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Gestori di NPL: ragioni di perplessità sullo schema di decreto legislativo di attuazione della direttiva UE 2021/2167

5 Marzo 2024

Aldo Angelo Dolmetta, già Professore Ordinario nell’Università Cattolica di Milano

Ugo Malvagna, Professore Associato nell’Università degli Studi di Trento

Angela Maria Aromolo de Rinaldis, Dottoranda di ricerca nell’Università Cattolica di Milano

Di cosa si parla in questo articolo
NPL

[*] SOMMARIO: Il contributo costituisce un primo commento allo Schema di decreto legislativo, destinato alla modifica del T.u.b., in attuazione della Direttiva Ue 2021/2167 del Parlamento e del Consiglio, relativa ai gestori dei crediti e agli acquirenti dei crediti. In generale, gli autori criticano la proposta riformatrice in quanto rivolta a regolare esclusivamente il versante dei soggetti (acquirenti e gestori di crediti in sofferenza) e auspicano l’opportunità di una riforma improntata su basi oggettive. Nel dettaglio, vengono analizzati i punti di contrasto che emergono dal confronto tra l’art. 114 dello Schema e alcune discipline positive. Sia codicistica – in tema di cessione del credito, come del contratto – che strettamente bancaria – ci si riferisce alla cessione dei rapporti giuridici ex art 58 T.u.b., nonché al regime della trasparenza – che, infine, relativa al codice della crisi. Non mancano, infine, alcune note critiche con riferimento alla cartolarizzazione e il regime dell’outsourcing.

ABSTRACT: The contribution represents an initial commentary on the draft legislative decree, aimed at amending the Consolidated Law on Banking (Testo Unico Bancario), in implementation of EU Directive 2021/2167 of the Parliament and Council, concerning credit servicers and purchasers of credit. In general, the authors criticize the reform proposal as it focuses solely on the aspect of the parties (purchasers and servicers of non-performing credits) and advocate for a reform based on objective grounds. Specifically, the points of contention arising from the comparison between Article 114 of the draft and certain positive disciplines are analyzed. These include both civil code based law – regarding the assignment of credit, as well as contracts – and strictly banking law – referring to the assignment of legal relationships under Article 58 of the Italian Civil Code, as well as transparency regulations – and finally, those related to the bankruptcy law. Finally, there are some critical notes regarding securitization and outsourcing regime.


1. La regolamentazione frammentata per soggetti

1.1.- Il corpo di modifiche al testo unico bancario predisposto nello Schema di decreto legislativo suggerisce, prima di ogni altra, una riflessione di carattere generale, sul «tipo» di impianto normativo che è stato prescelto per il recepimento della direttiva europea NPL e sulla opportunità di una simile scelta.

Pur concentrata sui soggetti che acquistano e/o gestiscono «i diritti del creditorie derivanti da un contratto di credito deteriorato o il contratto di credito deteriorato stesso, erogato da un ente creditizio stabilito nell’Unione», la direttiva non esclude l’eventualità di adeguamenti normativi di respiro più ampio. Il riferimento va, in particolare, alla possibilità di una regolamentazione generale delle attività d’impresa intese alla gestione e al recupero dei crediti: di una riforma, dunque di taglio oggettivo e di sostanza unitaria, come focalizzata su un «tipo» di attività (nel caso, pure manovrabile su due distinti livelli: uno di tratto generale per l’attività; l’altro per i crediti non performing; sul punto v. anche il cenno fatto infra, nel n. 3).

La scelta adottata dallo Schema risulta, peraltro, molto lontana dalla soluzione appena ipotizzata. La disciplina delineata nel nuovo capo (“Acquisto e gestione di crediti in sofferenza e gestori di crediti in sofferenza”) si innesta, in effetti, nel solco di una prassi legislativa diretta a regolamentare, in via particolare, le categorie di soggetti operanti nel mercato. Le figure di ‘acquirenti di crediti in sofferenza’ e ‘gestori di crediti in sofferenza’, che vengono introdotte dallo Schema, si affiancano così agli altri soggetti già abilitati dall’ordinamento, come pure dotati di appositi e peculiari statuti: quali banche, intermediari finanziari e gestori di fondi; e anche le società di recupero di cui all’articolo 115 T.U.L.P.S. (nelle ipotesi previste dal d.m. n. 53/2015); nonché le società veicolo per le operazioni di cartolarizzazione domestiche (si qualifichino o meno come cartolarizzazioni regolamentari ai sensi del Reg. UE 2017/2402) con riguardo alla sola attività di acquisto di crediti deteriorati.

