, non potendosi validamente sostenere il rimando alle tabelle di valutazione del danno civilistico che, come si è visto, perseguono logiche proprie della responsabilità civile e della relativa assicurazione obbligatoria.

Eppure, tale peculiare interpretazione della polizza stimata, attagliata a guisa di garanzia contro gli infortuni invalidanti, è stata riproposta dalla stessa Corte di Cassazione[42], in epoca coeva all’arresto delle Sezioni Unite sulla c.l.c.d., anche per la garanzia I.P. da malattia, ritenuta “ipotesi in tutto assimilabile alla lesione conseguente ad infortunio non mortale” e dunque assoggettabile alle regole inderogabili del principio indennitario.

In sintonia con una visione totalizzante di tale principio, volta ad impedire ogni fonte di lucro o di indebito arricchimento, i giudici della Terza Sezione, negano agli aventi diritto dell’assicurato, nel frattempo deceduto, la possibilità di cumulo delle somme assicurate con due polizze I.P. da malattia (rispettivamente per L.400.000 cioè Euro 206.582,76 e per Euro 300.000), contratte con lo stesso assicuratore a distanza di tempo l’una dall’altra, affermando che il danno patito e dunque reclamabile “corrisponde necessariamente all’importo più ampio convenzionalmente indicato nella seconda polizza in Euro 300.000,00”.

L’apoditticità di tale affermazione poggia sull’“assenza di un collegamento negoziale tra le dette polizze esplicitato nel testo negoziale, ovvero di una qualsivoglia previsione in ordine alla loro cumulabilità o, ancora, di una espressa qualificazione della seconda polizza siccome volta a coprire un rischio “suppletivo” rispetto a quello già coperto dalla prima”, mentre irrilevante viene considerato l’esame di una clausola di polizza (art. 34), peraltro non ritenuta dirimente dal giudice di merito, che vietava il solo cumulo con una garanzia infortuni.

Evidente risulta l’assoluta arbitrarietà della determinazione del valore della salute della persona assicurata indicato nella somma più elevata tra quelle dedotte nelle due polizze, così come del divieto di cumulo delle due somme, assicurate in tempi successivi, e, dunque, riflettenti un aumentato bisogno di protezione assicurativa, peraltro accettate dal medesimo assicuratore e, di conseguenza, non rapportabili alla fattispecie dell’art. 1910 c.c.

Ma ormai la potenza pervasiva del principio indennitario, quale regola inderogabile di ordine pubblico, dilaga dalla garanzia infortuni a quella malattia e, nello stesso torno di tempo, si espande anche alla sfera del danno civilistico, con la pretesa di una reductio ad unum, sotto il segno del divieto dello scopo di lucro, dell’indebito arricchimento, “al fine di evitare che il sinistro apporti un vantaggio economico all’assicurato costituendo un incentivo al prodursi di fatti dannosi alla pubblica economia”.

Alla base di questa concezione sta un equivoco di fondo: l’identificazione tra generica funzione indennitaria e principio indennitario.

Come è stato acutamente osservato mentre “l’obbligazione e prestazione dell’assicuratore è sempre, peraltro, indennitaria in senso generico”, in quanto “la funzione indennitaria generica rientra nel trasferimento del rischio”, il principio indennitario costituisce nozione distinta ed “opera quando si possa stimare ex ante l’importo del danno possibile, e/o ex post l’importo del danno concreto, ovvero nei contratti di assicurazione di cose e di patrimoni, i quali sono contratti di indennità”[43].

In tali contratti ed in ispecie nelle assicurazioni contro i danni a cose, ove è oggettivamente determinabile il valore economico del bene assicurato, tramite il riferimento ad un prezzo o ad un indice di mercato, il principio indennitario consente di limitare “la possibilità di acquisto di assicurazione ex ante” ed “ex post la prestazione di indennizzo dell’assicuratore”[44], allo scopo precipuo di salvaguardare, al momento della stipula del contratto, la effettiva corrispondenza tra l’importo della garanzia richiesta (valore assicurato) ed il valore di mercato del bene (valore assicurabile); al momento del sinistro, la correlazione tra indennizzo da corrispondere e le conseguenze economiche negative derivanti dalla incidenza sul bene assicurato della realizzazione del rischio.

Ambiti di operatività del principio indennitario, invece, non possono in alcun modo ravvisarsi per quelle garanzie i cui beni esposti al rischio sono l’integrità fisica e la salute dell’assicurato, irriducibili ad un valore oggettivo e di mercato ma oggetto di esclusiva determinazione convenzionale delle parti, peraltro non assimilabile ad un valore di stima sussumibile nell’ambito del capoverso dell’art. 1908 c.c., norma il cui perimetro di azione risulta limitato alle cose, “ogni volta che esse sono di ingente valore e non è possibile desumerne il valore da listini, indici o particolari documenti”[45], “soprattutto allo scopo di agevolare la liquidazione del danno, nel senso di renderla possibile, corretta o, comunque, più rapida”[46].

Se poi il problema consiste nell’evitare di favorire finalità di lucrum captare ex ante, in fase precontrattuale, atteso che il capitale dedotto in polizza per il caso di infortunio invalidante, così come quello per infortunio mortale, viene pattiziamente concordato tra contraente ed assicuratore, non vi è spazio per l’operare del principio indennitario: l’eventuale comportamento opportunistico dell’assicurato (moral hazard) risulta controllato direttamente dallo stesso meccanismo negoziale, potendo l’assicuratore agire con la leva dell’aumento del premio o, addirittura, in ipotesi di particolare gravità, declinare la copertura[47].

Successivamente alla conclusione del contratto, l’assicurato, a differenza delle coperture danni a cose, dove può incidere anche sulla entità del danno, nell’assicurazione infortuni, essendo il capitale assicurato pattiziamente convenuto, può esclusivamente influire sulla probabilità dell’evento o sulle modalità del suo accadimento: ciò riguarda, tuttavia, non un problema di moral hazard bensì di selezione avversa (adverse selection) cioè di predeterminazione contrattuale del profilo di rischio (attività lavorativa, abitudini di vita, caratteristiche dell’individuo, ecc.).[48]

Il principio indennitario potrebbe trovare, quale regola inderogabile, un suo ambito di operatività, qualora il moral hazard dell’assicurato travalichi il rapporto contrattuale, determinando esternalità negative, non eliminabili mediante internalizzazione, ad opera della stessa negoziazione, dei relativi costi: ipotesi dell’assicurazione infortuni di altri soggetti con messa in pericolo della vita altrui oppure tentativi di autolesionismo.

Ma, al riguardo, sovvengono altri apparati normativi sia civili che penali: applicabilità dell’art. 1919 c.c. anche all’assicurazione sugli infortuni; esclusione della copertura assicurativa per i fatti dolosi dell’assicurato e del contraente, ai sensi dell’art. 1900 c. 1 c.c.; repressione penale a termini dell’art. 642 c.2 c.p., il quale  sanziona chi cagiona a se stesso una lesione personale o aggrava le conseguenze della lesione personale prodotta da un infortunio o denuncia un sinistro non accaduto ovvero distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di prova o documentazione relativi al sinistro.[49]

Pertanto, non appare rinvenibile alcuna valida argomentazione a sostegno dell’applicabilità del principio indennitario, vieppiù in veste di regola inderogabile di ordine pubblico, nel contesto della garanzia contro gli infortuni invalidanti.

Infatti, la norma di cui all’art. 1910 c.c., ritenuta espressione del principio indennitario, sancito dalla triade art. 1905 c.c., art. 1910 c.c. ed art. 1916 c.c., non risulta indicata quale disposizione inderogabile dall’’art. 1932 c.c.[50]

Sebbene autorevole dottrina[51] sostenga che la circostanza della non menzione di determinate norme da parte del precitato articolo tra le disposizioni che “non possono essere derogate se non in senso più favorevole all’assicurato” non significhi che per ciò stesso esse abbiano carattere dispositivo, volendo solo significare che esse non risultino derogabili nemmeno a favore dell’assicurato, tuttavia, non appare controvertibile come le disposizioni del Codice Civile in materia contrattuale (e dunque anche quelle concernenti il contratto di assicurazione) rivestano mera efficacia dispositiva, a meno di una espressa loro qualifica di inderogabili da parte dello stesso legislatore, diversamente opinando, verrebbe gravemente ed immotivatamente leso il principio di autonomia privata.

Prova ne sia che la stessa prassi assicurativa ha sempre provveduto a derogare contrattualmente sia l’art. 1910 c.c., sia l’art. 1916 c.c.

A proposito della fattispecie di assicurazioni plurime, le polizze offerte sul mercato[52], in sintonia con il modello tipo proposto da ANIA, prevedono solo un obbligo di comunicazione dell’esistenza e della successiva stipulazione di altre assicurazioni per il medesimo rischio e, correlativamente l’obbligo di avviso a tutti gli assicuratori, in caso di sinistro: non vengono dunque richiamati il terzo e quarto comma dell’art. 1910 c.c. non prevedendo “che l’indennizzo dovrà essere corrisposto secondo quanto previsto dal contratto purchè le somme complessivamente riscosse non superino l’ammontare del danno” né il diritto di regresso fra gli assicuratori plurimi.

Ora, in tal modo, viene obliterata ogni impostazione indennitaria della garanzia, sancendo invero tale clausola “l’obbligo di informativa e cooperazione dell’assicurato”[53] finalizzata a consentire all’assicuratore, in fase contrattuale, di valutare le condizioni di assunzione del rischio ed eventualmente di negare il suo assenso alla proposta di copertura.

A fronte di una violazione di tale obbligo da parte dell’assicurato, traducentesi anche in una reticenza gravemente colposa o dolosa ma certamente non equiparabile alla fattispecie di sinistro procurato dolosamente, punito dall’art. 1900 c.c., non risulterebbe opportuna la sanzione della perdita dell’indennizzo, quanto piuttosto la previsione in polizza della facoltà da parte dell’assicuratore, una volta scoperta la reticenza, di recedere dal contratto, ferma restando la corresponsione della somma pattuita nel caso di scoperta dopo l’accadimento dell’infortunio[54]: segnali in tal senso già si intravvedono sul mercato[55].

Parimenti ampiamente derogabile risulta nella prassi assicurativa il diritto di surrogazione ex art. 1916 c.c., tradizionalmente concepito quale diritto potestativo in capo all’assicuratore il quale, da sempre, preferisce evitare le lungaggini e gli incerti esiti del contenzioso contro il terzo responsabile, pattuendo in polizza la rinuncia ad esercitare la rivalsa a fronte di un contenuto aumento di premio da parte dell’assicurato: da parte sua, quest’ultimo, in caso di sinistro, si viene ad assicurare l’integrale riscossione della somma pattuita senza dover subire una riduzione del suo credito risarcitorio.

Le argomentazioni avanzate dalla Suprema Corte a supporto della propria configurazione del diritto di surroga, secondo cui:

  • la riscossione da parte della vittima di un infortunio addebitabile a terzi della somma assicurata in polizza “elide in misura corrispondente il suo credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, che pertanto si estingue e non può essere più preteso né azionato”;
  • una eventuale rinuncia a tale diritto da parte dell’assicuratore sarebbe dunque possibile solo a favore del terzo responsabile;
  • l’operatività di tale diritto risulta pertanto automatica in base alla mera sua previsione legislativa e senza che possa in alcun modo incidere la decisione circa il suo esercizio da parte del titolare;

risultano, oltre che sconfessate dalla pratica mercantile, anche palesemente confutabili e foriere di conseguenze aberranti.

L’affermazione che la riscossione dell’indennizzo da parte dell’infortunato possa elidere in misura corrispondente  il suo credito risarcitorio nei confronti del responsabile riduce le due prestazioni, assicurativa e risarcitoria, a pure operazioni fattuali e contabili, abdicando ad una loro configurazione giuridica che ne verrebbe ad esaltare la diversa fonte e titolo, giacchè non si può limitare il tutto ad un mero nesso eziologico originantesi dal medesimo evento di danno, parificando obbligazione indennitaria ed obbligazione risarcitoria sotto un profilo teleologico di mera eliminazione di una posta di danno.

Quanto poi alla tesi che di una rinuncia all’azione di surroga, ottenuta dall’assicurato dietro corrispettivo di un supplemento di premio, possa beneficiarne il responsabile stesso dell’infortunio, essa urta, non solo contro un sentimento di equità, ma senza alcun dubbio contro il principio, questo sì inderogabile, di responsabilità, in base al quale l’autore di un illecito deve farsi carico integralmente di tutto il pregiudizio arrecato con tale suo atto[56].

Né, su valido fondamento, è possibile costruire un’automatica operatività della surroga, atteso che l’assicuratore infortuni adempie la propria prestazione a favore dell’assicurato/infortunato esclusivamente in base ad un obbligo contrattuale assunto con lo stesso, mentre tale adempimento non può in alcun modo essere considerato compiuto anche per il responsabile dell’infortunio o in solido con lo stesso: mancano, dunque, i presupposti per poter inquadrare la surroga dell’assicuratore nella più ampia fattispecie della surrogazione legale ex art. 1203 c.3 c.c.[57]

Spetta quindi all’assicuratore solvente, qualora non abbia già rinunciato preventivamente in polizza a tale diritto potestativo, decidere se avvalersene o meno, dichiarando espressamente al terzo responsabile che intende subentrare nell’azione risarcitoria spettante alla vittima dell’illecito per recuperare quanto corrisposto all’infortunato.

Diversamente opinando, in caso di automaticità ope legis del diritto di surroga, pur in presenza di rinuncia o mancato esercizio di fatto da parte del suo titolare, verrebbe inferto un grave vulnus al principio di responsabilità, legittimandosi un inammissibile esonero del responsabile dal pagamento del proprio debito risarcitorio nei confronti della vittima dell’illecito.

Sembra invece che la Suprema Corte, nel suo più elevato consesso, non si dia pensiero di tale vulnus, completamente dedita ad impedire la regola del cumulo, in quanto legittimante un indebito arricchimento nel patrimonio dell’infortunato e, a tal fine, rinvenendo proprio nella fattispecie legale della surroga un meccanismo di raccordo tra il vantaggio collaterale e quello risarcitorio, istituito dal legislatore allo scopo precipuo di anteporre l’applicazione del principio indennitario, facendo venir meno un ritenuto ingiustificato favor per la vittima dell’illecito: “illecito che sparisce nelle pieghe di una sorte di catarsi indennitaria”[58].

Ma, a ben vedere, la regola del cumulo tra vantaggio collaterale derivante dalla prestazione assicurativa e credito risarcitorio non comporta alcuna indebita locupletazione in capo alla vittima dell’illecito.

Come appare evidente per tabulas (art. 2041 c.c.), una situazione di ingiustificato arricchimento si realizza qualora chi si arricchisce lo fa “senza giusta causa” e “a danno di un altro” ma tali condizioni non sussistono in capo all’infortunato che cumula prestazione assicurativa e risarcimento.

Si è, infatti, perspicacemente osservato[59] che l’infortunato, vittima dell’illecito, acquisisce, per giusta causa, il risarcimento dal responsabile, in quanto autore di un danno ingiusto a suo pregiudizio; per contro, la percezione dell’indennità assicurativa da parte dell’infortunato non avviene a danno del responsabile e con una sua “correlativa diminuzione patrimoniale”, in quanto egli la riceve non in quanto pagata per conto del danneggiante ma in forza di un  autonomo rapporto contrattuale instaurato con l’assicuratore.

Anzi, è la conclusione a cui conduce l’argomentazione a supporto dell’automaticità della surroga che determina un ingiustificato arricchimento del responsabile dell’infortunio con l’esonero dal pagamento del proprio debito risarcitorio.

Lo stesso principio di integralità del risarcimento, tradizionalmente interpretato nel senso che sul responsabile debbono gravare tutte le conseguenze pregiudizievoli arrecate alla vittima del suo atto, viene richiamato, equivocandone il contenuto ed  interpretandolo non in un termini espansivi, quale catalizzatore sull’autore dell’illecito, quale “primary cost bearer” delle poste di danno reclamate a giusto titolo dalla vittima, bensì in termini restrittivi e residuali, facendo del responsabile un mero “gap filler” per quelle istanze compensative non altrimenti soddisfatte.[60]

Volendo tirare le fila di tutta l’elaborazione, in chiave indennitaria, della garanzia privata infortuni, operata dalla Corte di legittimità, precipuamente nella sua istanza apicale, nel corso di questo primo ventennio di secolo, non solo si evidenziano aporie e contraddizioni che contraddistinguono i punti di svolta (infortunio quale evento di danno, surroga, regresso e compensatio lucri cum damno quali manifestazioni dell’inderogabilità di una regola indennitaria totalizzante) di questa ricostruzione dogmatica ma emergono altresì ricadute perniciose per la stessa sopravvivenza e vitalità di una protezione assicurativa che, in uno scenario di sempre più accentuato arretramento dello stato sociale, rappresenta un asse portante di un nuovo welfare privato.

A partire dalle soglie dell’attuale millennio, il formante giurisprudenziale è dunque intervenuto pesantemente e con una chiara visione ideologica su di un contratto socialmente tipico e a larga diffusione nel mercato ma privo di veste legale, trasformandone  le sembianze e riducendolo ad un mero sottotipo di assicurazione contro i danni: in tal modo, ha segregato il modello italiano della garanzia contro le disgrazie invalidanti dal resto delle principali esperienze giuridiche europee, nelle quali l’assicurazione privata infortuni rifugge da ogni logica indennitaria, in quanto scevra da finalità compensative di uno specifico pregiudizio economico.

Urge allora porsi l’interrogativo di quale sia la reale funzione di una garanzia modellata su di un’architettura a base fondamentalmente negoziale e destinata ad operare in un ordinamento che ha optato per la riduzione dell’esperienza assicurativa all’interno di un rigido sistema bipolare nel quale tra il trasferimento finanziario del rischio a scopo indennitario e quello a scopo previdenziale tertium non datur.[61]

Al riguardo, appare opportuno dapprima esaminare quali soluzioni abbia proposto la dottrina.

6. Principali orientamenti dottrinali su natura e scopo della garanzia privata infortuni

Le posizioni espresse sulla garanzia infortuni dalla dottrina si possono collocare essenzialmente su quattro versanti:

  • natura previdenziale e conseguente assorbimento della garanzia all’interno delle assicurazioni relative agli eventi attinenti alla vita umana;
  • natura indennitaria, in quanto compensativa di un evento dannoso e, pertanto, assimilabile alle assicurazioni contro i danni;
  • natura di assicurazione di persone e, dunque, tertium genus, in quanto l’autonomia negoziale, recependo od escludendo l’operatività di norme dell’uno o dell’altro plesso normativo codicistico, sarebbe in grado di congegnare un assetto contrattuale a funzione previdenziale ovvero indennitaria, in base alle esigenze delle parti;
  • natura di garanzia mista, ravvisandosi una assicurazione contro i danni per quanto concerne la copertura per invalidità permanente o temporanea e di assicurazione sulla vita per quanto si riferisce alla copertura caso morte.

Assolutamente predominante in giurisprudenza per tutto il secolo scorso, la concezione previdenziale della garanzia infortuni è stata invece accolta dalla dottrina solo fino al termine degli anni ’60, quando la contrapposta visione compensativa cominciò ad imporsi[62].

L’idea sulla quale tale concezione poggiava era che l’integrità fisica e la salute, così come la vita umana, sono beni irriducibili ad una quantificazione in termini economici e, di conseguenza non compensabili in denaro.

Del resto, l’infortunio, più che evento di danno, veniva prospettato quale evento attinente alla vita umana che colpiva la persona sia nella sua attività o capacità lavorativa, sia nei suoi rapporti familiari e di relazione, non solo menomandone la sua capacità di guadagno ma anche aumentandone i bisogni.

La garanzia infortuni, anche nel caso di disgrazia invalidante, non era ritenuta svolgere una funzione compensativa di uno specifico pregiudizio economico, quanto rappresentava un atto di previdenza volto ad assicurare una provvista finanziaria che, a fronte di un mutato scenario nella vita della persona, fosse in grado di far fronte alle nuove esigenze di sussistenza personali e familiari ed agli aumentati bisogni.

L’atto di previdenza, infatti, non prende in considerazione uno specifico pregiudizio e neppure è funzionale alla sua compensazione in termini economici mediante una indennità o un rimborso ad esso parametrati (per postumi permanenti residuati da una lesione, per mancata percezione dello stipendio durante i giorni di malattia conseguenti ad infortunio, per determinate spese mediche e di cura), quanto piuttosto fornisce al soggetto che lo compie una disponibilità finanziaria per far fronte al sopraggiungere, causa l’infortunio, di una sproporzione tra bisogni e mezzi per soddisfarli  e cioè mira alla soddisfazione delle sue necessità di sostentamento personali e familiari.

In sintesi, la teoria previdenziale della garanzia infortuni trova dunque il suo fulcro in questi assiomi:

  • irriducibilità del bene assicurato ad una cosa materiale, oggetto di quantificazione oggettiva in termini monetari (prezzo, indici di mercato, valutazione forfetaria);
  • non riconducibilità della prestazione assicurativa ad una forma di compensazione indennitaria di un preciso e quantificabile nocumento economico conseguente ad uno specifico danno e ad esso parametrato.

In stretta sintonia con la concezione patrimoniale del danno, recepita dal Codice Civile del 1942 e, nonostante che in ambito di valutazione del danno civilistico già affiorassero i primi tentativi volti ad un suo superamento, cominciarono, tuttavia, ad imporsi orientamenti che evidenziavano come nella garanzia infortuni il bene assicurato non fosse l’integrità psico-fisica dell’uomo nelle sue più diverse potenzialità di estrinsecazione, bensì la sua esclusiva dimensione di produttore di reddito e, in quanto tale, oggetto di quantificazione economica, qualora menomata o annullata dall’infortunio.

La concezione indennitaria della garanzia infortuni si basa dunque sulla identificazione del bene assicurato nel corpo dell’uomo, quale insieme di “forze intellettuali e fisiche che, se indirizzate verso un’attività produttiva di qualsiasi genere, costituiscono la sua capacità lavorativa”[63]: qualora essa venga menomata o annullata dall’infortunio essa viene compensata dalla polizza infortuni, quale riduzione o perdita della capacità reddituale, sotto forma di un indennizzo economico.

Se dunque il bene assicurato è il corpo dell’uomo[64] e questo si riduce alla sua capacità lavorativa, vi sono i presupposti per una quantificazione della lesione di tale specifico bene, assimilabile pertanto ad un danno inferto ad una cosa.

L’infortunio stesso non è più concepito come evento della vita umana, bensì quale mero fatto dannoso suscettibile di compensazione indennitaria, anche se in misura forfetaria, mediante una valutazione di stima, metodologia espressamente prevista per il danno a cose dall’art. 1908 c.2 c.c.

Superata definitivamente “l’opinione che riteneva ripugnante al diritto ed alla morale attribuire un valore al corpo dell’uomo”[65], si fa dunque strada in dottrina una logica indennitaria che sarà destinata a prevalere nelle ricostruzioni successive, nel tentativo di conferire alla garanzia contro le disgrazie accidentali invalidanti una sicura veste dogmatica, entro le maglie del sistema binario codicistico, e tale da renderla immune da temuti utilizzi a scopo speculativo se non addirittura quale baluardo contro operazioni di carattere fraudolento.

Risale alla fine degli anni ’60 una pregevole monografia ricostruttiva che, in chiave metodologica, espunge ogni tentativo di impostazione classificatoria in base a specifici elementi contrattuali, quali la natura dell’evento o il contenuto della prestazione[66], per focalizzare l’attenzione sulla funzione tipica della garanzia, quale emerge “dalla natura delle obbligazioni fondamentali delle parti, in base alla disciplina contrattuale contenuta nelle polizze e ai caratteri peculiari dell’operazione tecnico-economica che ne costituisce il presupposto”[67].

Infatti, limitandosi ad un’analisi dei singoli elementi contrattuali, emerge che alla “natura intrinsecamente dannosa dell’evento (infortunio)” si contrappone “la predeterminazione convenzionale ed astratta della somma dovuta dall’assicuratore”[68] ma tale distonia provoca difficoltà solo apparenti: da un lato, “il carattere intrinsecamente dannoso dell’evento non esclude che lo stesso sia considerato dalle parti quale semplice presupposto dell’obbligo di pagare la somma assicurata”[69]; dall’altro la valutazione del danno provocato dall’evento venga operata “su criteri sufficientemente obiettivi”[70] anche se sulla base ad una stima convenzionale.

Le difficoltà vengono ad essere superate, qualora si proceda alla individuazione della natura dell’obbligazione dell’assicuratore, fondata su una valutazione forfetaria e predeterminata del danno, e nel contempo si colleghi ad essa quella dell’assicurato, rinvenibile nel pagamento di un premio che, nella sua struttura tecnica di premio puro, “è calcolato in base al solo elemento probabilistico e cioè un premio che si presenta strutturato secondo gli schemi tipici delle assicurazioni contro i danni”[71].

Ora, la individuazione del carattere delle due obbligazioni contrattuali, in rapporto alle specificità tecniche della operazione assicurativa sottostante, è rivelatrice della funzione tipica dell’assicurazioni infortuni.

A fronte dell’obbligazione di pagamento di una somma corrispondente ad una valutazione convenzionale del danno e nondimeno in base a criteri oggettivi, sta infatti l’obbligo dell’assicurato di pagare un premio che tiene in considerazione “soltanto il prevedibile ammontare delle somme dovute dall’assicuratore in relazione all’incidenza statisticamente determinata di certi eventi in un periodo di tempo prestabilito”[72], senza alcuna considerazione né del fattore demografico né di quello finanziario, costituito dalla capitalizzazione del premio.

Questi due fattori costituiscono, invece, le basi tecniche sulle quali viene costruito il premio puro nelle assicurazioni sulla vita.

Pur essendo rilevante, tuttavia, “non si può considerare determinante la struttura tecnica del premio”[73] al fine di collocare la garanzia privata infortuni nelle assicurazioni contro i danni ma deve essere verificata anche la sussistenza di “una disciplina sostanzialmente analoga”[74], mediante “un esame comparativo”[75] che attesti “la sostanziale identità degli elementi causali essenziali”[76], senza peraltro che l’eventuale presenza di clausole atipiche rispetto alla disciplina delle assicurazioni contro i danni possa escluderne la natura indennitaria.

Senza addentrarci nelle tecnicalità di tale “esame comparativo”,  esso conduce alla conclusione di ritenere compatibile con la funzione indennitaria delle assicurazioni contro i danni “la struttura causale unitaria”[77] della garanzia infortuni, sia per il caso di invalidità permanente o di inabilità temporanea sia per “la conseguenza estrema della morte dell’assicurato” che trova giustificazione nella “natura intrinsecamente dannosa dell’evento in rischio (infortunio mortale) e la sua previsione quale presupposto del diritto all’indennità in una fattispecie contrattuale unitaria (polizza infortuni) essenzialmente informata alla disciplina delle assicurazioni contro i danni”[78].

Poiché la garanzia infortuni rappresenta “un tipo sociale sprovvisto cioè di una disciplina legale specifica”[79], acquisisce “preminente rilievo, ai fini della individuazione della concreta funzione del contratto, l’intento delle parti quale si desume dalla disciplina convenzionale contenuta nelle polizze”[80]: quest’ultima, anche nel caso di infortunio mortale, “attribuisce alla prestazione dovuta quella funzione indennitaria che caratterizza la prestazione prevista per il caso di invalidità permanente o di inabilità temporanea”[81].

Se la liquidazione convenzionale e preventiva del danno ex art. 1908 c.2. c.c. risulta pienamente compatibile con il principio indennitario che informa tutte le assicurazioni contro i danni, “eventuali deviazioni dalla disciplina degli artt. 1904-1918 c.c.”[82], che caratterizzano la disciplina della garanzia infortuni, con particolare riguardo alla incompatibilità delle disposizioni in materia di regola proporzionale con la valutazione convenzionale del danno o della disposizione di cui al comma 3 dell’art. 1910 c.c., “non sono tali da escludere la sua inquadrabilità nel tipo di assicurazione contro i danni”, essendo giustificate dalla “particolare natura dell’interesse assicurato”[83] costituito non già da una cosa materiale bensì dalla “capacità generica dell’assicurato ad un qualsiasi lavoro proficuo, indipendentemente dalla sua professione”[84].

Più recentemente, la teoria indennitaria della garanzia infortuni è stata riproposta in più occasioni, dopo l’arresto della Suprema Corte di inizio secolo, da un Autore, proveniente dal modo del business assicurativo, che già l’aveva formulata inizialmente alla fine degli anni ’80 dello scorso secolo[85].

La prospettiva di partenza è prettamente tecnica, identificando il rischio assicurato dalla garanzia nelle lesioni[86], così come egli ritiene di evincere chiaramente dalla definizione contrattuale di infortunio.

Ne consegue che non può trovare alcun valido fondamento una scissione, all’interno della stessa garanzia, tra una funzione indennitaria propria della copertura relativa alle disgrazie invalidanti ed una funzione previdenziale tipica della copertura caso morte.

In realtà, invalidità permanente, inabilità temporanea ed evento morte non costituiscono separati ed autonomi rischi all’interno di una diversificata garanzia, bensì semplici conseguenze della reificazione di un unico rischio, rappresentato dall’effetto lesivo sul corpo umano dell’evento a causa fortuita, esterna e violenta, quale risulta essere l’infortunio a termini di polizza.

E che la morte non costituisce un evento attinente alla vita umana ma una mera conseguenza dannosa, rientrante dunque nella definizione di danno di cui all’art. 1882 c.c. lo si evince dalla constatazione che vi è sempre uno scarto temporale tra la lesione e le sue conseguenze anche mortali: a sostegno della tesi che la morte, quale evento istantaneo, non esiste, vengono portate le conclusioni di un lavoro di un fisiologo inglese apparso sulla Rivista New Scientist nel 1983 oltre ad alcune circostanze fattuali comprovanti[87].

Un ulteriore conferma di ciò è poi rinvenuta negli orientamenti della Cassazione in tema di risarcimento del danno catastrofale riconosciuto a favore della vittima che, coscientemente, patisce l’agonia in un apprezzabile lasso temporale tra l’evento lesivo ed il decesso.

Se dunque il rischio assicurato sono le lesioni inferte al corpo della vittima, esse costituiscono l’evento dannoso da cui origina un diritto all’indennizzo che già in tale momento entra nel patrimonio dell’assicurato, anche se esso viene poi ad essere liquidato successivamente, in misura correlata all’esito di tali lesioni “che possono devolvere in un’invalidità o nella morte e per le quali sono previste somme rispettivamente definite, non per indennizzare il corpo umano, bensì la capacità lavorativa danneggiata o distrutta”[88].

Ci troviamo dunque in presenza di una teoria in perfetta sintonia con la logica indennitaria della garanzia, portata alle sue estreme conseguenze e fondata su di un’analisi tecnica del rischio assicurato, così come viene delimitato contrattualmente nella definizione di polizza.

La teoria è stata poi oggetto di accurata analisi critica da parte di altro esponente dell’industria assicurativa ma con “formazione di derivazione britannica”[89], il quale ritiene di “pensarla diversamente e di avere altre convinzioni” in materia, rispetto a coloro che “hanno un’estrazione giuridico-assicurativa di stampo italiano”, non avendo “mai condiviso il trattamento di queste assicurazioni nella categoria delle “assicurazioni danni”.

Pur partendo dalla premessa che le assicurazioni infortuni nascono in Inghilterra dagli assicuratori non-life, sostiene che essi erano “ben consapevoli però di avventurarsi in un tipo di copertura che era certamente più vicino alla vita che ai danni”[90] e, a proposito dell’operazione di classificazione delle garanzie assicurative compiuta a livello europeo in assicurazioni life e non life, ritiene, invece, “ideale” una suddivisione tra: “assicurazioni dei rischi della persona umana, da una parte, con funzione di protezione, di previdenza e spesso anche di risparmio; assicurazioni di tutti gli altri rischi, dall’altra parte, con funzione indennitaria”[91].

A conferma di tale sua opinione classificatoria, riporta anche l’adozione nei Paesi anglo-americani di una diversa terminologia per designare la prestazione dell’assicuratore nelle due famiglie di coperture assicurative: in caso di sinistro la somma liquidata viene chiamata indemnity, mentre nelle assicurazioni infortuni e malattia, oltre che per quelle sulla vita, benefit, denominazione quest’ultima che, resa in italiano in beneficio, ritiene non adeguatamente significativa, proponendo di tradurla in indennità[92].

L’Autore non comprende, dunque, come si continui a classificare all’interno delle assicurazioni danni le garanzie infortuni e malattia (solo con riguardo alla garanzia I.P. e non a quella rimborso spese mediche) quando, se è pur vero, come sostiene De Zuccato, che i due eventi provochino rispettivamente una lesione o un’alterazione della salute da cui discende un danno patrimoniale, risulta evidente come “questo danno è solo una delle componenti del complesso dei pregiudizi sofferti” dal c.d. “capitale uomo”, inteso tuttavia in senso omnicomprensivo di ogni potenzialità umana[93].

Infatti, l’uomo rappresenta “un soggetto ben diverso da una cosa assicurata” e può essere assicurato “in forma differente da quella adottata per le cose, in quanto l’assicurazione non deve mortificare la sua dignità, bensì, al contrario, sottolinearla ed esaltarla”[94].

Ne consegue che “la somma assicurabile e i capitali percepibili in caso di invalidità o di morte devono liberamente riflettere” “il valore della persona” che “non è costituito solo dalla sua capacità (generica o specifica) di lavorare e di produrre ricchezza” e “che non è suscettibile di misurazione oggettiva e generalizzabile”[95].

La garanzia infortuni (e quella I.P. da malattia), quale assicurazione della persona, sfugge alle regole del principio indennitario, in quanto non incide solo sulla dimensione reddituale dell’uomo, e differisce anche dall’assicurazione sociale che ha una preminente funzione di tutela patrimoniale del lavoratore: non risultano dunque ad essa applicabili tutte quelle norme (art. 1905, 1908, 1910, 1916 c.c.) che coloro che sostengono la teoria indennitaria vorrebbero imporle.

In quanto essa non risulta “intesa a risarcire, a rivalere, a indennizzare”, “come nell’assicurazione vita al beneficiario non spetta “un indennizzo”, ma semplicemente il versamento della somma convenuta, così nell’assicurazione infortuni, la morte o l’invalidità danno luogo al versamento della somma prevista dal contratto, non già a titolo di indennizzo, ma a puro titolo di adempimento dell’obbligo assunto dall’assicuratore”[96].

Il riposizionamento della garanzia infortuni, quale componente di una più ampia nozione di assicurazioni sulle persone, contrapposte ad una residuale categoria di assicurazioni contro i danni a cose, ha consentito all’Autore di valorizzarne una funzione previdenziale in senso lato, la quale viene ad elevarla da limitanti logiche indennitarie, finalizzate a restringerla all’interno di un rimedio compensativo a fronte di specifici pregiudizi patrimoniali.

La riscoperta di una funzione previdenziale delle assicurazioni della salute che, “in quanto costituzionalmente più pregnante assorbe quella indennitaria”[97] è stata più recentemente ribadita da autorevole esponente della dottrina, sottolineando come “il carattere dannoso e, allo stesso tempo, attinente alla vita umana dell’evento incerto” dedotto in tali garanzie, consente di considerarle “soggette all’applicazione diretta dell’intera disciplina dell’assicurazione sulla vita, con esclusione delle sole disposizioni ivi contenute, compatibili unicamente con le assicurazioni relative alla durata della vita umana”[98].

Accanto a queste due teorie totalizzanti, l’una in senso indennitario, l’altra previdenziale, sono state avanzate altre due posizioni che, elaborando i dati emergenti dalla prassi mercantile, rifiutano l’inquadramento della garanzia privata infortuni in un unitario e rigido schema sistematico, ma prediligendo una maggiore souplesse argomentativa, arrivano a delineare una figura ibrida, recalcitrante contro ogni tentativo di reductio ad unum all’interno uno dei due modelli codicistici di garanzia assicurativa.

La prima posizione, formulata già in occasione dell’entrata in vigore del Codice Civile e abbracciata poi, come già accennato, dall’industria assicurativa, tenuto conto dell’assenza di tipizzazione legale, propendeva ad identificare nella garanzia infortuni un tertium genus tipologico, qualificato dal peculiare bene assicurato (integrità psico-fisica della persona) e da un assetto contrattuale in cui convivevano elementi eterogenei, quali l’accadimento di un evento di danno dal quale, tuttavia, originava una prestazione dell’assicuratore che non consisteva “nella esatta rivalsa di un danno concreto”, non risolvendosi in una sua valutazione “a posteriori, in modo che il risarcimento corrisponde senza superarlo, al danno economico effettivamente sofferto dall’infortunato o in caso di morte dai suoi familiari come imporrebbe il principio indennitario”, bensì “in una somma di denaro prestabilita, come nell’assicurazione sulla vita”[99].

Non limitandosi alla registrazione di una mera eterogeneità di elementi contrattuali nella polizza infortuni, ma intravvedendo in essa una vera e propria diversificazione delle garanzie prestate, la tesi del contratto misto, nega innanzitutto che il modello del tertium genus possa costituire “una soluzione per i problemi del ramo infortuni”, sostenendo come “il fatto che assicurato e assicuratore determinino d’accordo e preventivamente in polizza, in relazione alle varie ipotesi di sinistro, l’entità delle prestazioni garantite” non costituisca un impedimento a che vengano applicate le regole del principio indennitario alla garanzia prestata contro le disgrazie accidentali non mortali[100].

L’intento sottostante a questa tesi era quello di evitare un arricchimento illecito dell’assicurato che avrebbe altrimenti utilizzato il contratto assicurativo a scopi speculativi e l’agevolazione di una “autolesionistica tentazione di procurarsi o cercare il vulnus della propria integrità fisica”[101] circostanza, quest’ultima che lo spirito di autoconservazione avrebbe impedito rispetto alla sola garanzia caso morte.

Si veniva a configurare dunque un negozio complesso o misto nel quale convivevano due diverse funzioni, indennitaria e previdenziale in rapporto alle principali garanzie prestate, rispettivamente per gli infortuni invalidanti e per quelli mortali.

Come si è visto, la tesi è stata ad inizio millennio sviluppata dalla Suprema Corte, modulandola nei  termini più netti del collegamento contrattuale, identificando nel medesimo contratto due beni assicurati (lesione della capacità lavorativa e vita) ai quali corrispondono due distinte funzioni, indennitaria e previdenziale, così pervenendo alla figura di una duplicità di negozi, collegati all’interno di un unico contratto, ai quali si applicherà la rispettiva disciplina prevista in ragione della loro funzione.

7. Struttura e funzione della garanzia privata infortuni    

Le diversificate opinioni dottrinali ma soprattutto la granitica presa di posizione in senso indennitario operata dalla giurisprudenza sulla garanzia infortuni invalidanti, ci inducono ad esaminare funditus quali siano struttura e funzione della garanzia privata infortuni, così come essa si presenta nella pratica mercantile, ove ha sempre trovato vasta diffusione, quale risposta a sentite esigenze di protezione economica di vasti strati della popolazione.