L’imputazione degli obblighi comportamentali in capo ai gestori autorizzati (considerata la previsione che ne impone la nomina da parte dell’acquirente in ogni caso) è prevista in via diretta, e non già come conseguenza di una regolamentazione propriamente orientata su tipo e caratteristiche dell’attività d’impresa esercitata. Il che, tra l’altro, costringe al ricorso a una serie di rimandi normativi proprio nel tentativo di «avvicinare» i regimi differenziati previsti per i soggetti che svolgono il medesimo ordine di operazioni: da un lato, per i gestori autorizzati si rinvia alle disposizioni contenute nel Titolo VI ‘in quanto compatibili’ (art. 114.13), dall’altro, l’obbligo di comunicazione al debitore a seguito della cessione del credito in sofferenza viene esteso a banche, intermediari ex articolo 106 e organismi di investimento collettivo del risparmio, anche nell’ambito di operazioni di cartolarizzazione ai sensi della legge n. 130/1999 (art. 114.10).

1.2.- La scelta d’impostazione adottata dallo Schema lascia, per vero, più ordini di perplessità in merito alla tenuta sistematica di una siffatta tecnica legislativa incentrata sulla regolazione dei soggetti.

In breve: l’impostazione adottata comporta, di per sé stessa, una frammentazione e complicazione di regimi disciplinari di cui non si vede la ragione e che non appare giustificata dal tipo di attività considerata (anche ad ammettere, naturalmente, l’eventuale opportunità di una distinzione disciplinare tra l’attività in genere di recupero crediti e quella di recupero dei crediti non performing). E così pure determina dislivelli organizzativi e disciplinari. Il tutto con l’ulteriore rischio di determinare disparità di trattamento non giustificate sul piano oggettivo (anche sotto il profilo costituzionale). Non par dubbio, poi, che una frammentazione di regime soggettivi possa facilmente venire a «disorientare» – proprio per la pluralità dei sussistenti regimi – il debitore di cui alla cessione del credito e, quindi, a rendere «instabile» il relativo mercato, anche in ragione dell’aumentata litigiosità che può derivare dall’esistenza di plurimi regimi e adempimenti formali in relazione a soggetti diversi operanti nel medesimo mercato.

Resta chiara, insomma, l’opportunità di una riforma organica della materia della gestione e recupero crediti, che abbandonato un impianto di tipo soggettivistico, venga organizzata su prospettiva e basi rigorosamente oggettive.

2. Sulla disciplina negoziale: mancato coordinamento con la normativa di diritto comune, in specie della cessione dei crediti

2.1.- Nell’impostazione dei «soggetti cessionari» (in tale formula ricomprendendosi, qui, sia gli «acquirenti», che i «gestori» del credito), la regolazione dello Schema si sviluppa lungo due direttrici: una, rappresentata dalla disciplina d’impresa e dai rapporti con l’Autorità; l’altra, attinente in modo diretto al negozio traslativo (costituzione del rapporto di gestione compreso) e al rapporto obbligatorio su cui il negozio viene a incidere. Sembra opportuno, anzitutto, fermare in particolare l’attenzione su questo secondo settore, rinviando alla parte finale del presente contributo (nn. 12 e 13) la considerazione della disciplina dell’impresa.

Il primo tratto, che emerge, è che quella scritta in tale prospettiva (negoziale, appunto, e di rapporto obbligatorio) si presenta come una disciplina «isolata»: non collegata con il diritto comune della cessione dei crediti. Detta disciplina appare formulata, anzi, come se non esistesse un altro e comune diritto della cessione dei crediti. In proposito, non può non notarsi come sia peraltro inevitabile che il regime scritto nello Schema venga a confrontarsi – sul piano dommatico, non meno che sul piano del diritto vivente – con il diritto comune della cessione: che i due regimi, comunque, siano fatti oggetto di puntuali comparazioni e riscontri.