La circostanza di essere una garanzia socialmente tipica ma priva di disciplina legale, se non per un fugace quanto ambiguo cenno a proposito del diritto di surroga dell’assicuratore[102], rende ancora più pressante l’esigenza di indagarne la qualifica giuridica e, preliminarmente ad essa, la struttura e funzione di una polizza che trova il proprio statuto ordinante precipuamente nella disciplina contrattuale.

Prendendo le mosse dalla usuale definizione di infortunio inserita in polizza[103], che rappresenta la delimitazione contrattuale del rischio coperto dalla garanzia, si evince come esso condivida sia i caratteri di un evento della vita umana, descritto con i requisiti, oltre che dell’aleatorietà, della violenza e della esteriorità rispetto alla persona, sia il suo carattere lesivo cioè produttivo di un danno, in ispecie corporale obiettivamente constatabile e dal quale conseguono ulteriori conseguenze  pregiudizievoli, quali l’inabilità temporanea, l’invalidità permanente e la morte.

Ictu oculi, l’elemento strutturale costituito dal rischio assicurato si presenta dunque con una natura ambivalente, potendo esso rientrare sia negli eventi attinenti alla vita umana di cui all’ultima parte dell’art. 1882 c.c., sia in un concetto, sia pure del tutto generico, di danno, di cui alla prima parte della anzidetta norma.

Questa doppiezza di contenuto semantico del rischio assicurato costituisce l’origine della disputa circa la collocazione della garanzia nella coartante bipartizione codicistica, tanto è vero che, da un lato, un sostegno della tesi della natura dell’infortunio, quale mero evento della vita, può rinvenirsi nel diffuso utilizzo quale sinonimo di disgrazia accidentale; dall’altro, il carattere intrinsecamente dannoso può essere senz’altro identificato nella lesione corporale e nel conseguente mutamento in pejus delle condizioni economiche del soggetto colpito, determinato sia da una diminuzione del suo reddito sia dall’insorgere di nuovi bisogni.

Il requisito dell’evento assume poi particolare rilievo, in quanto viene contrattualmente previsto in polizza che esso debba essere, nel caso in cui si concretizzi nella realtà, denunciato all’assicuratore, indicando in modo preciso le circostanze spazio-temporali del proprio accadimento[104].

Quanto poi alla sua natura di evento di danno, essa deve essere considerata in un’accezione del tutto generica, atteso che l’infortunio può ben essere addebitabile a responsabilità di terzi oppure dipendere da eventi di carattere accidentale, dovuti a forza della natura o al caso fortuito, ed infine a colpa, anche grave, dello stesso assicurato, circostanza questa che non consente di qualificarlo quale danno giuridicamente risarcibile a termini dell’art. 1227 c.1 c.c.

L’evento lesivo, id est il danno, viene dunque in considerazione nella garanzia assicurativa quale mero presupposto[105] per il sorgere dell’obbligazione contrattuale dell’assicuratore, indipendentemente dalla circostanza che esso possa essere qualificato come ingiusto (e quindi fonte di responsabilità civile e conseguente risarcimento) oppure come semplice fatto giuridico, dovuto a forze umane o naturali, il quale realizzandosi in una lesione corporale obiettivamente constatabile, è idoneo a far attivare la copertura assicurativa con la richiesta all’assicuratore di adempiere la prestazione contrattuale pattuita.

L’elemento strutturale del danno unitamente a quello, da esso originante, della obbligazione dell’assicuratore, corrispettiva rispetto all’obbligazione di pagamento del premio da parte dell’assicurato, potrebbero condurci, da subito, alla immediata quanto semplicistica conclusione della funzione indennitaria della garanzia infortuni, in quanto appunto finalizzata alla compensazione di un danno subito dall’assicurato, ad opera di una prestazione indennitaria da parte dell’assicuratore.

In realtà, l’esistenza di un danno gravante su di un soggetto assicurato, potrebbe costituire il presupposto di un’operazione giuridico-economica avente funzione non tanto indennitaria quanto previdenziale oppure volta al perseguimento di una funzione ancora diversa, non potendosi “escludere a priori che l’assicurazione infortuni non sia positivamente inquadrabile in nessuno dei due tipi legislativamente regolati, ma si ponga come figura negoziale autonoma, idonea a perseguire una funzione del tutto particolare e diversa da quella dell’assicurazione danni che da quella dell’assicurazione vita”[106].

Allora occorre procedere ad un’analisi più approfondita sia del presupposto contrattuale consistente nell’evento dannoso, sia della prestazione dell’assicuratore, così come si vengono ad estrinsecare all’interno della dinamica negoziale che porta al perfezionamento della garanzia contrattuale.

Va premesso che la lesione corporale, obiettivamente constatabile, produce delle ulteriori conseguenze pregiudizievoli per l’assicurato, delineate nella stessa definizione contrattuale di infortunio, quali la inabilità temporanea, la invalidità permanente e la morte ed è in rapporto a queste specifiche conseguenze che viene ad essere strutturata l’obbligazione dell’assicuratore.

Il danno, incidente sulla integrità fisica della persona, non viene dunque considerato in sé stesso, né la persona umana “nel suo valore assoluto, e cioè quale entità fisica e spirituale, rispetto alla quale è ovviamente inconcepibile qualsiasi valutazione di natura patrimoniale, ma soltanto gli effetti pregiudizievoli prodotti dalla lesione nella sfera della sua vita di relazione”[107].

Pertanto la integrità fisica e la vita (nel caso di infortunio mortale), quali beni oggetto della lesione, non vengono valutati nel loro valore assoluto, non suscettibile di stima monetaria, ma per le ripercussioni che determinano nel complesso di interessi economici, familiari e sociali della persona infortunata.

Pur relativizzando la valutazione della incidenza dell’evento lesivo sulla persona, rimane tuttavia arduo determinare in concreto il “valore persona” quale bene tutelato dalla garanzia infortuni.

Al fine di risolvere tale problema e stabilire in concreto una somma da contrattualizzare in polizza, la prassi assicurativa fa coincidere il “valore persona” con la capacità generica a qualsiasi lavoro proficuo, sia attuale che potenziale, della persona che intende assicurarsi, prendendo in considerazione quali fattori di calcolo il reddito attuale da lavoro, l’età, le prospettive future di guadagno, la composizione del nucleo familiare di appartenenza.

In sostanza, si effettua una proiezione nel futuro delle potenzialità di guadagno dell’assicurato e si provvede a capitalizzarle, utilizzando quale parametro base di riferimento, con mera funzione indicativa, il reddito da lavoro dell’assicurando, qualora effettivamente percepito o, in caso contrario, presunto, in rapporto alle sue caratteristiche personali ed applicando un moltiplicatore che, per prassi consolidata, varia da un minimo di 6 ad un massimo di 10.

Con tale descrizione, si è voluto fornire una esemplificazione di come un sottoscrittore del rischio infortuni possa pervenire alla determinazione della somma assicurata, qualora l’assicurando intenda stipulare una polizza “tailor made”, mentre, nella realtà di un mercato caratterizzato da polizze standardizzate e predisposte dall’assicuratore, vengono proposte all’assicurando, in fase di trattativa precontrattuale, una gamma di capitali assicurati, sia per garanzia invalidità permanente sia per quella caso morte, tra i quali l’assicurando può decidere quello maggiormente rappresentativo sia delle sue esigenze di protezione, sia in rapporto alle sue disponibilità di spesa.

Questa modalità di determinazione dei capitali dedotti nelle due principali garanzie contenute in polizza induce ad interrogarsi su quale sia la loro funzione, nell’intento perseguito dalle parti con tale operazione giuridico-economica: se cioè esse abbiano inteso attribuire a tali somme una funzione volta a riparare o a compensare le conseguenze economiche di un evento dannoso (funzione indennitaria) oppure a predisporre l’apprestamento di una provvista finanziaria diretta a far fronte, in dipendenza di un evento che viene a pregiudicare una capacità di guadagno, a futuri bisogni non più in grado di essere soddisfatti con il mutato scenario indotto dall’infortunio nella persona che ne rimane colpita (funzione previdenziale).

Il presupposto contrattuale dell’esistenza di un danno quale condizione per l’operare della garanzia assicurativa costituisce un elemento neutro, se non inserito all’interno di una specifica operazione giuridico-economica che venga a qualificare la prestazione di garanzia che da esso viene ad essere attivata.

Qualora scopo della prestazione di garanzia fosse la compensazione di tale danno, saremmo di fronte ad una operazione con funzione indennitaria la quale, sulla falsariga di quella risarcitoria, rispetto alla quale assume propria e specifica connotazione[108], tende a rimediare alle conseguenze dannose prodotte dall’evento nel patrimonio dell’assicurato con la erogazione di una somma che porti alla loro eliminazione in tutto o in parte ma giammai ecceda il valore del bene garantito, producendo un’alterazione positiva del patrimonio dell’assicurato.

Il principio indennitario, ritenuto da alcuni rispondente ad esigenze di ordine pubblico, al fine di impedire la degenerazione del contratto di assicurazione danni in una operazione speculativa ed in un incentivo alla provocazione dei sinistri, costituisce in realtà un dispositivo che, operando sia a livello legale che contrattuale[109], limita la prestazione economica, diretta a compensare un danno, in modo tale che essa non provveda quasi mai ad eliderne integramente le conseguenze economiche negative (ad esempio per l’operare di scoperti o franchigie nell’assicurazione danni) o, al limite, pervenga anche ad eliminarle, ma non possa in alcun modo arricchire il patrimonio del suo destinatario: l’obiettivo viene raggiunto nel caso di bene assicurato costituito da cosa materiale, avente valore facilmente ed oggettivamente accertabile (valore assicurabile), prevedendo che esso debba costantemente corrispondere alla somma assicurata (valore assicurato), dovendosi altrimenti ridurre il compenso indennitario in proporzione al differenziale tra i due predetti valori.

In ambito assicurativo, esso viene considerato il principio ispiratore di tutte le principali disposizioni del Codice Civile dedicate all’assicurazione di cose (artt. 1904, 1905, 1907, 1908 c.1, 1909, 1910, 1916 c.c.), tanto da costituire un vero e proprio sistema disciplinante che le caratterizza, anche se in esso si è rinvenuta una deroga nella valutazione preventiva e convenzionale del bene assicurato, consentita dal comma 2 dell’art.1908 c.c. (c.d. polizza stimata)

Ora, proprio in tale disposizione derogatoria, ma non tale da “portare ad una sostanziale svalutazione del principio enunciato nel primo comma dell’art. 1908”[110] si è identificata la fonte legittimante la determinazione pattizia dei capitali assicurati nelle principali garanzie della polizza infortuni e, nel contempo, la loro classificazione quali rientranti nell’alveo della grande famiglia delle coperture con funzione indennitaria.

In proposito, va sommessamente rilevato come tale norma non possa venire applicata in via analogica alle assicurazioni infortuni, poiché essa si riferisce espressamente alle assicurazioni di cose, aventi ad oggetto beni materiali caratterizzati da un valore di mercato o desunto da indici oggettivi e riguardi specifiche circostanze in cui, il particolare valore economico di tali beni o la loro peculiare tipologia o funzionalità, suscitino contrasti o ambiguità di valutazione, prefiggendosi lo scopo di pervenire ad un accordo sul loro valore tale da evitare future controversie e di velocizzare la liquidazione del danno in caso di sinistro[111].

Né può affermarsi che il bene oggetto della copertura assicurativa infortuni sia costituito dal corpo umano nella sua integrità e dunque assimilabile ad una cosa che può essere danneggiata o distrutta nella sua consistenza da un evento lesivo: in realtà quest’ultimo, incidendo sul corpo umano, viene a ledere il c.d. “valore persona” cioè le potenzialità realizzatrici della persona, compromettendone le sue capacità di guadagno  e di sostentamento, presenti e future, per sé stessa e per il nucleo familiare di appartenenza.

I capitali assicurati nelle garanzia infortuni invalidanti e mortali sono sicuramente il frutto di un accordo consensuale delle parti contrattuali ma non fanno riferimento a beni materiali, né il cui valore risulti oggettivamente determinabile: è ben vero che nella determinazione del “valore persona” viene preso in considerazione il reddito reale o presunto dell’assicurando, ma ciò costituisce solo la base di partenza di una elaborazione concettuale in cui convergono altri fattori e che si perfeziona in un importo monetario dal carattere alquanto discrezionale.

Certamente, la somma dedotta in polizza non costituisce la stima pattizia del valore economico della integrità fisica della persona.

Se, per assurdo, si dovesse anche accedere a tale convinzione, ci troveremmo comunque completamente al di fuori di una logica indennitaria, giacchè la somma dedotta in polizza rappresenta la risultante di una funzione esponenziale che parte da un reddito base moltiplicato “n” volte.

Nell’ottica che vede svolgere la somma assicurata nella garanzia infortuni “una funzione sostanzialmente analoga a quella di stima accettata”[112], si è sostenuto che “la stima non pregiudica l’applicabilità dell’art. 1907, ove l’assicurazione copra soltanto una parte del valore della cosa assicurata, e dell’art. 1910, in caso di più assicurazioni parziali presso diversi assicuratori, nonché dell’art. 1905 nell’ipotesi di danno parziale”[113], corroborando così la tesi dell’assolvimento di una funzione prettamente indennitaria della garanzia infortuni.

A comprova di ciò si portano, quali esempi, la circostanza che “l’invalidità parziale è calcolata in una percentuale della somma assicurata, variabile in relazione al tipo di grado di invalidità dell’assicurato (barèmes, Gliedertaxe)”[114] e la clausola che viene solitamente denominata “Criteri di indennizzabilità” e nella quale è contenuta la disciplina contrattuale delle c.d. concause di menomazione e delle concause di lesione[115].

Se esaminiamo attentamente il contenuto dei contratti attualmente offerti dal mercato assicurativo, ci accorgiamo tuttavia che le apposite tabelle che determinano il grado di invalidità permanente parziale (siano esse quelle suggerite dall’associazione di categoria degli assicuratori, Tabella ANIA, oppure quelle, adattate in base a questa, dalla singola compagnia) sono accompagnate da clausole nelle quali si prevedono, ad esempio, sul primo scaglione di somma assicurata, c.d. franchigie modulari, per cui la I.P. accertata nella Tabella che determina il grado di invalidità parziale e che dovrebbe essere applicata alla somma assicurata, in realtà verrà integralmente applicata solo a partire dal valore di I.P. pari al 7%, mentre per I.P. accertate in

Tabella in misura inferiore a tale grado, verrà applicata alla somma assicurata un grado di I.P. inferiore.[116]

Se ciò non viene a contraddire il principio indennitario, in quanto comporta un indennizzo in misura inferiore al danno accertato, le stesse condizioni di polizza prevedono però anche che, per postumi permanenti accertati in misura pari o superiori al 60%, verrà liquidata la somma assicurata pari al 100%[117].

Sempre prendendo a riferimento una polizza tipo attualmente sul mercato, essa offre la possibilità di stipulare una garanzia che preveda una maggiorazione progressiva della I.P. accertata a partire da una percentuale pari al 26%: la Tabella inserita in polizza stabilisce, ad esempio che, ad una I.P. accertata pari al 59% venga calcolata una percentuale del 102% sulla somma assicurata, fino ad arrivare, per una I.P. accertata del 100%, a liquidare ben il 225% della somma assicurata[118].

Viene, infine, prevista la possibilità di pattuire una Tabella di Invalidità permanente (accertata) speciale[119], la quale contiene una consistente sopravvalutazione delle percentuali della Tabella base, oltre alla possibilità di optare per una forma di rendita vitalizia in caso di I.P. accertata non inferiore alla percentuale del 60%[120].

Alcune polizze presentano, inoltre, clausole di supervalutazione dell’indennità per invalidità permanente, illustrate da diverse tabelle corrispondenti a distinti scaglioni di somme assicurate: in esse, per ogni scaglione di somma assicurata, corrispondono due distinte colonne in cui compaiono da un lato la I.P. effettivamente accertata e dall’altro quella liquidabile in caso di sinistro[121].

Ad esempio, per un primo scaglione di somma assicurata, verrà liquidata, calcolandola sulla somma assicurata, la reale I.P. accertata solo a partire da una percentuale pari ad una I.P. del 15%, mentre la stessa tabella prevede che, a partire da una  I.P. accertata pari al 31%, verrà calcolata sulla somma assicurata una I.P. liquidabile progressivamente superiore fino ad arrivare ad una I.P. accertata del 65% cui corrisponderà una I.P. liquidabile del 100%, mentre, nel caso in cui i postumi permanenti residuati all’infortunato superino la percentuale di I.P. del 65%, verrà liquidato un importo pari al 110% della somma assicurata. A ciò si aggiunge l’ulteriore previsione di una indennità aggiuntiva pari al 15% della somma assicurata fino ad un limite massimo di € 25.000 erogabili per un periodo non superiore a tre annualità, per le c.d. grandi invalidità, cioè per tutte le I.P. accertate in misura superiore alla percentuale del 65% [122].

Questo breve ma doveroso excursus sulle condizioni contrattuali della prassi assicurativa, dalle quali solo può spiccare l’intento perseguito dalle parti contraenti, mi sembra alquanto indicativo di come le garanzie infortuni invalidanti presenti sul mercato non siano costruite su di un impianto indennitario: esse, infatti,  disattendono chiaramente il dettato della norma (art. 1905 c.c.) ritenuta la consacrazione formale di tale principio, prevedendo essa che l’assicuratore sia tenuto a compensare esclusivamente il “danno sofferto in conseguenza del sinistro”.

Quale elemento maggiormente probante della natura non indennitaria di una garanzia, se non la previsione di una indennità che può essere calcolata anche con gradi percentuali di I.P. superiori alla effettiva e reale consistenza dei postumi residuati all’assicurato, fino ad arrivare ad una liquidazione che garantisce allo stesso ben il 225% della somma assicurata!

Analogo discorso può essere compiuto per le garanzie di I.P. da malattia, le quali partono con franchigie frontali di norma abbastanza elevate, aggirandosi tra il 25% ed il 30% di I.P., per poi riconoscere percentuali di I.P. liquidabile superiori a quella accertata, fino ad arrivare al grado di invalidità accertato in misura del 60%, per il quale e per tutti i gradi ad esso superiori, viene riconosciuta l’intera somma assicurata[123].

Né appare in sintonia con i precetti indennitari la modulazione di diarie, ad esempio, per degenze ospedaliere, riconosciute indipendentemente dall’esborso di rette di degenza ma anche qualora il ricovero avvenga presso strutture sanitarie pubbliche o convenzionate, oppure per perdita di anno scolastico o per convalescenza.

Le uniche garanzie che rispondono a regole indennitarie sono rappresentate da quelle relative al rimborso di spese di cura e di assistenza.

Ritornando all’altra clausola di polizza, comunemente denominata “Criteri di indennizzabilità”, ed autorevolmente indicata[124], come sopra menzionato, a comprova della natura indennitaria della garanzia infortuni invalidanti, si può senz’altro affermare come essa non abbia nulla a che vedere con la regola dettata nell’art. 1905 c.c. ma riguardi essenzialmente altre problematiche ed in ispecie quella del nesso causale.

E’ noto, infatti, come la garanzia privata infortuni non accolga la nozione di causalità adeguata desumibile dall’art. 42 c.p. ma la diversa nozione di causalità diretta ed esclusiva, di cui viene fatta espressa menzione in polizza[125].

In base a tale nozione, non possono costituire oggetto di prestazione assicurativa eventuali aggravamenti dei postumi residuati dall’infortunio dovuti a patologie preesistenti (concause di lesioni), in quanto, tra l’altro, si verrebbe a coprire il diverso rischio malattia, né eventuali condizioni invalidanti preesistenti (concause di menomazione) che vengono ad aggiungersi o a sovrapporsi a quelle provocate dall’infortunio[126].

Nemmeno le disposizioni contenute negli artt. 1910 e 1916 c.c. trovano buona accoglienza nella garanzia privata infortuni, dubitandosi addirittura che la seconda possa costituire un caposaldo del principio indennitario[127].

In merito alla coesistenza di altre coperture assicurative per lo stesso rischio, alcune polizze si limitano a prevedere un mero obbligo di comunicazione da parte dell’assicurato  della loro stipulazione, “ad eccezione di quelle stipulate per suo conto da terzi per obblighi di legge o di contratto e di quelle per cui è in possesso in quanto garanzie accessorie ad altri servizi (es: abbinate a biglietti di viaggio, conti correnti, carte di credito, mutuo fondiario o ipotecario)”[128], senza prevedere alcuna sanzione in caso di inadempienza, altre, invece, prevedendo, in caso di mancata comunicazione e senza che ciò comporti diniego di indennizzo o sua parziale liquidazione in caso di sinistro, che l’assicuratore abbia la facoltà di recedere dal contratto con preavviso di 60 gg., qualora emerga che i capitali dedotti nelle altre polizze vengano a superare il 50% della somma garantita in polizza[129].

Si evince, dunque, come il mercato si vada orientando verso una sostanziale disapplicazione della norma, considerata, invece, dalla giurisprudenza quale imprescindibile baluardo per contrastare le pulsioni speculative dell’assicurato, salvaguardandone, con importanti modulazioni in deroga, il solo primo comma, quale formale strumento per il controllo dei capitali assunti a rischio.

Del resto, in dottrina si è sostenuto che “l’art. 1910 c.c. (assicurazioni plurime) si applica per le assicurazioni nelle quali opera il principio indennitario”, mentre “non si applica nelle assicurazioni di persone”: nelle assicurazioni infortuni e malattie, infatti, “si possono acquistare tante polizze quante si desiderano, per il medesimo rischio, per il medesimo tempo”[130].

Tale affermazione viene fondata proprio sulla circostanza che in esse “l’ammontare del danno per cui è contratta l’assicurazione, il “danno atteso”, è pattizio, è quello per cui l’assicurato è disposto a pagare il premio, e il danno effettivo è quello per il quale si è pagato il premio”[131].

Ne consegue che “il problema del controllo della quantità di assicurazione comprata da parte dell’assicurato, presso un assicuratore e presso tutti gli assicuratori, e dell’indennizzo ricevuto, il problema del coordinamento delle polizze assicurative, in linea di massima, non sussistono”[132].

Certo, nelle assicurazioni infortuni vi è l’esigenza di non favorire il comportamento opportunistico dell’assicurato di provocare l’infortunio o di svolgere un’attività pericolosa che potrebbe essere incentivato dalla stipulazione di una pluralità di polizze: eventuali esternalità negative su altri assicuratori, così come quella di evitare la selezione avversa, possono tuttavia essere risolte con il richiamo in polizza dei soli primi due commi dell’art. 1910 c.c., mentre i restanti due, espressioni di una logica indennitaria, sono del tutto ultronei, così come la prassi di mercato dimostra[133].

Per quanto concerne la surroga assicurativa, da molti ritenuta non solo espressione del principio indennitario ma altresì elemento qualificante, nel senso di assicurazione danni, della garanzia privata infortuni per il suo formale richiamo contenuto nell’ultimo comma dell’art. 1916 c.c., sono ormai decenni che il mercato assicurativo abdica ad avvalersene nelle ipotesi in cui l’infortunio sia addebitabile a responsabilità di terzi[134].

Se vi sono posizioni che deducono, a contrario, da tale unico richiamo nella precitata norma in materia di assicurazione danni, la estraneità della garanzia contro le disgrazie accidentali alla logica indennitaria che ispira le assicurazioni contro i danni, vi è invece chi, sostenendo la sua compatibilità a tale logica, considera tuttavia il diritto di surroga “soltanto un problema di politica legislativa” che non ha alcuna incidenza “sulla funzione risarcitoria dell’indennità assicurativa”[135].

Sta di fatto che l’orientamento giurisprudenziale del Supremo Collegio nella sua Assise plenaria, come si è ampiamente illustrato in precedenza, in un’ottica totalizzante del principio indennitario, ha dato del diritto di surroga una intransigente quanto inedita lettura, arrivando a sostenere la sua efficacia ope legis, anche in presenza di espressa clausola di rinuncia al suo esercizio da parte dell’assicuratore.

Anche sotto questo aspetto, si palesa una profonda dissonanza tra struttura negoziale della garanzia infortuni, quale emerge dalla prassi negoziale, espressiva dell’intento delle parti ad affrancarla da ogni impostazione indennitaria ed il tentativo giurisprudenziale ed in parte anche dottrinale, di una sua ricomposizione entro un’architettura che ne sancisca una indelebile funzione compensativa di un danno.

Se, infatti, la posizione tradizionale vede la surroga quale strumento per impedire una duplice compensazione, con conseguente arricchimento dell’assicurato ed accrescimento del suo interesse al verificarsi del sinistro, per contro, è stato dimostrato come, la sommatoria di risarcimento ed indennizzo, nel caso di rinuncia all’esercizio della surroga da parte dell’assicuratore, non produrrebbe alcuna ingiusta locupletazione sia a termini dell’art. 2041 c.c.[136], sia in considerazione diversità dei titoli a fondamento della duplice percezione[137].

Né può essere sottaciuto che la rinuncia ad esercitare il diritto di surroga comporta un supplemento di premio per l’assicurato[138], e, pertanto, la soluzione adottata dalla Suprema Corte di ritenere comunque inefficace una deroga contrattuale alla surroga, attesa l’operatività ex proprio vigore dell’art. 1916 c.c., in quanto ipotesi di surroga legale ex art. 1203 c.4 c.c., determina, questo sì, un ingiustificato arricchimento per il responsabile civile che si vede sgravare di parte del suo obbligo risarcitorio e, nel contempo, un ingiusto, quanto deplorevole, nocumento per l’infortunato che, nella sostanza, viene così a trovarsi nella spiacevole situazione di finanziatore di una copertura assicurativa a favore dell’autore dell’illecito di cui è rimasto vittima.

L’esame, sia pure limitato ad un paio di polizze, rappresentative tuttavia dell’attuale offerta del mercato assicurativo, dimostra come nella garanzia contro gli infortuni invalidanti (e non solo in quella per il caso morte) l’obbligazione contrattuale dell’assicuratore non abbia alcuna funzione compensativa di un danno in quanto, pur avendo quale presupposto un evento dannoso, non si modella su di esso allo scopo di elidere la sua effettiva e reale consistenza nel patrimonio dell’assicurato, bensì viene stabilita in modo convenzionale in rapporto alle esigenze di vita di quest’ultimo che potrebbero mutare, con una diminuita capacità di guadagno o determinando una situazione di sproporzione tra mezzi finanziari e bisogni, qualora la disgrazia accidentale dovesse verificarsi[139].

Ci troviamo dunque dinnanzi ad una obbligazione di carattere tipicamente previdenziale, diretta a procurare all’assicurato una provvista finanziaria adeguata a far fronte a necessità economiche proprie o dei propri familiari, in rapporto ad un evento aleatorio che, qualora malauguratamente si realizzasse, creerebbe un divario tra bisogni e mezzi atti a soddisfarli.

Al momento della stipula del contratto, l’assicurando non è in grado di prefigurare le precise conseguenze negative della disgrazia accidentale: egli può solamente compiere una proiezione futura di quello che potrebbe presuntivamente essere  il suo fabbisogno finanziario futuro determinato dal suo accadimento, ed anche al momento di realizzazione dell’evento, la prestazione verrà adempiuta secondo quanto pattuito in base a tale proiezione, potendo la diminuita capacità di guadagno o l’aumentato fabbisogno essere meramente presunti.

Mentre l’evento lesivo, presupposto dell’obbligazione, dovrà essere accertato con precisione al suo verificarsi ed in tal senso si spiega il richiamo in polizza della normativa sulla denuncia di sinistro (art. 1913, 1915 c.c.), le altre disposizioni in materia di assicurazione danni risultano incongrue e vengono disapplicate o derogate, non dovendosi operare una esatta correlazione tra la prestazione pattuita e la diminuita capacità di guadagno (che tra l’altro potrebbe risultare puramente presunta) o con i nuovi bisogni venutisi a determinare.

Ma, poiché la funzione tipica del contratto “deve essere desunta dalle reciproche obbligazioni delle parti”[140] e non esclusivamente dalla “predeterminazione convenzionale ed astratta della somma dovuta dall’assicuratore”[141], si è sostenuto da autorevole esponente della dottrina che “la individuazione della natura della prestazione dell’assicurato e cioè del premio” costituisce “indice rivelatore di quella operazione tecnico-economica che è alla base del contratto di assicurazione contro gli infortuni e conseguentemente della funzione del contratto medesimo”[142].

L’Autrice, allora, ricostruisce la struttura del premio nelle assicurazioni vita e quindi la raffronta con quella delle assicurazioni infortuni, nelle quali il premio puro viene calcolato “in base al solo elemento probabilistico”[143] e cioè “strutturato secondo gli schemi tipici delle assicurazioni contro i danni”:[144] questa caratteristica tecnica costituirebbe una fondamentale conferma della natura indennitaria della garanzia contro le disgrazie accidentali che Ella già ritiene emergente dalla disciplina contrattuale di polizza.

Nelle assicurazioni vita, l’assicurato paga un premio unico o un premio costante “al quale non corrisponde sul piano economico un impegno attuale dell’assicuratore della stessa entità” ma quest’ultimo provvede alla “capitalizzazione di queste somme ad un dato tasso di interesse”, per cui l’operazione vita “si risolve in una operazione di capitalizzazione che chiameremo demografico-finanziaria”[145].

Tale operazione certamente “si avvale del mezzo tecnico assicurativo e cioè del calcolo probabilistico”, come nelle assicurazioni danni, ma vi aggiunge l’elemento finanziario della capitalizzazione e quello demografico

dell’aspettativa di vita “per garantire all’assicurato, il quale prevede di aver bisogno per sé o per altri di certe somme di denaro in relazione al verificarsi di certi eventi della vita (morte, vecchiaia, maggiore età, etc.), il pagamento di un capitale o di una rendita per l’ipotesi che l’evento si verifichi”[146].

L’elemento finanziario, “presente in tutti i tipi di assicurazione sulla vita indipendentemente dalla loro durata”[147] consente all’assicuratore la formazione di una riserva matematica e, all’assicurato, di poter usufruire del riscatto e dell’anticipazione su polizza, assumendo un “rilievo determinante nella disciplina del contratto”[148] e facendo dell’assicurazione vita “una forma di risparmio aleatorio”[149].

Poiché la capitalizzazione del premio manca del tutto nell’operazione tecnica sottostante all’assicurazione infortuni, nella quale il premio “è calcolato in base al solo elemento probabilistico” e dunque “strutturato secondo gli schemi tipici delle assicurazioni contro i danni”[150], all’Autrice “tanto basta… per escludere che l’assicurazione infortuni abbia una struttura causale analoga a quella della assicurazione sulla vita”[151], non potendo la sua funzione “essere identificata e neppure assimilata alla funzione di risparmio aleatorio”[152] tipica invece dell’assicurazione vita.

Secondo tale impostazione, “l’analisi delle basi economiche del corrispettivo”[153] pagato dall’assicurato costituisce l’autentica cartina di tornasole della funzione indennitaria della garanzia contro le disgrazie accidentali che, secondo l’Autrice, trova poi conferma anche nella disciplina contrattuale di polizza.

Ora, se non può essere trascurato “il rilievo assunto dall’impresa, e per essa dall’operazione tecnica assicurativa, nell’economia del contratto” e quindi l’importanza della “nozione tecnica di premio” quale manifestazione della “rilevanza giuridica dell’elemento organizzativo imprenditoriale”[154], nemmeno può essere negata “la preminente rilevanza nella economia del contratto della prestazione dovuta dall’assicuratore al verificarsi dell’evento assicurato”[155]. 

Al riguardo, si è visto come la prestazione dell’assicuratore, anche nel caso di disgrazia invalidante e non mortale, non possa essere immessa negli angusti vincoli delle regole indennitarie e corrisponda, nella sua declinazione a livello di clausole contrattuali, all’esigenza dell’assicurato non di ottenere un ristoro di un danno ma di poter contare su di una provvista finanziaria adeguata a far fronte ad uno scenario economico a lui sfavorevole derivante dalla realizzazione del rischio infortunio.

L’intento delle parti[156], quale emerge dalla disciplina contrattuale di polizza, è quello di realizzare una operazione di natura previdenziale e non compensativa di un danno[157].

Che poi tale funzione previdenziale nelle assicurazioni infortuni non venga realizzata dall’assicuratore mediante una operazione demografico-finanziaria e cioè mediante la capitalizzazione di parte del premio puro, come avviene nelle assicurazioni vita, ciò dipende dalla “incidenza del fattore tempo”[158]: in ambito di copertura infortuni la proiezione del fabbisogno viene compiuta in un orizzonte temporale limitato (solitamente di un anno) e comunque può essere aggiornata annualmente, qualora pluriennale.

Peraltro, la realizzazione della funzione previdenziale non è necessariamente collegata ad una operazione tecnico-assicurativa basata sulla capitalizzazione[159], così come non tutti i contratti rientranti da un punto di

vista amministrativo-gestionale tra i rami vita svolgono funzione previdenziale[160].

Del resto, anche nelle assicurazioni danni “l’assicurato con il premio che paga, trasferisce e redistribuisce nel tempo reddito ossia opportunità di consumo, in diversi stati del mondo, da momenti favorevoli da un punto di vista economico ad altri momenti sfavorevoli”[161].

Si può quindi affermare che il contratto di assicurazione, in generale, “stabilizza il reddito di una persona, riduce le variazioni di reddito” ed in ciò mostra “analogie con il risparmio”[162].

Se il presupposto che attiva l’obbligazione dell’assicuratore nella garanzia contro le disgrazie accidentali è costituito da un evento incerto “di carattere dannoso e, allo stesso tempo, attinente alla vita umana, e tale evento infortunio ha una valenza previdenziale a termini dell’art. 38 Cost., la funzione previdenziale, in quanto costituzionalmente più pregnante, assorbe quella indennitaria”[163].

Ne consegue che la possibilità “di determinare la prestazione prescindendo dalle conseguenze dannose dell’evento” rende prevalente nelle assicurazioni infortuni ed in generale della salute, “la disciplina delle assicurazioni di eventi della vita rispetto a quella delle assicurazioni contro i danni e comunque “tendenzialmente inapplicabili le regole che costituiscono espressione del principio indennitario, con la conseguenza che le parti non saranno tenute a rispettare la corrispondenza tra quantum della prestazione e quantificazione dei danni alla persona, imposta dallo stesso”[164].

Il voler subordinare la funzione giuridico-economica del contratto, così come voluta dalle parti nelle clausole di polizza e tutelata dall’ordinamento, persino a livello costituzionale, alle tecnicalità proprie della operazione assicurativa sottostante non appare dunque argomentazione dirimente[165].

Le considerazioni sin qui svolte rendono evidente come le teorie indennitarie della garanzia infortuni portate avanti dalla dottrina e sviluppate fino a conseguenze estreme negli ultimi arresti giurisprudenziali, urtino contro la prassi negoziale che da sempre ha considerato la polizza infortuni quale strumento di previdenza e non quale rimedio compensativo di un danno.

Si è, infatti, evidenziato come i formulari di polizza non seguano una logica compensativa, prevedendo percentuali di invalidità liquidabile ben superiori (e fino ad arrivare a multipli) delle percentuali accertate in base a valutazione medico-legale, di modo che la prestazione di garanzia erogata dall’assicuratore risulti aliena dai requisiti e dalla funzione di indennizzo.

In proposito, anche la terminologia di polizza dovrebbe conformarsi a quella di tutti gli altri Paesi, ove nelle assicurazioni di persone la prestazione dell’assicuratore viene denominata con espressione differenziata rispetto a quella utilizzata nelle coperture danni: se può apparire sgradevole o impropria la traduzione di benefit  in beneficio, si potrebbe ricorrere, come è stato proposto ed attuato,[166] al termine indennità che, tra l’altro, spesso viene utilizzato nel linguaggio comune proprio con tale valenza.

Ma soprattutto è necessario invertire la rotta rispetto al dominante orientamento giurisprudenziale che ha sacrificato la garanzia privata infortuni sugli altari del principio indennitario, in base a teorizzazioni avulse dalla prassi negoziale e pervase dall’ossessione del moral hazard dell’assicurato, precludendo il pieno realizzarsi della sua funzione previdenziale, proprio in un tornante epocale che vede un imponente ritrarsi dello Stato e del welfare pubblico, lasciando ampi spazi che solo lo sviluppo di strumenti previdenziali ed assistenziali privati potrebbero colmare.

Arbitrarie limitazioni nella determinazione dei capitali assicurati, ingiustificati defalchi dai crediti risarcitori di indennità assicurative, anche in presenza di clausole di rinuncia alla surroga, assurdi oneri probatori posti a carico dell’assicurato allo scopo di dimostrare che il cumulo delle prestazioni dovute non venga a superare il danno subito, come emergono da consolidati orientamenti giurisprudenziali, non costituiscono certo un contesto favorevole ed incentivante per l’espandersi di una copertura assicurativa che rappresenta una forma di welfare privato disponibile per vasti strati della popolazione e a prezzi contenuti.

8. Per una nuova stagione della garanzia privata infortuni: il coraggio di voltare pagina

Favorita dall’assenza di una disciplina legislativa e da un contesto di rigida sistemazione bipolare delle garanzie assicurative si è venuta a creare una profonda dissonanza tra la prassi negoziale orientata ad attribuire alla garanzia privata infortuni una funzione prettamente previdenziale e la teorizzazione giurisprudenziale intesa a tipizzare in senso fortemente indennitario una copertura assicurativa che, per “l’apparente disarmonia”[167] dei suoi elementi caratterizzanti,  sembra svincolarsi da ogni rigore dogmatico.

Questo notevole scarto, esacerbato da posizioni fortemente ideologizzate e perentorie della giurisprudenza rischia di compromettere la vitalità stessa del mercato assicurativo nel comparto dedicato ai prodotti di protezione della persona, oltre che ad incidere sui rapporti con il sistema della responsabilità civile.

La singolarità del panorama italiano si staglia vieppiù a fronte della unanime esperienza degli altri Paesi europei e non, ove non si riscontrano analoghe visioni totalizzanti del principio indennitario ma, al contrario, la garanzia privata infortuni e le altre coperture assicurative per la persona, vengono ad acquisire la dignità di un autonomo modello assicurativo oppure sono assimilate, nella loro funzione previdenziale, alle assicurazioni sulla vita.

Che la distonia tra formante giurisprudenziale ed “il diritto vivente uscito dal commercio giuridico”[168] sia da risolvere è questione ineludibile, anche se, a breve scadenza, non appaiono all’orizzonte strumenti idonei a fornire pronte soluzioni.

Un revirement giurisprudenziale, sebbene auspicabile, risulta difficilmente realizzabile[169], considerata anche la forte spinta ideologizzante che ha sorretto l’opera di rimodellamento della garanzia in senso indennitario compiuta a partire da inizio millennio.