La cosa, per la verità, sembra – in sé stessa – destinata a creare imbarazzi e confusione: in particolare, sul piano dell’interpretazione delle regole. E non solo di quelle dettate nello Schema, ma pure di quelle adottate dal diritto comune. Non mancano, al riguardo, degli esempi davvero a portata di mano.

Così, per le cessioni dei crediti soggette allo Schema, l’art. 114.8, comma 1 lett. a) dispone che i cessionari si debbono comportarsi secondo «correttezza e diligenza». Anche i cessionari del diritto comune, però, sono tenuti ad agire secondo correttezza e diligenza. È difficile non chiedersi, allora, se si tratti in entrambi i casi del medesimo peculiare «concetto» o se, invece, le formule assumano significati (tanto o poco) diversi a seconda del contesto in cui siano destinate a trovare applicazione (cfr. pure infra, nel n. 3.2.). A sua volta, la lett. c. dell’art. 114.8 prescrive che, nelle comunicazioni ai debitori, i cessionari «agiscono senza molestia, coercizione o indebito condizionamento»: nel caso di cessione di diritto comune i cessionari possono forse molestare o condizionare «in modo indebito» (!) i debitori?

2.2.- E’ ben possibile, per la verità, che il legislatore dello Schema non avesse – come tuttora non abbia -, alcun intendimento ulteriore rispetto a quello di regolare in modo conforme alla direttiva UE lo specifico fenomeno della cessione di crediti «in sofferenza» a cessionari d’impresa, senza null’altro toccare o anche solo sfiorare (per la verità, l’indicazione fornita dalla norma dell’art. 2, comma 2, della direttiva si esaurisce nel dichiarare che «non pregiudica i principi di diritto contrattuale, né quelli del diritto civile» interni). Ora, sull’opportunità di una simile filosofia si potrebbe senz’altro discutere; anzi, sarebbe doveroso farlo (secondo la linea, a nostro avviso, che risulta tracciata dagli spunti sparsi nell’ambito del presente lavoro)

A prescindere da ciò, appare comunque chiaro che un intendimento del genere – se davvero nutrito – non può che emergere in modo esplicito dal testo normativo e per il mezzo di appropriate formulazioni (quale si potrebbe immaginare sia, in linea di principio almeno, quella di fare in ogni caso «salvo» il regime stabilito dal comune diritto della cessione dei crediti).

3. (Segue): il punto di un regime «speciale» per la gestione e recupero dei crediti non performing

3.1.- La scelta del legislatore di contenere positivamente l’intervento normativo alla cessione (gestione compresa) dei crediti «in sofferenza» sollecita più ordini di osservazioni, che comunque attengono – è bene ribadirlo in modo espresso – al piano della regolamentazione del negozio e del conseguente rapporto obbligatorio.

Il primo di questi discende dalla constatazione che la detta connotazione dei crediti ceduti (quella, appunto, di essere «in sofferenza») fa parte (o dovrebbe fare parte: v. infra) del più largo insieme formato dai crediti c.d. «non performing» ovvero con profilo debitorio in (più o meno grave) difficoltà economica. V’è allora da chiedersi se abbia senso una regolamentazione che, in proposito, distingue a seconda della «natura» del soggetto che si fa cessionario (per sua natura, questo rilievo prescinde dalle specifiche diversità della disciplina che emergerebbero per effetto dell’entrata in vigore dello Schema). In sé, il punto ha ben poca attinenza con la situazione che sta passando il debitore. Non si vede ragione, insomma, per tagliare fuori – da questo profilo del discorso – il recupero occasionale del credito (da parte, cioè, di un’impresa commerciale) ovvero quello isolato (fuori dall’ambito imprenditoriale).

Così pure è da chiedersi, poi, se sia corretto fermare la linea della diversità del trattamento disciplinare – nel genere dei crediti non performing – a quelli che sono da considerare «in sofferenza» (com’è naturale, il peso dell’interrogativo dipende in concreto dalla nozione di credito «in sofferenza» che si venga ad assumere).