Non rimane che la prospettiva di un intervento legislativo, capace di assumere la responsabilità, anche in sede politica, di una opzione volta ad incentivare il senso di previdenza della persona in un contesto economico nel quale il welfare privato svolgerà sempre più un ruolo di integrazione e supporto delle prestazioni sociali pubbliche: è noto, peraltro, che le priorità della classe politica sono dettate dalle urgenze del momento, per cui, in assenza di una efficace pressione da parte dell’industria assicurativa, anche su questo versante i tempi si profilano lunghi.

Entrando nel merito delle soluzioni, quella che appare più adeguata a coniugare le peculiarità strutturali della garanzia contro le disgrazie accidentali e la sua funzione previdenziale è il suo inserimento all’interno di un terzo tipo contrattuale di assicurazioni delle persone, sul modello francese[170], per il quale venga stabilita una normativa a carattere previdenziale e cioè siano espressamente sanciti i seguenti punti:

  • la libera pattuizione contrattuale delle somme assicurate, aventi carattere di investimento previdenziale volto a fronteggiare le conseguenze della disgrazia e non di ristoro della lesione corporale patita;
  • l’esclusione del diritto di surroga dell’assicuratore verso terzi responsabili, con la sola eccezione per le garanzie prestate a titolo di rimborso;
  • l’inapplicabilità di tutte le disposizioni espressioni del principio indennitario, tranne per le garanzie di rimborso spese e con salvezza delle norme, in particolare sulla denuncia di sinistro, in materia di assicurazioni danni non incompatibili con la funzione previdenziale della garanzia.

In questo modo, verrebbe fornita tipizzazione legale ad un negozio già socialmente tipizzato in tal senso e con esso confluirebbero in un unico schema legale tipizzante anche altre coperture, quali le assicurazioni I.P. da malattia, le garanzie LTC (Long Term Care) ed eventuali ulteriori nuovi prodotti assicurativi dedicati alla protezione della persona.

La certezza di disciplina giuridica che ne deriverebbe, garantirebbe sicurezza per la prassi negoziale delle parti, non più in balia di mutamenti giurisprudenziali incapaci di coglierne l’autentico scopo perseguito, darebbe impulso ed incentivo allo sviluppo di strumenti di welfare privato, ad integrazione ed in sinergica compartecipazione con quelli dell’assicurazione sociale e dell’assistenza pubblica e per uno sviluppo di uno stato sociale sempre più integrato tra pubblico e privato.

Per i nostalgici delle coperture indennitarie, sempre guardando al modello francese[171], il mercato assicurativo potrebbe, in alternativa, offrire prodotti per il rischio di infortuni anche a carattere tipicamente compensativo delle lesioni personali patite dall’infortunato: i postumi verrebbero valutati in sede medico legale in base alle tabelle in uso nella infortunistica privata o, in alternativa, a quelle INAIL allegate al D.P.R. n.1124/65 e l’indennizzo elaborato applicando la percentuale accertata al reddito da lavoro dell’assicurato o, nel caso in cui egli non ne sia percettore o non sia in grado di fornirne prova documentale, su di un reddito presunto pari, ad esempio, al triplo della pensione sociale[172].

Ma ciò non toglie che il futuro della garanzia privata infortuni sta nello scopo previdenziale ed i timori per comportamenti speculativi o addirittura fraudolenti dell’assicurato, insiti in una libera pattuizione dei capitali assicurati, appaiono del tutto infondati oltre che immotivati, posto che per i primi la competenza ed esperienza degli assicuratori hanno dimostrato di saper valutare correttamente la quantità di rischio da sottoscrivere rispetto alla domanda[173], mentre contro la frode risulta perfettamente adeguata sia la normativa civilistica (art. 1900 c.c.), sia quella penalistica (art. 642 c.p.).

Il chiaro riconoscimento di una funzione previdenziale della garanzia privata infortuni consente, inoltre, di definire in modo netto il problema “della ricerca del coordinamento tra responsabilità civile ed assicurazione”[174].

Poiché funzione della garanzia de quo non è compensare un danno, bensì assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita compromesse dalle conseguenze dell’evento infortunistico, in adempimento di un principio costituzionalmente protetto, non si frappone alcun ostacolo all’accoglimento della soluzione del cumulo integrale di indennità assicurativa e di risarcimento del danno civilistico, secondo il tradizionale approccio adottato nei sistemi di common law con la doctrine della collateral source rule[175].

Ne consegue, quale immediato portato, la piena affermazione del principio di responsabilità, in quanto sull’autore dell’evento di danno illecito (o sul relativo assicuratore R.C.) verrà a gravare integralmente ogni debito risarcitorio, senza che egli possa beneficiare in alcun modo dell’atto di previdenza altrui[176].

Pertanto, preso atto della natura previdenziale della prestazione assicurativa ed individuato nel responsabile dell’evento il “primary cost bearer”, eventuali questioni sotto il profilo della “loss distribution”, “quale parametro ineludibile di ogni riflessione in materia di responsabilità civile”[177] vengono a dissolversi, ove si consideri che:

  • l’impatto dei costi amministrativi e giudiziali insiti nell’accertamento giudiziale della responsabilità e del quantum risarcitorio rimane comunque invariato quando, oltretutto, appare del tutto opinabile il contenimento di tali costi che si sostiene comporti l’opposto modello dello scomputo dell’indennità assicurativa dal debito risarcitorio (benefits offset)[178];
  • nessuna “duplicazione del ristoro appare in agguato”[179], posto che l’indennità assicurativa, come ampiamente dimostrato, non svolge alcuna finalità compensativa di un danno, il quale rimane unicamente oggetto di integrale ristoro ad opera dell’obbligazione risarcitoria del responsabile, mentre essa costituisce forma di previdenza per affrontare i nuovi bisogni e le necessità di sostentamento determinate dall’infortunio.

Un auspicabile intervento legislativo dovrà, dunque, senza remora alcuna, optare per l’autentica funzione previdenziale svolta dalla garanzia privata infortuni, così come testimoniato dalla prassi negoziale, obliterando le forzature operate dal formante giurisprudenziale per relegarla all’interno di un’artefatta ed inadeguata architettura indennitaria, sulla base di una irragionevole quanto infondata fobia di comportamenti opportunistici e fraudolenti da parte dell’assicurato[180].

Ne va della vitalità futura di questa garanzia e di quella gamma di prodotti dedicati alla protezione della persona, tra i quali, in particolare, spiccano le innovative garanzie, quali I.P. da malattia, Income Protection (IP) o Permanent Health Disease (PHI), Dread Disease (DD), LTC (Long Term Care): la loro collocazione all’interno di un autonomo tipo assicurativo[181], affrancato da ogni logica indennitaria, ne garantirebbe lo sviluppo, anche in forma di pacchetti assicurativi complementari, nonchè la essenziale funzione sociale in un nuovo sistema di welfare nel quale l’integrazione tra pubblico e privato si farà sempre più forte.

Per una nuova stagione della garanzia privata infortuni, serve, dunque, unicamente il coraggio di voltare pagina, o meglio, di riscriverla.

 

[1] Per un’approfondita analisi della nascita e sviluppo dell’assicurazione, vedi: A. La Torre, L’assicurazione nella storia delle idee, Milano, ed in particolare, per quando concerne l’origine mercantile dell’assicurazione, a pag. 147: “in un arco di tempo molto breve, l’assicurazione a premio giunse a maturità e si consolidò nel mondo degli affari, come efficace strumento protettivo dei traffici, senza conformarsi ad altre regole fuorchè a quelle via via emerse dal mos mercatorum. E anche se, più tardi, non mancò qualche significativa esperienza di intervento regolatore da parte del potere pubblico, come le famose ordinanze di Barcellona (verso la fine del secolo XV), tale disciplina normativa non fece, essa stessa, che conformarsi al modello contrattuale già ampiamente elaborato dalla prassi mercantile”.

[2] D. Lgs. 7 settembre 2005 n. 209, Art. 2 (Classificazione per ramo) c.3 “Nei rami danni la classificazione dei rischi è la seguente: 1 Infortuni (compresi gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali); prestazioni forfettarie; indennità temporanee; forme miste; persone trasportate”. Va rilevato come tale collocazione della garanzia privata infortuni nei rami danni abbia esclusiva valenza sotto il profilo gestionale-contabile e non abbia alcuna rilevanza ai fini della sua classificazione sotto il profilo civilistico.

[3] In Inghilterra nel 1848 fu fondata la Railway Passengers Assurance Company e venne registrata, quale Universal Casualty Compensation Company, avente per oggetto sociale quello di “…grant assurances on the lives of persons traveling by railway and to grant, in cases, of an accident not having a fatal termination, compensation to the assured for injuries received under certain conditions”. L’offerta assicurativa della compagnia prevedeva coperture con premi differenziati in rapporto alla classe di tariffa ferroviaria del biglietto, in considerazione dei maggiori rischi per i passeggeri in seconda e terza classe, derivanti dal fatto che le carrozze sulle quali viaggiavano erano prive di copertura. Storicamente essa rappresenta la prima compagnia dedicata all’assicurazione privata infortuni, anche se inizialmente il suo business fu limitato ai soli infortuni ferroviari, settore nel quale è stata una compagnia pioniera. Come evidenzia A. Fedeli, Le Assicurazioni Infortuni, in Manuale di Tecnica delle Assicurazioni, a cura di A.D. Candian – S. Paci, Tomo secondo, Milano, pag. 1185-7: “Le origini del ramo in Italia risalgono alla fine dell’800, epoca a partire dalla quale le compagnie sottoscrissero, con carattere di continuità e con criteri industriali, le assicurazioni infortuni allora chiamate “disgrazie accidentali. Risulta dalla pubblicazione commemorativa del primo centenario di attività delle Assicurazioni Generali che quella compagnia abbia sottoscritto assicurazioni infortuni fin dal 1881 nel territorio italiano raccogliendo premi che rappresentavano una piccola quota (3%) del totale dei rami elementari. In effetti sul finire del XIX secolo l’industrializzazione e la diffusione dei mezzi di trasporto meccanici avevano fatto sorgere il bisogno di tutelare le persone dai rischi legati a situazioni di pericolo che, rispetto ad un contesto sociale modulato su un’economia agricola ed artigianale, costituivano motivo di allarme.” “In effetti il sorgere e la diffusione dell’assicurazione infortuni, non solo in Italia, ma anche negli altri Paesi industrializzati, sono strettamente legati allo sviluppo dell’industria e dei mezzi di trasporto meccanici. Infatti, prima della metà del XIX secolo si erano avute sporadiche forme di assicurazione paragonabili alle moderne garanzie infortuni, ma nessuna di esse aveva assunto dimensioni o carattere di continuità degni di rilievo”.

[4] Come riporta U. Izzo in La giustizia del beneficio, Collana Università di Trento Facoltà di Giurisprudenza, 2018, pag. 221 sub nota 5: “L’importo della raccolta premi del ramo conobbe un incremento vicino a 6.000% fra il 1938 e il 1952, secondo i dati tratti dall’annuario ANIA del 1954 e ripresi da A. Donati, Trattato del diritto delle assicurazioni private, III, Milano 1956, pag. 509, sub nota 2

[5] Come si evince dalla Pubblicazione di ANIA, L’Assicurazione italiana 2020-2021, disponibile sul sito dell’Associazione: “Per quanto riguarda il settore delle polizze individuali (a copertura di una sola persona o di un nucleo familiare), si stima che nel 2021 i premi contabilizzati siano stati pari a 2,8 miliardi, in aumento del 3,7% rispetto al 2020. Oltre il 60% dei premi sono afferenti alle garanzie assicurative invalidità permanente (totale o parziale) e infortunio del conducente. Nel dettaglio, nel 2021 la copertura per l’invalidità permanente ha rappresentato oltre il 37% dei premi (36,4% nel 2020), la quota più alta tra tutte le garanzie, mentre la garanzia infortunio del conducente è risultata pari al 24,4% del totale premi, dal 26% nel 2020. I premi afferenti alla copertura del rischio morte si sono attestati a una quota mercato pari a poco più del 12%, in linea con quelli del 2020 e a seguire con il 7,6% quelli relativi alla copertura per inabilità temporanea. La categoria “altro” (che comprende l’indennità di ricovero, il rimborso delle spese per la cura e la riabilitazione a seguito di infortunio, nonché ulteriori garanzie che non rientrano in quelle indicate o che le imprese non distinguono) rappresenta la parte rimanente dei premi contabilizzati (il 18,7%). In merito alle polizze collettive (a copertura di una pluralità di persone e il contraente stipula l’assicurazione in nome e per conto altrui), nel 2021 l’ammontare del volume premi è stimato pari a 938 milioni, in aumento del 5,0% rispetto all’anno precedente. In particolare, risulta che il 39,4% dei premi contabilizzati sia rivolto alla copertura del rischio invalidità permanente (confermandosi la principale garanzia come per le polizze individuali), in aumento (+8,5%) rispetto al 2020.”

[6] Il riferimento va all’esperienza francese, nella quale, fin dalla prima disciplina normativa delle assicurazioni, adottata con la legge del 31 luglio 1930, si optò per disciplinare in un apposito titolo (Titolo IV, artt. da 54 a 83) le assicurazioni di persone, tra le quali venivano ricomprese accanto alle assicurazioni sulla vita, le assicurazioni contro gli infortuni, l’invalidità, la malattia e la vecchiaia. Attualmente l’assicurazione infortuni risulta disciplinata nel Code des Assurances nel Titre III: Règles relatives aux assurances de personnes et aux opérations de capitalisation (Articles L131-1 à L134-5).

[7] Cassazione Civile, 12 ottobre 1961 n.2095, secondo la quale: “mentre l’assicurazione contro i danni riflette le cose materiali ed inanimate, suscettibili quindi di proprietà e soggette, per se stesse, ad una obiettiva determinazione di valore, come emerge dalla correlativa norma di legge, l’assicurazione contro gli infortuni e le disgrazie accidentali riguarda la vita umana e le parti del corpo umano, le quali non possono considerarsi, sia pure per determinati e limitati effetti, come una cosa di cui l’individuo possa dirsi proprietario ed a cui possa egualmente attribuirsi un valore economico specifico, che non superi un certo limite. Ripugna, infatti, che il contratto di assicurazione contro gli infortuni individuali possa esser concepito come un semplice contratto di indennità, volto a riparare i danni risentiti, in conseguenza di infortunio, da quel particolare bene qual è, senza dubbio, la vita e la integrità fisica, anche per il contrasto della rappresentazione anzidetta con le concezioni etiche universalmente ricevute, che non sono e non possono restare estranee all’ordinamento positivo”. Anche in Cassazione Civile 9 settembre 1968 n.1915 viene sostenuta l’assimilabilità della garanzia infortuni a quella sulla vita, in quanto entrambe “si atteggiano ad una vera e propria misura di previdenza”. La decisione prosegue motivando che mentre nell’assicurazione contro i danni “il danno viene considerato in riferimento a cose materiali ed inanimate, suscettibili di proprietà e soggette perciò, per se stesse, ad una obiettiva valutazione economica, nell’assicurazione contro gli infortuni e le disgrazie accidentali quello che viene in considerazione è invece il corpo umano, nella sua interezza e nelle sue singole componenti, e cioè un bene tutt’affatto particolare, rispetto al quale, per la concezione etica che gli ordinamenti dei paesi civili, e quindi anche del nostro, hanno della vita umana, non è configurabile un puro e semplice contratto d’indennità come efficace strumento di riparazione del danno prodottosi. La pronuncia continua ancora rilevando: “E ad ulteriore conferma dell’assoluta impossibilità di applicare all’assicurazione sulla vita il regime dell’assicurazione contro i danni non è superfluo rilevare che, mentre in quest’ultima la misura del risarcimento è facilmente determinabile in quanto va ragguagliata alla diminuzione o alla perdita che la cosa ha subito nel suo valore intrinseco, con la conseguenza che l’assicurato non può realizzare un vero e proprio lucro, trovando l’indennizzo risarcitorio il suo limite naturale nella effettiva entità del danno sofferto, nell’assicurazione sulla vita (che rimane tale, ovviamente, anche nel caso che, come nella specie, quale evento di danno siano in essa previste al tempo stesso la morte e la lesione, essendo sufficiente la prima delle due previsioni a qualificarne la vera essenza) tale determinazione ha viceversa come unico suo parametro il valore che alla vita dell’assicurato, e quindi alla di lui integrità fisica, è stato dichiaratamente attribuito nella polizza, a nulla rilevando che tale valore possa risultare sproporzionato rispetto alla limitata capacità produttiva dell’assicurato stesso o che ad esso il danno economico effettivamente risentito dall’erede o dal beneficiario dell’assicurazione in genere, sia di gran lunga inferiore”.

[8] Con riguardo all’art. 1910 c.c., vedi Cassazione Civile, 19 marzo 1980 n.1832 in Rep. Foro it., voce Assicurazione (contratto di), n.113, per la quale: “nell’esercizio del potere di autonomia riconosciuto dall’ordinamento, la parti possono disciplinare determinate situazioni giuridiche indipendentemente dall’esistenza di una norma di legge, non avente carattere imperativo, che già le regoli in via generale ed astratta, eventualmente derogando a tale disciplina normativa; pertanto, è legittima la clausola di un contratto di assicurazione contro gli infortuni, che statuisca l’obbligo dell’assicurato di comunicare all’assicuratore l’eventuale stipulazione di un altro contratto di assicurazione e che importi in caso di omissione, ancorchè non dolosa, l’esclusione dell’obbligo di indennizzo, attesa la sua difformità dal disposto del comma 2 dell’art. 1910 c.c. avente natura non inderogabile, in quanto non compreso nella elencazione dell’art. 1932 c.c.” Per la derogabilità della previsione codicistica dell’art. 1916 c.c., vedi Cassazione Civile, 23 novembre 1965 n.2405 in Foro It., 1965, I,2037, mentre per la tesi che la precitata norma esplica funzione indennitaria, evitando il cumulo di diritti a favore di uno stesso soggetto vedi: Cassazione Civile, 7 settembre 1966 n.2336 in Foro it., 1966, I, 2019.

[9] A. Durante, Manuale per l’assicurazione facoltativa infortuni, Milano, 1973, 76 s.: “contrariamente a quanto si ritiene di solito, oggetto dell’assicurazione non è la vita umana, e nemmeno il corpo dell’uomo, ma la capacità di lavoro e di guadagno, vale a dire un “bene” valutabile e commerciabile, tanto è vero che forma la base del contratto di lavoro, e che nelle lesioni personali o nell’omicidio ammette un risarcimento in rapporto alla riduzione o eliminazione di valore”.

[10] Cassazione Civile, 27 novembre 1979 n.6205, in Ass. 1981, II, I,105 per la quale: “l’assimilazione in via analogica, sostenuta da parte della dottrina e giurisprudenza, tra l’assicurazione volontaria sugli infortuni e quella sulla vita non può essere totale ed assoluta”.

[11] Il documento risulta pubblicato in A. La Torre, Un convegno di studi sull’assicurazione infortuni, in ID. Cinquant’anni col diritto, II, Milano 2008, pag.557 e segg.

[12] V. Salandra, Natura giuridica dell’assicurazione facoltativa infortuni, in Ass., 1942, II, pag.119, il quale osservava che “se anche i danni prodotti alla persona sono suscettivi di valutazione economica ( …. ) la valutazione non ha qui luogo, come avviene nell’assicurazione contro i danni, a posteriori, in modo che il risarcimento corrisponde senza superarlo, al danno economico effettivamente sofferto dall’infortunato o in caso di morte dai suoi familiari come imporrebbe di fare il principio indennitario”.