3.2.- Comunque sia di ciò, passando adesso a un’osservazione di taglio diverso, è qui almeno da accennare che una disciplina dei crediti non performing, peculiare e diversa da quella del diritto comune (v. nel precedente n. 2), dovrebbe essere indirizzata secondo una determinata prospettiva. Che potrebbe essere – a discorrere in via astratta – nel senso della maggior protezione della posizione debitoria o, all’opposto, di una più efficiente tutela di quella creditoria ovvero ancora di più minuta e puntuale regolamentazione, anche nel segno di un ricercato equilibrio tra gli opposti interessi.

Non sarebbe inopportuno, dunque, che il legislatore dello Schema fornisse indicazioni e prospettive per questo riguardo (anche tenendo conto, a nostro avviso, delle implicazioni – non solo sistematiche – della normativa di trasparenza, che qui converge per la tutela del debitore ceduto, quale frutto di un rapporto che si è originato da un «contratto bancario»). Come si vede, anche per questo profilo (v. sopra, nel n. 2.1.), il mero richiamo a delle clausole generali (di correttezza, diligenza, ecc., ex art. 114.8) non appare sufficiente.

4. (Segue): sulla nozione di «credito in sofferenza»

4.1.- La norma definitoria dell’art. 114.1 dello Schema chiama «crediti in sofferenza» quelli che, concessi dalle banche o da altri «soggetti abilitati», sono «classificati in sofferenza secondo disposizioni attuative della Banca d’Italia».

La formula, per la verità, non appare del tutto felice. Perché non fa intendere con chiarezza quali e quanti siano i requisiti in proposito occorrenti. In specie, se basti la classazione, nelle scritture dell’intermediario, a sofferenza o se sia necessaria pure la relativa segnalazione alle Centrali informative. E, soprattutto, se comunque occorra, in aggiunta, che il credito così classato possegga effettivamente i requisiti fissati per il relativo riguardo dalla Banca d’Italia.

La risposta positiva a tele quesito apre, evidentemente, la porta alla possibilità di ampie contestazioni da parte dei debitori ceduti. La linea opposta rischia però di rendere evanescente la stessa esistenza del presupposto della «sofferenza»: se non, anzi, quella (basica, per dire) del credito non performing. Non v’è dubbio, tuttavia, che una formula tenuta «incerta» tende a cumulare, sul piano del diritto vivente, entrambi i detti svantaggi.

4.2.- Ciò posto, pure è da segnalare che potrebbe anche correre l’eventualità che interessato all’applicazione della normativa di attuazione della direttiva sia il debitore ceduto (per invocare, ad esempio, la mancata applicazione da parte dell’intermediario della disciplina di cui all’art. 114.10); e che, di conseguenza, l’onere probatorio della effettiva sussistenza di un credito in sofferenza venga, nella specie concreta, a cadere sulla posizione del debitore ceduto.

Si pone, in via correlata, il tema del «come» il debitore ceduto possa venire ad assolvere un simile onere, al di là dell’eventualità di una richiesta giudiziale di ordine di esibizione (richiesta il cui esito appare, nel contesto del diritto vivente, alquanto aleatoria). A tale esigenza potrebbe provvedere, in ipotesi, la prescrizione del comma 2 dell’art. 114.10, per cui la «comunicazione individuale» dell’avvenuta cessione «è effettuata … ogniqualvolta sia richiesta dal debitore ceduto». Meglio sarebbe, tuttavia, che la disposizione indicasse in modo esplicito che la comunicazione deve contenere l’attestazione che il dato credito è considerato – dal cedente, come pure dal cessionario – come classato in sofferenza.

Atteso poi che la prescrizione del comma 2 dell’art. 114.10 sembra pertenere sotto il profilo sostanziale all’ampio disposto dell’art. 119 comma 4 TUB, appare sicuramente opportuno che venga chiarito in modo espresso che la richiesta di comunicazione può essere formulata anche quando il giudizio è in corso.

5. (Segue): a proposito della disciplina di cui all’art. 114.10

5.1.- Nel suo complesso, la disposizione solleva parecchi profili problematici. Un primo gruppo dei quali attiene alla definizione dei rapporti dell’«informativa», che viene qui stabilita, con i regimi di opponibilità della cessione al ceduto di cui all’art. 1264 c.c. e 58 TUB, come anche con il regime comune di risoluzione dei conflitti tra acquirenti e tra acquirenti e creditori pignoranti.

Su questi aspetti si rinvia a prossimo n. 6 («opponibilità e risoluzione dei conflitti»).