[13] G. Fanelli, La “summa divisio” delle assicurazioni private: riflessioni su di un vecchio problema, in Studi in onore di Alberto Asquini, pag. 407, il quale facendosi promotore della tesi del contratto misto, sosteneva che “la soluzione del tertium genus non è affatto ( … ) una soluzione per i problemi del ramo infortuni o di qualsiasi altro ramo che, a prima vista, possa sembrare estraneo sia alla disciplina delle assicurazioni contro i danni (art. 1904-1918) sia a quella delle assicurazioni sulla vita (art. 1919-1927)”.

[14] Cassazione Civile, 3 maggio 1986 n.3017, in Giust. Civ. 1986 I, 2831; Cassazione Civile n.4883/1987; Cassazione Civile n.661/1988, giurisprudenza più recentemente confermata da Cassazione Civile, sez. III, sentenza 12/02/2008 n° 3268.

[15] Cassazione Civile, 4 agosto 1995, n. 8597, in Giust. civ. Mass., 1995, 1486.

[16] In senso contrario e per l’assoluta inapplicabilità del meccanismo della surroga nel caso di garanzia infortuni mortali, qualificata quale assicurazione sulla vita, si è espressa di recente Cassazione Civile Sez. III, 8 aprile 2021 n. 9380: “se infatti l’assicuratore del “ramo vita” con l’adempiere alla obbligazione derivante dalla polizza, attribuendo la somma prevista – in forma di capitale o rendita – al beneficiario, non soddisfa alcun credito risarcitorio vantato da quest’ultimo nei confronti del terzo responsabile del danno, prescindendo la prestazione dell’assicuratore dalla esistenza e dalla entità del pregiudizio subito dal beneficiario derivante dall’atto illecito, viene meno la stessa possibilità di attuazione del meccanismo surrogatorio, non essendo l’assicuratore chiamato ad adempiere “a causa” dell’illecito, ma “a causa” dell’evento della morte dell’assicurato, e cioè della verificazione del rischio oggetto della polizza”. Per un commento in merito, vedi: F. Pes, L’assicurazione infortuni: natura, cumulo di prestazioni e limiti alla prestazione dell’impresa, in Resp. civ. e prev. n.3/2022 pag. 902 ss.

[17] G. De Zuccato, Una sentenza alquanto deludente sulla natura giuridica dell’assicurazione privata contro gli infortuni, in Diritto ed Economia dell’Assicurazione, n.1-2, gennaio 2003 pag. 542 segg.

[18] Vedi: Cassazione Civile, 12 ottobre 1961 n.2095, citata in nota 7.

[19] La contraddizione è data dalla qualifica della garanzia infortuni caso morte quale assicurazione sulla vita e dunque tipo contrattuale non ispirato al principio indennitario bensì a quello previdenziale.

[20] In tal senso, U. Izzo, op. cit. pag. 256: “L’obiettivo di questa manipolazione è, in realtà, quello di lanciare la volata alla sottoposizione del contratto in discorso al dogma indennitario. E’ questa la vera e più pregnante innovazione recata dalla sentenza delle S.U. del 2002, che – occorre soggiungere – era passata sostanzialmente sottotraccia negli anni che ormai ci separano da quella pronuncia, cui forse è capitato in sorte di non attirare in dottrina il livello di attenzione che avrebbe meritato di ricevere, vista l’importanza sistematica che il risultato di quella pronuncia a tutt’oggi assume”.

[21] Cassazione Civile, Sez. III, 11 giugno 2014 n.13233 e Cassazione Civile, Sez. III, 13 giugno 2014, n.13537, entrambe con giudice relatore il dott. Marco Rossetti

[22] Cassazione Civile, Sez. III, 11 giugno 2014 n.13233.

[23] Sul concetto di interesse nel contratto di assicurazione: M. Mazzola, Sul concetto di interesse nell’assicurazione: inquadramento teorico e profili applicativi, in Rivista di diritto civile, n. 5/2019, pag. 1200 ss.

[24] Cassazione Civile, 17 maggio 1927, in Foro It. Rep., 1927, voce Assicurazione (contratto di), n. 102; Cassazione Civile., 22 maggio 1959, n. 1563, in Foro It. Rep., voce Assicurazione (contratto di), nn. 97-98; Cassazione Civile, 2 settembre 1998, in Riv. giur. circ. trasp., 1998, p. 947 segg.

[25] Sulla questione M. La Torre, Compensatio lucri cum damno e diritto di surroga dell’assicuratore, in Rivista di diritto privato 4/2019 pag.541 chiosa: “Sul punto va osservato che: da un lato non vi è ragione per ritenere che il credito del danneggiato, che è esistente se esercitato dall’assicuratore in surroga, non esiste più se – per rinuncia di costui – è fatto valere dal creditore originario; dall’altro, in caso di rinuncia preventiva al diritto di surrogazione (cioè per clausola di polizza), sembra fuori da ogni logica pensare che l’assicuratore pattuisca con l’assicurato la rinuncia alla surroga per favorire l’ignoto soggetto che provocherà il sinistro.”

[26] Rileva la peculiare e limitativa nozione del principio di integralità del risarcimento, tradizionalmente concepito con una vocazione espansiva: M. Gagliardi, Il divieto di cumulo di indennità assicurativa e risarcimento del danno nelle polizze infortuni: una “polizza sulla vita” per le assicurazioni di persone? In Rivista di medicina legale e del diritto in campo sanitario, 2015, Fascicolo 2 pag. 688-698.

[27] Osserva P. Trimarchi in La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano 2017, pag.165: “Quanto all’assicurazione contro gli infortuni e le disgrazie accidentali, merita di essere riconsiderata la rigidità con la quale la recente giurisprudenza assoggetta al principio indennitario quanto dovuto dall’assicuratore nel caso di incidente non mortale. Non persuade l’idea di ricondurre necessariamente al danno risarcibile dal danneggiante quanto pattuito nell’esplicarsi dell’autonomia negoziale in questo tipo contrattuale; e appare una forzatura ritenere che la regola della surrogazione dell’assicuratore prevista dall’art. 1916 c.4 Cod Civ. non possa essere derogata dalle parti perché espressione di un principio di ordine pubblico.”

[28] M. La Torre, op. ult. cit. pag. 542: “Se dunque, l’assicuratore rinunzia – e non certo a favore del terzo responsabile – al diritto di surrogazione, non per questo si estingue il diritto di credito (avente per oggetto il risarcimento del danno) verso l’autore del fatto illecito. Egli doveva e deve pagare il suo debito al danneggiato, debito per il quale non vi è per lui alcuna causa di esonero; né – come si è visto – il principio indennitario impedisce al creditore di riscuoterlo. Risolvere la questione in senso opposto, cioè dispensando dall’obbligo di risarcimento l’autore del danno, non si può senza incorrere in una palese violazione del principio di responsabilità.”

[29] Si tratta delle seguenti pronunce: Cass. civ., Sez. un., 22 maggio 2018, nn. 12564, 12565, 12566, 12567.

[30] Vedi nota 26, M. Gagliardi, op cit.

[31] Come rileva U. Izzo, in op.cit., pag.14: “Mostrarsi consapevoli che le scelte dell’interprete sono suscettibili di determinare nella società esiti di ridislocazione delle risorse, non significa proporsi ingenuamente di sottomettere la tecnica alla politica, o meglio, a una delle tante, possibili visioni della politica. Induce piuttosto a mostrare sensibilità per un altro tipo d’interrogativo, per chiedersi se il tipo di risposta che l’interprete può ingegnarsi a dare al problema tecnico, con gli inevitabili effetti ridistributivi che ogni risposta reca con sè, sia suscettibile di trovare sedi istituzionali migliori per ponderare tali effetti in tutte le loro implicazioni.”

[32] Si tratta di: Corte Cassazione S.U. Sentenza 22 maggio 2018, n. 12566.

[33] Tribunale di Bolzano, 8 novembre 2018 n.1183.

[34] Tribunale di Firenze, 18 dicembre 2018 n.3596.

[35] Corte Cassazione, Sez. III, Ordinanza 27 maggio 2019 n.14358.

[36] U. Izzo, in op.cit., pag. 272, a proposito dell’evento infortunio parla di “rischio che (…) assume natura indistintamente multifattoriale”.

[37] Risale addirittura a Cassazione Civile, Sezioni Unite del 17 febbraio 1964 n. 351, il principio della riduzione proporzionale del danno in ragione del comportamento del soggetto danneggiato, con applicazione anche quando costui sia incapace di intendere o di volere per minore età o per altra causa, in quanto l’art. 1227 c.1 c.c. non è espressione del principio di autoresponsabilità bensì costituisce un corollario del principio di causalità, per cui al danneggiante non può farsi carico di quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile. Giurisprudenza che si è poi consolidata fino ad oggi, per cui l’art. 1227 c.1 rappresenta “espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a sè stesso”, come affermato in Cassazione Civile, sezione III, 8 maggio 2003 n.6988.

[38] Cassazione Civile, sezione III, sentenza 17 marzo 2021 – 21 aprile 2021, n. 10579 : “La funzione di garanzia dell’uniformità delle decisioni svolta dalla tabella elaborata dall’ufficio giudiziario è affidata al sistema del punto variabile, per il grado di prevedibilità che tale tecnica offre pur con limitate possibilità di deroga, derivanti dalla eccezionalità del caso di specie e consentite dalla circostanza che, a differenza della tabella unica prevista dall’art. 138, si tratta non di una norma di diritto positivo, ma del diritto vivente riconosciuto da questa Corte:” E, a proposito delle tabelle nazionali di emanazione legislativa, la stessa pronuncia si esprime in questi termini: “Mentre la tabella elaborata dall’ufficio giudiziario costituisce l’estrazione d’ipotesi tipizzate di liquidazione del danno dalle diverse e puntuali concretizzazioni giudiziali della clausola generale, la tabella nazionale rappresenta la concretizzazione legislativa in forma generale e astratta del valore della valutazione equitativa del danno, il quale non è così solo enunciato come tale in forma di clausola generale, ma diventa anche il criterio della disciplina di liquidazione del danno nel caso delle menomazioni all’integrità psicofisica ai sensi dell’art. 138 cod. assicurazioni. In presenza di tali menomazioni trova applicazione la tabella nazionale e non l’art. 1226. E’ consentito pertanto superare i limiti previsti dalla tabella nazionale solo alle condizioni previste dalla legge perchè, come previsto dall’art. 138, comma 4, “l’ammontare complessivo del risarcimento riconosciuto ai sensi del presente articolo è esaustivo del risarcimento del danno conseguente alle lesioni fisiche”. In mancanza di un’autorizzazione legislativa, il giudice non può derogare alla tabella unica, ma “qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati, l’ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella unica nazionale di cui al comma 2, può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 30 per cento” (art. 138, comma 3)”.

[39] Non ritiene che si possa parlare di una liquidazione forfettaria di un danno sia perché la somma garantita in polizza è frutto di una libera scelta delle parti, sia perché la integrità dell’uomo non è traducibile in un valore reale né “al tempo del sinistro”, G. Scalfi, Manuale delle assicurazioni private, Milano 1994 pag. 203.

[40] E. Bottiglieri, Dell’assicurazione contro i danni, Artt. 1904-1918, in Il Codice Civile Commentario, Milano, pag.126: Il carattere derogatorio del secondo comma rispetto al primo comma, emerge dal “tuttavia” e la rilevanza del valore delle cose “al tempo della conclusione del contratto” non soltanto al fine di determinare il premio ma anche per la valutazione del danno emerge dal “può essere stabilito” La giustificazione della deroga starebbe nell’accettazione di entrambe le parti, già al momento della conclusione del contratto, del valore, accettazione che interviene a seguito di stima e che assume la forma scritta”.

[41] La contestabilità della stima per esagerazione dolosa o sopravvenuta corrisponde alla c.d. tesi processuale della stima, risolvendosi questa in una inversione dell’onere probatorio, gravando sull’assicuratore la prova che il valore risarcibile è inferiore a quello pattuito. In merito a questa tesi, E. Bottiglieri, op.cit. pag.129 afferma: “Non sembra possibile privare il secondo e il terzo comma dell’art. 1908 anche di quella che può considerarsi la portata minima, cioè della previsione della presunzione di correttezza della stima anche ai fini della determinazione del danno, con la conseguente inversione dell’onere della prova del danno a carico dell’assicuratore, interessato ad accertare il valore reale in quanto inferiore a quello stimato. Vi sarebbe, comunque, il riconoscimento implicito della finalità perseguita nella pratica con la polizza stimata, rendere rilevante il valore stimato – ove non contestato – anche al fine della determinazione del danno e non soltanto di quella del premio”. A tale tesi si contrappone quella c.d. sostanziale che sostiene la inattaccabilità della stima, non essendo dato più discutere il valore del bene assicurato. Per quest’ultima posizione vedi G. Volpe Putzolu, L’assicurazione privata contro gli infortuni, Milano 1968 pag. 187: “Si è sostenuto da una parte della dottrina che il tenore dell’art. 1908 consente bensì di ammettere l’inattaccabilità del valore attribuito alla cosa al momento della conclusione del contratto, ma non esclude la prova che il suddetto valore sia posteriormente diminuito. Non mi sembra che questa tesi sia fondata, perché comporterebbe una sostanziale svalutazione degli effetti pratici che la stima mira a conseguire, consentendo sempre all’assicuratore di porre in discussione sotto questo profilo il valore della stima”. E la stessa Autrice afferma inoltre a pag. 186: “L’eventualità di una stima che sia manifestamente esagerata rispetto al valore reale del ben è puramente marginale e presuppone l’esistenza di assicuratori o sprovveduti ed inesperti oppure così ingenui da accettare consapevolmente una liquidazione preventiva estremamente pericolosa, perché tale da aumentare la probabilità di una provocazione volontaria del sinistro”.

[42] Cassazione Civile, Sez. III, 4 maggio 2018, n.10602.

[43] V. De Lorenzi, Contratto di assicurazione, Disciplina giuridica e analisi economica, Padova, pag. 33.

[44] V. De Lorenzi, op. cit. pag.33.

[45] E. Bottiglieri, op.cit. pag.129.

[46] E. Bottiglieri, op. cit. pag.129.

[47] V. De Lorenzi, op.cit. pag. 216: “Il rischio morale, in sé, non è questione così grave da non poter trovare soluzioni contrattuali, da paralizzare il mercato assicurativo. Tra le parti del contratto di assicurazione, assicuratore ed assicurato, il problema del rischio morale è affrontato e risolto con il contratto medesimo, non presenta ragioni di ordine pubblico (esso non genera esternalità negative). La soluzione al problema del rischio morale è lasciata, dalle norme, prevalentemente all’autonomia privata delle parti del contratto di assicurazione: quando vi è solo ed esclusivamente un problema di rischio morale, le norme sono derogabili”.

[48] De Lorenzi, op. cit., pag. 201-202: “L’art. 1910 c.c. non si applica nelle assicurazioni di persone; si possono acquistare tante polizze quante si desiderano, per il medesimo rischio, per il medesimo tempo; l’ammontare del danno per cui è contratta l’assicurazione, il “danno atteso”, è pattizio, è quello per cui l’assicurato è disposto a pagare il premio. Il problema del controllo della quantità di assicurazione comprata da parte dell’assicurato, presso un assicuratore e presso tutti gli assicuratori, e dell’indennizzo ricevuto, il problema del coordinamento di polizze assicurative, in linea di massima, non sussistono. Le esternalità negative derivanti dal rischio morale (e dalla selezione avversa), presenti in caso di assicurazioni plurime di cose e patrimoni, in via generale, sono assenti in caso di assicurazioni plurime di persone. ( … ) Vi è un problema di rischio morale e di esternalità negative connesse sugli altri assicuratori e un problema di selezione avversa: l’assicurato può avere intenzione di uccidersi, oppure può essere gravemente malato; e così, anche nell’assicurazione infortuni, l’assicurato può avere intenzione di provocare un infortunio, o svolgere un’attività pericolosa. E’ da ritenere pertanto preferibile, per tali assicurazioni, l’applicazione dell’obbligo di informare le altre compagnie ex art. 1910 1° e 2° co. c.c.”.

[49] La normativa penale di cui all’art. 642 c.p. è stata dapprima riformata dalla Legge 12 dicembre 2002 n.273 e poi inasprita dalla Legge 24 marzo 2021 n.27.

[50] U. Izzo, op. cit. pag. 266 : “Affermare a tinte nette e perentorie che l’assicurazione privata contro le disgrazie accidentali con esiti non mortali obbedisce sempre, in via generale ed astratta, al principio indennitario, comporta, in altre parole, una radicale compressione di quell’autonomia negoziale attraverso la quale nei contratti di questo ramo assicurativo si era da sempre data voce alle scelte, a un tempo economiche e negoziali (e come tali – occorre presumerlo fino a prova contraria – assistite da un canone di razionalità mercantile, testimoniato dalla reciproca e reiterata condivisione di queste scelte) degli attori del mercato. Il che, fra l’altro, induce a dare un senso preciso alla scelta operata nel 1942, quando – diversamente da quanto accadeva nel vigore del codice di commercio previgente – si sancì l’inderogabilità pattizia di alcune norme della disciplina codicistica dell’assicurazione, senza, peraltro, preoccuparsi di prevedere tale inderogabilità per tutte le norme esprimenti il senso del principio indennitario (fra cui, ovviamente, il quarto comma dell’art. 1916 c.c.) per far sì che alle parti residuasse la scelta di escludere pattiziamente la cogenza di queste previsioni”.

[51] G. Partesotti, La polizza stimata, Napoli, 2017 pag.67; A. La Torre, Le Assicurazioni, Milano, pag. 442; A. De Gregorio, G. Fanelli, A. La Torre, Diritto delle assicurazioni, II, Milano 1987, pag.110.

[52] Vedi ad esempio: Art. 2 Altre Assicurazioni in Polizza Assicurazioni Infortuni Globale Edizione 01.2019 di Vittoria Assicurazioni.

[53] M. Hazan, L’assicurazione infortuni tra diritto positivo, prassi negoziale e prospettive di riforma, in Diritto ed Economia dell’Assicurazione, 2005, pag. 595; M. Hazan, Disciplina civilistica dell’assicurazione danni e dell’assicurazione vita applicabile all’assicurazione infortuni, in RIB, Reinsurance International Brokers-37, pag. 43: “In sostanza, il richiamo all’art. 1910 c.c. contenuto nella maggior parte delle polizze infortuni in uso, va letto soprattutto come norma di comportamento imposta all’assicurato (o al contraente) al fine di mettere in condizione l’assicuratore di conoscere l’eventuale coesistenza di altre polizze, mettendolo in guardia da possibili tentativi di fraudolenta determinazione del danno, ed ancor prima di consentirgli, se del caso, di non assumere, all’atto della stipula, il relativo rischio. Insomma, si tratta di una clausola che, di fatto, sancisce l’obbligo di informativa e cooperazione dell’assicurato, ponendosi in un rapporto di stretto parallelismo con il meccanismo sanzionatorio previsto dagli artt. 1892 e ss. c.c. (senza porre l’accento sulla componente indennitaria data dalla limitazione dell’indennizzo al valore effettivo del danno)”.

[54] M. Hazan, L’assicurazione infortuni tra diritto positivo, prassi negoziale e prospettive di riforma, in Diritto ed Economia dell’Assicurazione, 2005, pag. 600.

[55] Vedi ad esempio: Art. 51 Altre Assicurazioni, Polizza Protezione su misura, Contratto di assicurazioni infortuni e malattia, Ed. febbraio 2022, AXA Assicurazioni; Art. 1.2 Altre Assicurazioni Polizza Invalidità Permanente da Malattia ED. 05.2011 Italiana Assicurazioni Gruppo Reale Mutua Assicurazioni.

[56] M. La Torre, op. ult. cit.pag.542, vedi nota 26.