5.2.- Anche a prescindere da quanto propriamente appartiene al tema dell’opponibilità della cessione e dei pertinenti conflitti, pare evidente che la tematica di cui alla disposizione dell’art. 114.10 non si esaurisce in una semplice «informativa» al debitore ceduto, come sembrerebbe credere la rubrica della medesima. Il punto attiene, in sé, anche alla prova dell’avvenuta cessione: che, naturalmente, è punto non meno importante di quello dell’obbligo d’informazione.

Ora, nella prospettiva della prova della cessione giova notare – anche tenendo conto della notevole dimensione che nell’attuale hanno raggiunto i contenziosi di cartolarizzazione – che a contare in modo particolare è il contratto traslativo; ovvero, nell’alternativa sostanziale (e, per vero, pure solamente basica), la dichiarazione del cedente: di «accertamento» (negoziale) dell’avvenuto trasferimento del diritto e di nulla avere a pretendere dal ceduto per il relativo titolo. Al debitore dev’essere evitato di correre il rischio di essere costretto a duplici pagamenti.

Il punto non è, come sembrerebbe ritenere il testo della disposizione del comma 1, l’individuazione del soggetto (cedente e/o cessionario) tenuto a inviare la comunicazione al debitore ceduto. Il punto attiene, com’è del resto evidente, ai contenuti informativi e impegnativi della dichiarazione inviata. Da quest’angolo visuale la norma attuale si mostra del tutto insufficiente.

5.3.- Non comprensibilmente, la redazione attuale della disposizione in esame non si preoccupa in alcun modo dell’eventuale presenza di fideiussioni, o di altre garanzie personali, che siano poste a presidio del credito ceduto.

5.4.- La norma si limita a prescrivere che la comunicazione in discorso deve avvenire «dopo la cessione e in ogni caso prima dell’avvio del recupero del credito». Questa formula sembrerebbe possedere due distinti significati normativi.

Il primo è di carattere informativo. In questa prospettiva, il precetto andrebbe integrato dalla precisazione che la comunicazione deve avvenire subito dopo il perfezionamento della cessione, senza alcun indugio. Questo, naturalmente, per evitare inutili disagi al ceduto e complicazioni varie a livello di fattispecie concreta.

Il secondo aspetto attiene a ciò che la trasmissione della comunicazione sembra fungere da condizione necessaria per potere avviare ogni iniziativa di recupero. Commendevole in questa prospettiva, la formula potrebbe peraltro essere redatta anche in una maniera di più agevole comprensione.

5.5.- Non sembrerebbe inutile precisare in modo espresso che la disposizione informativa trova applicazione per ogni cessione del credito, non solo per quella che vede come cedente l’originario creditore bancario.

5.6.- Per quanto riguarda il comma 2 dell’art. 114.10 si può rinviare a quanto già rilevato sopra, nel n. 4.2.

6. (Segue): opponibilità e risoluzione dei conflitti

Nel regolare l’informativa dovuta ai debitori ceduti, l’art. 114.10, comma 7 dispone che «il presente articolo non pregiudica l’applicazione delle disposizioni dell’articolo 58, per le cessioni ivi previste, nonché delle disposizioni in materia di efficacia della cessione del contratto e di efficacia della cessione dei crediti nei confronti del debitore ceduto e dei terzi previste dal codice civile e da leggi speciali».

Dal momento che l’art. 58 si applica solo a cessioni che – fatta eccezione per l’art. 114.10 (cfr. il relativo comma 5) – non rientrano nell’ambito applicativo del decreto qui in commento, le cessioni qui regolate sono di fatto prive di un regime proprio in punto di opponibilità e risoluzione dei conflitti, trovando pertanto esclusiva e diretta applicazione la disciplina codicistica di cui alle norme degli artt. 1264, 1265, 2913 c.c.

Per quanto attiene invece alle cessioni cui si applica l’art. 58 t.u.b. (anche per via del richiamo operato dalla legge 130/1999), riteniamo che il «non pregiudica» di cui al comma 7 non osti all’invio di una unica comunicazione – dotata della globalità dei contenuti di legge – che costituisca adempimento tanto dell’art. 58 quanto dell’art. 114.10.

7. (Segue): sulla disposizione dell’art. 114.8. Il tema delle spese

7.1.- Alle clausole di correttezza e di diligenza (non felicemente accostate l’una all’altra, posta la diversità prima di tutto strutturale che le separa) si è già fatto cenno sopra, nell’ambito del n. 2.1. e del n. 3.2. Lo stesso ordine di rilevi può essere esteso, nella sostanza, anche alle altre previsioni contemplate dalla norma.

La sensazione, che complessivamente viene fuori, è che si tratti di un intervento del legislatore non particolarmente meditato; e che, così come è scritta, la norma non sia particolarmente utile (se non a ribadire la sussistenza di prescrizioni vigente, già aliunde previste).

7.2.- Manca una previsione sulle spese che – in ragione di cessione, gestione e recupero credito – saranno poste a carico del debitore ceduto. L’omissione pare di primaria importanza e per nulla condivisibile. Anche perché la prospettiva su cui focalizza lo Schema è quella della dissociazione tra acquirente del credito e gestore del medesimo: con il conseguente rischio di ulteriori lievitazioni, per «duplicazione», dei costi a carico del debitore. A parte questo, l’esperienza dell’operatività imprenditoriale italiana in materia bancaria mostra (tradizionalmente) un alto livello del carico delle spese: si pensi anche solo al caso della cessione del quinto.

La via più semplice, in proposito, sarebbe quella di introdurre, per legge, un cap complessivo. Ma da segnalare è, tra le altre, anche la soluzione che la norma dell’art. 125 decies (pure contenuta nello Schema, che qui si considera) dispone in generale (a prescindere, cioè, da ogni eventuale cessione del credito) per il debitore che sia consumatore. Secondo tale norma, «il finanziatore non può imporre al consumatore oneri, derivanti dall’inadempimento, superiori a quelli necessari a compensare i costi sostenuti a causa dell’inadempimento stesso». Una simile regola (sicuramente riferibile, ove realmente introdotta nel sistema, anche all’ipotesi di cessione del credito in sofferenza verso consumatore) potrebbe, in effetti, anche essere opportunamente estesa al caso del debitore non consumatore.

Sarebbe da chiedersi, naturalmente, se gli oneri da cessione, gestione e recupero siano da calcolare, nelle loro previsioni pattizie e nelle correlate applicazioni fattuali, ai fini del riscontro di eventuale usurarietà dell’operazione.

8. (Segue): sull’eventualità che sia ceduto non il «credito», ma il «contratto»

8.1.- La norma dell’art. 114.1, comma 2, dello Schema dispone che le norme dettate per il trasferimento (e connessa gestione) dei crediti in sofferenza si applicano anche al trasferimento (e gestione relativa) dei «contratti sulla base dei quali il credito in sofferenza è stato concesso» (salva solo una diversa, esplicita previsione).

Di per sé, la prescrizione ribadisce quanto scritto nella direttiva. Forse, però, qualche maggiore indicazione non sarebbe del tutto inopportuna.

8.2.- La prassi italiana conosce – specie nel campo del contratto di leasing – situazioni in cui l’intermediario originario cede il credito a un dato soggetto e il contratto a un altro soggetto. Il che, tuttavia, non pare cosa in sé stessa possibile: se viene ceduto il contratto, poi il cedente non ha più un credito da cedere; se viene ceduto il credito, poi il cedente dispone solo di posizioni passive, sì che la stessa eventualità di una cessione del contratto ben difficilmente riesce a configurarsi.

Nel caso, la questione va dunque risolta sulla base dei criteri di risoluzione dei conflitti tra diritti. In effetti, si tratta di fattispecie tra loro nel concreto alternative, non già cumulative. Non sarebbe per nulla inopportuno che la normativa dello Schema venisse a chiarire in modo netto questo profilo.

8.3.- Agli estensori delle presenti note non pare per nulla sicuro, per la verità, che possa ancora cedersi un contratto allorché una delle due parti abbia già compiutamente eseguito i propri obblighi di prestazione. La normativa sul trasferimento di azienda e quella sui contratti pendenti nella liquidazione giudiziale, se non altro, stanno a indicare l’opposta vettorialità.