[57] M. La Torre, op. ult.cit. pag.540: “È chiaro che questa previsione non rientra nello schema della surrogazione legale (ex art. 1203 n. 3 c.c.), che ha luogo di diritto “a vantaggio di colui che essendo tenuto con altri o per altri, aveva interesse a soddisfarlo”. E non vi rientra per la semplice ragione che, pagando all’assicurato – danneggiato l’indennità pattuita per il caso di sinistro (ex art. 1882 e 1905 c.c.), l’assicuratore adempie una obbligazione esclusivamente sua: non paga, quindi, un debito al quale era tenuto “con altri o per altri”. Ciò significa che la surroga dell’assicuratore non avviene automaticamente allorché questi paga l’indennità dovuta all’assicurato – danneggiato, ma occorre che, eseguito tale pagamento, l’assicuratore – avvalendosi appunto della facoltà concessagli dall’art. 1916 c.c. – dichiari al terzo responsabile che intende esercitare contro di lui i diritti già spettanti al danneggiato”.

[58] . R. Pardolesi, Assicurazione e responsabilità civile, risarcimento più indennizzo: troppa grazia? Modelli a confronto, Law & Economics Lab -53 2018.

[59] M. La Torre, op. ult. cit. pag. 543: “Ma, a fugare il dubbio, basta leggere l’art. 2041 c.c. (“Azione generale di arricchimento”), che dovrebbe costituirne il fondamento: “Chi, senza giusta causa, si è arricchito a danno di un altro, è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultimo della correlativa diminuzione patrimoniale. Sennonché: a) difetta il requisito della mancanza di una “giusta causa”, questa consistendo nel danno causato dal responsabile col suo fatto illecito, esso sì produttivo di un “danno ingiusto” per colui che l’ha patito; b) non c’è un arricchimento “a danno di un altro”, perché se il danneggiato riceve anche l’indennità assicurativa, questo né è pagata da o per il danneggiante, né è riscossa dal danneggiato in pregiudizio del terzo responsabile; c) costui, pertanto, non subisce alcuna “diminuzione patrimoniale”. Piuttosto, a parti invertite, sembra più vicino al vero la conclusione che arricchimento senza giusta causa vi sarebbe nel terzo responsabile se questi fosse esonerato dall’obbligo di risarcimento”.

[60] . La terminologia è tratta da R. Pardolesi, op. ult. cit., il quale, tuttavia, esprime, in una ottica di analisi economica del diritto, un giudizio tutto sommato positivo sulla posizione assunta dalle Sezioni Unite della Suprema Corte: “In definitiva, il modello aspira a presentarsi come virtuoso, perché contamina e smussa le dimensioni estreme delle alternative disponibili. È un compromesso (inevitabilmente imperfetto) segnato da talune sconnessioni, riconducibili al mutamento in corsa delle regole del gioco: sconnessioni che oggi pesano, e non poco, ma che potranno essere in gran parte ovviate de futuro dall’adattamento del mercato al nuovo corso. Difficile fare di meglio, dato il contesto normativo sottostante. E, forse, difficile in ogni caso”.

[61] M. Hazan, op. ult. cit. pag.584.

[62] A. Donati La natura giuridica dell’assicurazione volontaria contro gli infortuni, in Ass. 1953, I, pag.41; L. Buttaro, voce Assicurazione contro i danni in Enc. Dir. Milano, 1958, pag.507; E. Pasanisi, L’assicurazione infortuni nella disciplina legislativa del contratto di assicurazione, in Ass. 1962, I, pag.367; V. Colasso, L’assicurazione infortuni – Profili giuridici, Milano 1970 pag.13.

[63] . R. Capotosti, La natura giuridica dell’assicurazione contro gli infortuni, in Riv. Dir. Civ., 1963, II, p.487-492.

[64] A. Durante, L’assicurazione privata contro gli infortuni, Milano 1960 pag.306: “il corpo umano, insieme di materie organiche, di Sali e di minerali, ha un valore economico solo in quanto funzioni e sia atto a produrre, valore che si attenua o scompare se tale attività diminuisca o sia eliminata per età, malattie, lesioni”.

[65] Così si esprime Cassazione Civile, Sez. III, 11 giugno 2014 n.13233.

[66] G. Volpe Putzolu, L’assicurazione privata contro gli infortuni, Milano 1968, pag.5.

[67] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 160.

[68] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 160.

[69] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 162.

[70] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 162.

[71] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 165.

[72] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 171.

[73] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 170.

[74] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 171.

[75] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 171.

[76] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 171.

[77] Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 214.

[78] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 214.

[79] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 214.

[80] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 214.

[81] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 214.

[82] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 219.

[83] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 219.

[84] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 191.

[85] G. De Zuccato, Infortuni e malattie: assicurazioni private per gli anni novanta, Milano, 1988.

[86] G. De Zuccato, Una sentenza alquanto deludente sulla natura giuridica dell’assicurazione privata contro gli infortuni, in Diritto ed Economia dell’Assicurazione, n.1-2, gennaio 2003 pag. 545: “il momento delle lesioni è quello cruciale e, quindi, è il rischio assicurato”.

[87] G. De Zuccato, Assicurazione infortuni: uno spiraglio di luce, in Diritto ed Economia dell’Assicurazione, Fasc. 2, 2006, pag. 403 segg.

[88] G. De Zuccato, Una sentenza alquanto deludente sulla natura giuridica dell’assicurazione privata infortuni in Diritto ed Economia dell’Assicurazione, n.1-2, gennaio 2003, pag. 545.

[89] G. Forte, Ritorniamo ancora sulla natura giuridica dell’assicurazione privata contro gli infortuni, in Assicurazioni, Parte I – 13, pag. 185 segg.

[90] G. Forte, op. ult. cit., pag. 186.

[91] G. Forte, op. ult. cit., pag.187.

[92] G. Forte, op. ult. cit., pag. 197; Sulla qualifica di personal insurance e non di contract of indemnity nella esperienza anglosassone vedi anche: F. Sartori, Le assicurazioni infortuni: funzione indennitaria e vantaggi compensativi, in AA.V.V. Diritto alla salute e contratto di assicurazione, a cura di P. Corrias, E. Piras e G. Racugno, Napoli, pag. 185.

[93] G. Forte, op. ult. cit., pag.194.

[94] G. Forte, op. ult. cit., pag. 195

[95] G. Forte, op. ult. cit., pag.195.

[96] G. Forte, op. ult. cit., pag. 195.

[97] P. Corrias, La causa del contratto di assicurazione: tipo assicurativo o tipi assicurativi? In Rivista di diritto civile, Anno LIX, N.1 gennaio-febbraio 2013, pag.74: “Ebbene, in ordine ai dubbi sulla riconducibilità di tali tipologie di accadimenti agli “eventi attinenti alla vita umana”, un ausilio fondamentale giunge, come si è rilevato, dall’art. 38 Cost. che, equiparando la valenza “previdenziale” della vecchiaia a quella della malattia, dell’infortunio e dell’invalidità, conduce decisamente ad includere nella portata dell’espressione codicistica tutte le menomazioni dell’integrità psico-fisica dell’individuo, a prescindere dalla gravità che presentano e dalle modalità con le quali si manifestano”.

[98] P. Corrias, op. ult. cit. pag. 74.

[99] V. Salandra, Natura giuridica dell’assicurazione facoltativa infortuni, in Assicurazioni, 1942, II, 119 pag. 9.

[100] G. Fanelli, La “summa divisio” delle assicurazioni private: riflessioni su di un vecchio problema, in Studi in onore di Alberto Asquini, pag. 407.

[101] In questi termini si esprime U. Izzo, in op. ult. cit. pag. 236.

[102] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 194: “Per contro non ritengo che sia indicativa sotto il profilo considerato la norma dell’u.c. dell’art. 1916 cod. civ., che estende espressamente all’assicurazione infortuni il regime della surroga dell’assicuratore, caratteristico ed esclusivo dell’assicurazione contro i danni”; L. Locatelli, La polizza contro gli infortuni non mortali: un contratto a causa variabile? In Responsabilità Civile e Previdenza, n.1 – 2019 pag. 341: “La curiosità, che conferma una situazione normativa non proprio granitica, fu che l’inserimento dell’assicurazione contro gli infortuni non mortali nell’alveo delle assicurazioni contro i danni trovò, nell’occasione affrontata dalle Sezioni Unite del 2002, una solida base nell’istituto della surrogazione applicabile alle assicurazioni contro le disgrazie accidentali ai sensi dall’art. 1916, comma 4, c.c. Sino ad allora, infatti, proprio quella norma era stata utilizzata quale presidio inattaccabile dell’appartenenza dell’assicurazione infortuni al genere vita; si sosteneva, cioè, che l’estensione di un istituto come quello della surrogazione, tipico delle assicurazioni contro i danni, alle polizze infortuni altro non potesse significare se non che queste ultime appartenessero al genere vita”.

[103] Se prendiamo in esame i formulari di polizza presenti sul mercato italiano, notiamo come in essi venga usualmente riportata nei seguenti termini la nozione di infortunio: “Evento fortuito, violento ed esterno che abbia come conseguenze lesioni corporali obiettivamente constatabili le quali abbiano per conseguenza la morte, una invalidità permanente oppure una inabilità temporanea”. In alternativa, il testo suggerito da ANIA è di identico tenore, con la sola sostituzione dell’aggettivo “corporali”, che denota le lesioni, con quello di “fisiche”. Alcuni esempi tra i diversi formulari: Polizza GENERALI, IMMAGINA Benessere mod. 01/03 Ed. 03/2018, Infortunio “Ogni evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna che produca lesioni corporali obiettivamente constatabili, le quali abbiano per conseguenza la morte, l’invalidità permanente o una inabilità temporanea”. Polizza AXA Italia Protezione Salute Edizione febbraio 2022, Infortunio “ogni evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che produca lesioni fisiche obiettivamente constatabili. VITTORIA Assicurazioni, Polizza Assicurazione Infortuni Globale 01.19, Infortunio: “È considerato infortunio l’evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che produca lesioni fisiche oggettivamente constatabili, le quali abbiano per conseguenza la morte o una invalidità permanente, una inabilità temporanea, un ricovero in istituto di cura, una frattura ossea, una convalescenza”.

[104] Vedi, ad esempio, Polizza GENERALI, IMMAGINA Benessere mod. 01/03 Ed. 03/2018 – “Art. 4.4 Denuncia dell’infortunio: La denuncia dell’infortunio, con l’indicazione del luogo, giorno e ora dell’evento e delle cause che lo hanno determinato, corredata da certificato medico, deve essere fatta per iscritto dal Contraente, dall’Assicurato o da altro soggetto per conto dei medesimi, entro 10 giorni da quando ne ha avuto conoscenza o possibilità. Il decorso delle lesioni deve essere documentato da ulteriori certificati medici, sino a guarigione avvenuta. L’Assicurato o i suoi familiari, devono consentire alla Società le indagini, le valutazioni e gli accertamenti necessari, da eseguirsi in Italia. Qualora l’infortunio abbia cagionato la morte dell’Assicurato o quando questa sopravvenga durante il periodo di cura, deve esserne dato immediato avviso alla Società. L’inadempimento degli obblighi relativi alla denuncia del sinistro può comportare la perdita totale o parziale del diritto all’indennizzo ai sensi dell’art. 1915 del Codice Civile”. Il requisito temporale dell’ora di accadimento trova giustificazione anche perché la garanzia può non essere full time, bensì limitata agli infortuni professionali oppure a quelli extraprofessionali.

[105] Il legislatore francese che per primo diede una disciplina legale alle assicurazioni infortuni all’interno della categoria delle assicurazioni di persone, tenne a precisare, nella Relazione di accompagnamento alla Legge 13 luglio 1930, che nell’assicurazioni infortuni il danno costituisce una mera occasione per il sorgere della garanzia ma non ha con questa un rapporto di causalità diretta: “Quant aux assurances contre les accidents, contre l’invalidité, contre la maladie, contre la veillesse, elles comportent presque exclusivement de la part de l’assureur, des obligations forfaitaires qui, tout en prenant naissance à l’occasion d’un dommage, ne sont pas en relation directe avec celui-ci, mais sont, en quelque sorte, artificiellement fixée par les polices”.

[106] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag.170.

[107] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag.173.

[108] I termini indennizzo e risarcimento vengono spesso utilizzati, anche nel linguaggio giuridico e non solo in quello comune, quali sinonimi. In realtà, essi hanno analoga funzione compensativa ma si differenziano nettamente per la loro fonte di derivazione e per le modalità di attuazione di tale funzione. L’indennizzo trova la sua fonte giuridica o in un contratto (tipico il contratto di assicurazione danni) o in una disposizione di legge ed attua la funzione compensativa, di norma, in forma parziale, lasciando parte del danno a carico del soggetto che lo ha subito, a causa della previsione di scoperti, franchigie, massimali e limiti di indennizzo. Il risarcimento, invece, rappresenta giuridicamente la sanzione che, per legge, viene comminata a colui che commette un illecito civile produttivo di danno, il quale dovrà pertanto compensare la vittima ma in misura integrale rispetto a tutto il pregiudizio che gli ha arrecato. Indennizzo e risarcimento condividono il requisito che la loro funzione compensativa non può oltrepassare l’entità del danno subito dal danneggiato e ciò viene espresso, per quanto riguarda l’indennizzo, dal principio indennitario e per quanto concerne il risarcimento dal c.d. principio di indifferenza.

[109] Un esempio di indennizzo avente fonte legale è quello previsto dalle assicurazioni sociali per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali erogato dall’INAIL, mentre l’indennizzo contrattuale per eccellenza è quello dedotto nelle polizze assicurative private contro i danni.

[110] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 181-190.

[111] A proposito del c.2 dell’art. 1908 c.c. E. Bottiglieri, op. ult. cit., pag. 128, afferma: “Sembra certo che il legislatore abbia inteso fare riferimento a quella che nella pratica assicurativa è la finalità perseguita con la cosiddetta polizza stimata. Non c’è dubbio che il ricorso alla stima accettata sia fatto, al tempo della stipulazione del contratto, anche per la determinazione del premio, operazione che riveste grande importanza per le parti ogni volta che le cose assicurate sono di ingente valore e non è possibile desumere il valore da listini, indici o particolari documenti. Ma è altrettanto indubbio che il ricorso alla polizza stimata venga fatto anche o soprattutto allo scopo di agevolare la liquidazione del danno, nel senso di renderla possibile e corretta o, comunque, più rapida”.

[112] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 190.

[113] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 189.

[114] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 190.

[115] Vedine un esempio in Polizza GENERALI, IMMAGINA Benessere mod. 01/03 Ed. 03/2018, Art. 4.5 Criteri di indennizzabilità: “La Società liquida l’indennizzo convenuto soltanto per le conseguenze dirette ed esclusive dell’infortunio, che risulti indennizzabile a termini di polizza. Pertanto, l’influenza che l’infortunio può aver esercitato sulle condizioni fisiche o patologiche preesistenti o sopravvenute come pure il pregiudizio che esse possono portare all’esito delle lesioni prodotte dall’infortunio, sono conseguenze indirette e quindi non indennizzabili. Nei casi di preesistenti/mutilazioni o difetti fisici, l’indennizzo per invalidità permanente è liquidato per le sole conseguenze dirette cagionate dall’infortu- nio come se esso avesse colpito la persona fisicamente integra, senza riguardo al maggior pregiudizio derivato dalle condizioni preesistenti”.

[116] Vedi: Art. 29 Condizioni di Assicurazione – Norme che regolano l’assicurazione – Sezione Infortuni, Polizza AXA Italia Protezione su misura Edizione febbraio 2022.

[117] Vedi: Art. 4 Riconoscimento dell’intera somma assicurata in caso di invalidità permanente grave, Polizza AXA Italia Protezione su misura Edizione febbraio 2022.

[118] Vedi: Art. 49 Invalidità permanente con maggiorazione progressiva (art. 26 – Condizione A4), Polizza AXA Italia Protezione su misura Edizione febbraio 2022.

[119] Vedi: Tabella di Invalidità permanente speciale (art 27 – condizione A5), Polizza AXA Italia Protezione su misura Edizione febbraio 2022.

[120] Vedi: Art. 6 Rendita vitalizia da infortunio, Polizza AXA Italia Protezione su misura Edizione febbraio 2022.

[121] Polizza Assicurazione Infortuni Globale 01.19, Vittoria Assicurazioni.

[122] Vedi: Art. 5.5 Supervalutazione indennità per invalidità permanente, Polizza Assicurazione Infortuni Globale 01.19, Vittoria Assicurazioni.

[123] Vedi: Art. 50 Criteri di indennizzabilità delle garanzie malattia, Invalidità permanente, invalidità permanente grave e Rendita vitalizia, Polizza AXA Italia Protezione su misura Edizione febbraio 2022.

[124] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 191.

[125] Vedi, nota 115.

[126] L. Letta, La clausola compromissoria e la clausola del nesso causale nell’assicurazione privata infortuni, in Responsabilità Civile e Previdenza 2003, pag. 856: “La fondamentale, limpida funzione della clausola è quella di salvaguardare l’equilibrio economico, la regolarità statistica, l’autonomia e le peculiarità della tecnica e della gestione del ramo infortuni. Salvaguardia che consiste nell’evitare al ramo infortuni l’onere di indennizzi propri invece dei rami malattia e vita. In questi ultimi due ambiti, infatti, le basi tecniche, le cautele, gli ingressi in garanzia (molto controllati) sono sensibilmente diversi rispetto all’assicurazione infortuni”.

[127] Afferma L. Locatelli, op. ult. cit. pag. 1900: “Infine, quanto all’art. 1916 c.c., la norma è concettualmente ambigua e soffre, probabilmente, del vizio di genesi che la surrogazione dell’assicuratore in origine aveva esclusiva fonte negoziale e venne introdotta per la prima volta in forma legale nell’ordinamento italiano attraverso il Codice del commercio del 1882, ricalcando una norma già presente nel codice tedesco e al fine di risolvere le difficoltà collegate al rapporto con la surrogazione legale”. Più recisamente, nel senso che la disposizione “non trova la sua giustificazione nella natura indennitaria dell’assicurazione”, vedi G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 195.

[128] Vedi: art. 3.3. Assicurazioni presso diversi assicuratori, Polizza GENERALI, IMMAGINA Benessere mod. 01/03 Ed. 03/2018.

[129] Vedi: Art. 68 Altre assicurazioni, Polizza AXA Italia Protezione su misura Edizione febbraio 2022.

[130] V. De Lorenzi, op. ult. cit., pag. 201.

[131] V. De Lorenzi, op. ult. cit., pag. 201.

[132] V. De Lorenzi, op. ult. cit., pag. 202.

[133] V. De Lorenzi, op. ult. cit., pag.202.

[134] . Vedi: Art. 63 Diritto di surrogazione: “AXA rinuncia al diritto di surrogazione di cui all’art. 1916 C.C. verso i terzi responsabili dell’infortunio o della malattia”, Polizza AXA Italia Protezione su misura Edizione febbraio 2022.

[135] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 195.

[136] La Torre Mariaenza, Compensatio lucri cum damno e diritto di surrogazione dell’assicuratore, in Rivista Diritto Privato 4/2019 pag. 543: “Ma, a fugare il dubbio, basta leggere l’art. 2041 c.c. (“Azione generale di arricchimento”), che dovrebbe costituirne il fondamento: “Chi, senza giusta causa, si è arricchito a danno di un altro, è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultimo della correlativa diminuzione patrimoniale. Sennonché: a) difetta il requisito della mancanza di una “giusta causa”, questa consistendo nel danno causato dal responsabile col suo fatto illecito, esso sì produttivo di un “danno ingiusto” per colui che l’ha patito; b) non c’è un arricchimento “a danno di un altro”, perché se il danneggiato riceve anche l’indennità assicurativa, questo né è pagata da o per il danneggiante, né è riscossa dal danneggiato in pregiudizio del terzo responsabile; c) costui, pertanto, non subisce alcuna “diminuzione patrimoniale”. Piuttosto, a parti invertite, sembra più vicino al vero la conclusione che arricchimento senza giusta causa vi sarebbe nel terzo responsabile se questi fosse esonerato dall’obbligo di risarcimento”.

[137] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 195.

[138] V. De Lorenzi, op. ult. cit., pag. 226: “La deroga della surroga accresce gli avversi incentivi per il comportamento dell’assicurato, il rischio a carico dell’assicuratore, e fa crescere il premio; il problema del rischio morale è regolabile con il contratto, con influsso sul premio”.

[139] P. Corrias, La causa del contratto di assicurazione: tipo assicurativo o tipi assicurativi, in Rivista di diritto civile, Anno LIX, n.1, gennaio-febbraio 2013, pag. 50-51: ”Non deve perciò sorprendere che, in ambito assicurativo, un evento naturale (incerto), quale la morte o l’infortunio, possa essere considerato e qualificato – non in ragione dell’idoneità a determinare perdite patrimoniali, come avviene in altri comparti dell’ordinamento – ma per l’attitudine a far sorgere esigenze e/o interessi diversi, di natura previdenziale”.

[140] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 37.

[141] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 160.

[142] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 164.

[143] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 165.

[144] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 165.

[145] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 128.

[146] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 128.

[147] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 126.

[148] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 127.

[149] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 128.

[150] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 165.

[151] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 166.

[152] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 166.

[153] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 124.

[154] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 123.

[155] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 40. Al riguardo, P. Corrias, in op. ult. cit., pag. 53, afferma “Alcune disposizioni relative alla corretta organizzazione e gestione dell’impresa assicurativa, incidono in maniera sensibile anche sulla disciplina del contratto. Ciò nonostante, condividiamo l’opinione secondo cui la valenza qualificatoria espressa da tali disposizioni debba essere considerata complementare e sussidiaria rispetto a quella – principale e prevalente – da attribuire alle regole, direttamente riferite al rapporto assicurativo, che sanciscono il diverso ruolo svolto dall’evento futuro ed incerto nell’ambito del regolamento contrattuale”.

[156] La giurisprudenza di legittimità ha ormai da tempo (Cassazione Civile, Sez. III, 8 maggio 2006 n.10490) aderito alla c.d. “teorica della causa concreta”, abbandonando la tesi della causa quale funzione economico-sociale del contratto, formulata in dottrina da E. Betti e divenuta dominante in giurisprudenza a far data dall’emanazione del Codice Civile. La Suprema Corte ha, dunque, “lasciato da parte la teorica della funzione economico sociale del contratto e si è impegnata nell’analisi dell’interesse concretamente perseguito dalle parti nel caso di specie, cioè della ragione pratica dell’affare” (Cassazione Civile, Sezioni Unite, 6 marzo 2015 n. 4628).

[157] Concorda, in tal senso, M. Hazan, L’assicurazione infortuni tra diritto positivo, prassi negoziale e prospettive di riforma, in Diritto ed Economia dell’Assicurazione, 2005, pag. 597: “Le polizze infortuni oggi maggiormente diffuse (con deroga agli art. 1910 e 1916 c.c.) non hanno una funzione indennitaria (non sono congegnate in modo da “compensare l’effettivo danno subito”) ma “previdenziale”, nel senso indicato dall’art. 1882 c.c. ultimo inciso: “pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana”. Ci troviamo, dunque, di fronte ad una singolare biforcazione: quella tra quanto può desumersi dalla prassi e dalla “tipizzazione” di fatto di condizioni di contratto del tutto autonome rispetto alle vigenti previsioni codicistiche, e quanto vorrebbe sostenersi forzando la disciplina dell’assicurazione entro schemi predefiniti e, in concreto, inadeguati”.

[158] V. De Lorenzi, op. ult. cit., pag. 15 in nota: “E’ poi diversa nei due rami l’incidenza del fattore tempo: il contratto di assicurazione sulla vita ha durata lunga nel tempo, e nel calcolare il premio si tiene conto dell’interesse composto o di un fattore di sconto; il contratto di assicurazione contro i danni ha, invece, una durata più limitata, normalmente un anno, disdettabile o rinnovabile, il premio viene calcolato su basi annue, e non si tiene conto del valore attuale del danno”.

[159] Come ammette la stessa G. Volpe Putzolu, op. ult. cit. pag. 24-25, le assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali hanno “carattere non indennitario”, in quanto “il risarcimento del danno non è mai il fine precipuo dell’attività previdenziale” e, pur avendo dunque una funzione tipicamente previdenziale, da un punto di vista tecnico-gestionale non sono fondate su una operazione di capitalizzazione.

[160] Lo ammette la stessa G. Volpe Putzolu, in op. ult. cit. pag.130 in nota: “Alcune specie di assicurazioni sulla vita però, sebbene fondate sulle stesse basi tecniche e finanziarie proprie di tutte le forme del ramo, per le loro caratteristiche si prestano in pratica ad assolvere una funzione di garanzia; così, ad esempio, l’assicurazione temporanea in caso di morte viene ad assolvere una funzione analoga a quella dell’assicurazione del credito, quando sia contratta da un creditore sulla vita del proprio debitore, per garantirsi il pagamento del credito in caso di morte di quest’ultimo; funzione analoga può svolgere la c.d. assicurazione di annualità certe”.

[161] V. De Lorenzi, op. ult. cit. pag. 13.

[162] V. De Lorenzi, op. ult. cit. pag. 13.

[163] P. Corrias, op. ult. cit., pag.74.

[164] P. Corrias, op. ult. cit., pag.74 e 75.

[165] Osserva V. De Lorenzi, op. ult. cit. pag. 59 in nota: “Il fatto che l’assicurazione infortuni, per le modalità di calcolo del premio e delle riserve, sia simile all’assicurazione contro i danni, e nella gestione dell’impresa di assicurazione sia ricompresa nel ramo danni (o, più precisamente, nei rami diversi dal ramo vita) non vuol dire nulla: sono esclusivamente esigenze dell’industria assicurativa, presenti, ma sullo sfondo. E il fatto che le polizze presentino caratteri comuni con l’assicurazione sulla vita non vuol dire, peraltro, che l’assicurazione infortuni sia da ricondurre all’assicurazione sulla vita. E’ da ritenere che vi sia un genus assicurazione di persone, e un genus assicurazione di beni diversi dalle persone”.

[166] G. Forte, op. ult. cit., pag. 191: “Purtroppo la parola “beneficio”, equivalente italiano di benefit, non rende lo stesso significato. Nel testo di polizza che da anni ho adottato nella mia compagnia, ho preferito parlare di “indennità” invece che di indennizzo o risarcimento (che uso invece per le assicurazioni di cose). Non è il vocabolo ideale e non arriva allo scopo desiderato, ma è un buon compromesso; del resto tutta la mia polizza infortuni, dovendo essere utilizzata in Italia e non potendo quindi essere interamente “all’inglese”, è un compromesso tra metodo britannico e metodo italiano”.

[167] G. Volpe Putzolu, op. ult. cit., pag. 161.

[168] F. Ferrara, Trattato di diritto civile italiano, I Dottrine generali, I, Il diritto i soggetti, le cose, Roma 1921 pag. 151.

[169] Tuttavia, una timida e sinora isolata apertura verso una funzione di natura previdenziale della garanzia infortuni invalidanti è stata ammessa da Tribunale di Treviso, Sez. I, 11 giugno 2019 n.1285, nel caso di inserimento in polizza di una pattuizione in deroga all’art.1910 c.c.: “ Chi stipula più polizze infortuni che prevedono il pagamento di un capitale in proporzione del grado di invalidità, persegue verosimilmente l’obiettivo di mettersi al riparo dalle conseguenze, attinenti alla sua vita, che un infortunio può provocare, pattuendo il pagamento di un capitale la cui misura è proporzionata all’entità della lesione ma senza un’espressa qualificazione della natura del danno risarcito o una sua specifica qualificazione, sulla sola scorta di una valutazione convenzionale del «valore uomo». Lo scopo dell’assicurato appare, lato sensu, previdenziale, e si colloca, su un piano affatto diverso da quello del risarcimento del danno nel caso in cui l’infortunio sia conseguenza del fatto illecito del terzo”. “Alla luce di queste considerazioni si può ragionevolmente ritenere che una clausola quale quella contenuta all’art. 8 delle condizioni generali di polizza (doc. 14 di parte attrice) …… nell’assicurazione contro gli infortuni, sia idonea ad orientare la qualificazione del contratto dal ramo danni, nel quale prevale il criterio indennitario, ad una forma intermedia, nella quale non è escluso l’aspetto previdenziale”. Il testo integrale della sentenza è reperibile in Resp. Civ. e prev., pag.902 ss., con relativo commento di F. Pes, Assicurazioni infortuni: natura, cumulo di prestazioni e limiti alla prestazione di impresa. L’Autrice, pur apprezzando “la posizione assunta dall’organo giudicante”, ritiene che essa possa “esporsi a criticità per il fatto di far dipendere la qualificazione del negozio dal modo in cui le parti determinano la prestazione garantita ed a seconda che quest’ultima sia o meno, nella polizza, ancorata ad un danno”, mentre Ella propugna, quale soluzione ottimale, “un collocamento sistematico dell’assicurazione infortuni invalidanti nel novero delle assicurazioni sulla vita”: tale riposizionamento della garanzia, infatti, “consentirebbe, quantomeno in via tendenziale, l’applicazione di quella disciplina che connota l’assicurazione sulla vita” ed in particolare “il trattamento favorevole all’assicurato previsto dalle disposizioni del ramo vita ad iniziare da quella, rilevantissima, di cui all’art. 1923, comma 1, c.c.”

[170] Attualmente la garanzia infortuni, quale assicurazione di persone risulta così disciplinata: Article L.131-1: “En matière d’assurance sur la vie et d’assurance contre les accidents atteignant les personnes, les sommes assurées sont fixées par le contrat”.; Article L131-2 Code des Assurances: “Dans l’assurance de personnes, l’assureur, après paiement de la somme assurée, ne peut être subrogé aux droits du contractant ou du bénéficiaire contre des tiers à raison du sinistre. Toutefois, dans les contrats garantissant l’indemnisation des préjudices résultant d’une atteinte à la personne, l’assureur peut être subrogé dans les droits du contractant ou des ayants droit contre le tiers responsable, pour le remboursement des prestations à caractère indemnitaire prévues au contrat”.

[171] In alternativa alle comuni garanzie infortuni individuali e collettive a base forfetaria, nel maggio 2000 l’associazione di categorie delle imprese assicuratrici francese (FFSA: Fédération Francaise des Sociétés d’Assurances) ha proposto al mercato un innovativo modello di prodotto infortuni denominato GAV (Garantie des Accidents de la Vie), il quale offre una copertura indennitaria per le conseguenze lesive relative ai rischi della vita privata. L’indennizzo risulta, infatti, parametrato sulla stima medico-legale delle reali conseguenze lesive determinate dall’evento infortunistico e sulla valutazione del danno in base ai barèmes vigenti per la determinazione del danno civilistico. Qualora si volesse proporre sul mercato italiano analoga offerta assicurativa non mi sembra, tuttavia, opportuno adottare una valutazione del danno compiuta in base agli stessi criteri che presiedono la stima del danno da illecito civile, ritenendo preferibile una stima ad hoc del danno derivante da evento infortunistico, come sopra indicato.

[172] A mio sommesso avviso, l’offerta sul mercato di due distinti prodotti alternativi, l’uno con funzione previdenziale e l’altro con mera funzione indennitaria, risulta soluzione più chiara e trasparente anche in prospettiva di opzione da proporre al consumatore assicurativo, rispetto alla proposta di una polizza infortuni quale “contratto a causa variabile” formulata da L. Locatelli, La polizza contro gli infortuni non mortali: un contratto a causa variabile? in Responsabilità civile e previdenza, n.1- 2019 in questi termini: “ Se ci si distacca da una visione di scelta forzata tra le due prospettive, si può intravedere nella polizza infortuni non mortali un contratto che, in realtà, riesce ad agire in via trasversale rispetto alle esigenze dell’assicurato, presentandosi in un assetto causale variabile. Esso può, cioè, integrare una polizza contro i danni soggetta al principio indennitario per quanto concerne la garanzia prestata all’interno del livello dell’elisione del danno civilistico. Oltrepassato, però, il limite del danno — operazione possibile mediante la scelta convenzionale tra le parti — la polizza si completa seguendo un profilo causale diverso, integrando un regime previdenziale svincolato dall’indennizzo al quale si propone, quindi, parallelamente. L’assicurazione sull’infortunio può, in effetti, trovare la propria ragione non solo in relazione alla rimozione del danno ma anche nella precauzione — a fronte di un evento negativo che può colpire la persona nella sua integrità psicofisica o, come visto, nella sua capacità di produrre reddito — di introdurre una forma di previdenza che non si sostituisce ma si affianca a quella indennitaria. Una prestazione dell’assicuratore legata al desiderio di garantire, proprio a fronte dell’evento negativo incidente sull’integrità fisica, non solo l’elisione del danno attraverso il processo indennitario ma anche una maggiore tranquillità economica, introducendo una forma di risparmio di pieno valore sociale, seguendo una causa non solo lecita ma prevista dal legislatore”.

[173] Osserva puntualmente P. Corrias, op. ult. cit., pag. 75: “Da quanto osservato, non deve però trarsi la conclusione che, nell’ambito degli schemi contrattuali in esame, i contraenti possano determinare ad libitum l’entità della prestazione dell’impresa. La necessità di collegare, almeno in linea di massima, l’ammontare della prestazione promessa alle esigenze economiche che potrebbero sorgere in conseguenza della menomazione psico-fisica dedotta nel contratto, infatti, è richiesta anche nel contesto della funzione previdenziale e, precisamente, riposa sul concetto di “adeguatezza” tra mezzi previsti (o assicurati) ed esigenze maturate a seguito del verificarsi dell’evento”. Con riguardo al concetto di adeguatezza, l’illustre Autore riporta quanto espresso da Corte Costituzionale, 27 giugno 1986 n.173 secondo la quale i: “mezzi adeguati alle esigenze di vita da assicurare non sono solo quelli che soddisfano i bisogni elementari e vitali ma anche quelli che siano idonei a realizzare le esigenze relative al tenore di vita conseguito… in rapporto al reddito e alla posizione sociale raggiunta in seno alla categoria di appartenenza…”. In tal senso si è espressa anche la pronuncia del Tribunale di Treviso, Sez. I, 11 giugno 2019 n.1285, già riportata in nota n.169, rilevando come, anche l’accoglimento di una funzione previdenziale della garanzia non comporti la determinazione ad libitum dei capitali assicurati e che “il tendenziale collegamento tra l’entità della somma complessivamente promessa all’assicurato — non importa se da uno o più assicuratori — e le esigenze economiche che potrebbero sorgere in conseguenza dell’evento contemplato è assicurato dalla « adeguatezza » tra prestazioni ed esigenze previdenziali, richiesta dall’art. 38, comma 2, Cost.” Il giudice “rilevata l’impossibilità di cogliere — per carenza di idonee allegazioni, e soprattutto a fronte dell’entità della già avvenuta liquidazione (Euro 490.000,00) — il tendenziale collegamento tra l’entità della somma complessivamente promessa all’assicurato dai due assicuratori e le esigenze economiche collegate alla menomazione fisica dedotta nel contratto”, non ha, pertanto, ritenuto di dover accogliere la domanda di liquidazione della somma capitale ulteriormente pattuita nell’altra polizza sottoscritta dall’attore.

[174] R. Pardolesi, Assicurazione e responsabilità civile, risarcimento più indennizzo: troppo grazia? Modelli a confronto, in La Nuova giurisprudenza civile commentata, 2018, pagg. 1490.

[175] F. Sartori, op. ult. cit., pag.204: “Anche il dato comparativo sembra confermare che l’applicazione del cumulo nel settore delle disgrazie accidentali dipenda in realtà da scelte di “equità”, ragionevolezza e public policy” …… L’argomentare è tecnico e si sviluppa intorno alla nota collateral source rule”.

[176] M. La Torre, op. ult. cit., pag. 542: “Ed a nessuno è lecito profittare dell’assicurazione altrui per liberarsi dal debito proprio”.

[177] R. Pardolesi, op. ult. cit., pagg. 1491.

[178] Lo stesso R. Pardolesi, op. ult. cit., pagg. 1491, ammette che il modello offset “si vuole implichi minori costi amministrativi e giudiziali (anche se le diffuse convinzioni al riguardo appaiono, ad un’analisi attenta, assai labili, se non del tutto infondate)”.

[179] R. Pardolesi, op. ult. cit., pagg. 1492.

[180] Si è già illustrato come il moral hazard ed i tentativi di frode vengano risolti rispettivamente a livello di pattuizioni contrattuale e di interventi normativi sia in sede civile che penale. Va solo aggiunto come appaia non solo scorretto ma anche foriero di conseguenze deleterie il metodo di fornire una determinata veste giuridica ad una fattispecie negoziale socialmente tipica non in base alla sua fisiologica funzione, quanto in virtù di paventate distorsioni ed abusi. Per queste situazioni, infatti, l’ordinamento reagisce, se del caso, con apposite norme di carattere repressivo. Sull’idea che il cumulo possa favorire l’opportunismo contrattuale dell’assicurato, così si esprime F. Sartori, op. ult. cit., pag. 203: “…. non si vede come l’ipotizzato cumulo possa modificare il comportamento degli assicurati, riducendo la prudenza necessaria per evitare o minimizzare le conseguenze di una lesione al corpo e alla mente: Né pare credibilmente sostenibile che una classe di individui sia financo incentivata a favorire il verificarsi dell’evento, almeno se di rilevante momento”. Ed in nota l’Autore aggiunge: “Quanto invece agli incidenti minori, la tecnica contrattuale conosce numerosi strumenti (si pensi alle franchigie) che neutralizzano alla radice il rischio di azzardo morale”.

[181] In proposito, da un punto di vista tecnico-attuariale l’opportunità di un’autonomia, non solo concettuale ma anche operativa, è stata autorevolmente sostenuta da E. Pitacco, Le coperture “Income Protection”, Dread Disease”, Long Term Care”, in Manuale di tecnica delle assicurazioni, Tomo secondo, a cura di A.D. Candian – S. Paci, Milano 2002, pag. 1379: “La tradizionale contrapposizione fra Rami “Danni” e “Vita”, la cui problematicità emerge in generale da vari punti di vista (giuridico, tecnico-attuariale, economico), appare particolarmente inadeguata qualora ci si accinga ad analizzare le varie coperture assicurative che interessano la persona e, soprattutto, le possibilità di integrazione, anche sul piano dell’offerta, fra le stesse. Decisamente più proficua appare, tanto sotto il profilo concettuale quanto sotto quello operativo, un’aggregazione di varie coperture assicurative per rischi della persona, mirata a definire un’area che potremmo etichettare assicurazioni di persone e che prescinda da rigide collocazioni delle coperture stesse nei Rami Vita e Danni”.

Vuoi leggere la versione PDF?

WEBINAR / 16 Gennaio
Value for money: nuova metodologia dei benchmark


Metodologia EIOPA 7 ottobre 2024 per prodotti unit-linked e ibridi

ZOOM MEETING
Offerte per iscrizioni entro il 13/12

La Newsletter professionale DB
Giornaliera e personalizzabile
Iscriviti alla nostra Newsletter