Se si accetta una simile opinione, la normativa dello Schema fa propriamente riferimento al contratto non ancora interamente eseguito da entrambe le parti. Comunque sia di questa lettura, non pare in ogni caso discutibile che la normativa dello Schema non escluda la possibilità di cessione di un contratto non interamente eseguito ex utroque latere.

Una simile eventualità sembra, tuttavia, aprire un fronte piuttosto imbarazzante, posto che – nella disciplina dettata nello Schema – il cessionario del (credito o del) contratto non risulta soggetto ad autorizzazione alcuna. Lo Schema sembra introdurre, di conseguenza, un’ipotesi – legale – di contratto bancario da parte di soggetto non autorizzato all’esercizio della relativa impresa. O si deve forse presumere che il contratto debba essere eseguito, per la parte che manca, dal gestore? Per definizione, peraltro, quest’ultimo non subentra nella titolarità del rapporto …

9. (Segue): l’applicazione della normativa della «trasparenza» e di «tutela dei consumatori» (titolo VI TUB)

9.1.- La norma dell’art. 141.13, comma 1, dello Schema stabilisce che «ai gestori dei crediti in sofferenza si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni contenute … nel titolo VI» (l’enfasi è aggiunta).

L’apposizione del «limite di compatibilità» è inopportuna e va eliminata. Non varrebbe opporre, al riguardo, che il limite della compatibilità è intimo alla natura delle cose: in effetti, un simile rilievo prova, in sé stesso, troppo (il limite dato dalla natura delle cose non ha, in effetti, alcun bisogno di essere scritto). Nella realtà operativa, poi, l’apposizione di un simile limite finisce per possedere una portata in sé (potenzialmente) riduttiva: la sua introduzione funge, se non altro (nella migliore delle ipotesi, cioè), da moltiplicatore delle eccezioni spendibili in sede di controversia.

9.2.- Con riferimento alle ipotesi debitore consumatore, l’apposizione del limite di compatibilità confligge – in sé stessa – con la disposizione dell’art. 2, comma 2, della direttiva, per la quale l’introducenda normativa «non pregiudica … la tutela garantita ai consumatori».

9.3.- Quanto alla disciplina di cui al capo I del titolo sesto, poi, basta qui osservare che i crediti, di cui alla normativa regolata dallo Schema, nascono da contratti interamente e istituzionalmente soggetti alla normativa di trasparenza. Secondo i principi del diritto comune (essi pure, si è già detto, non sacrificabili in ragione dell’art. 2, comma 2 della direttiva) il trasferimento del lato attivo del rapporto obbligatorio non può – come fatto in sé – modificare in peggio la posizione del debitore ceduto. Nessun limite di compatibilità, dunque, potrebbe essere mai invocato per il transito creditorio dall’intermediario originario all’acquirente del credito.

Ciò posto, è piuttosto da rimarcare che comunque rimangono ancorate al rapporto altre norme di tutela del debitore. Così è, in specie, per quelle degli artt. 40 e 40-bis del testo unico bancario.

10. Sul mancato coordinamento con la normativa di cui al codice della crisi d’impresa

10.1.- Lo Schema non predispone regole di collegamento con la normativa di cui al codice della crisi. Per quanto la materia trattata evochi immediatamente, e in via naturale, l’esigenza di coordinamenti e di visioni unitarie: posto che a un credito in sofferenza corrisponde, per definizione, una situazione di crisi economica e patrimoniale del debitore.

Come pure è difficile non pensare, più in particolare, al tema della composizione negoziale non appena si legga che, tra i compiti del gestore, rientra quello della «rinegoziazione dei termini e delle condizioni contrattuali con il debitore» (art. 114.1, comma 1). E non può non lasciare perplessi, (anche) di conseguenza, che – proseguendo nel regolare la funzione gestoria di rinegoziazione – lo Schema si preoccupi unicamente di affermare che l’agire del gestore dev’essere «in linea con le istruzioni dall’acquirente dei crediti in sofferenza, a condizione che non costituisca attività di concessione di finanziamento ai sensi dell’art. 106» TUB.

Sembrerebbe di intendere, dunque, che al legislatore dello Schema non interessi in alcun modo il merito delle istruzioni che il cessionario venga nel concreto a impartire; salvo solo che dallo svolgimento di una rinegoziazione comunque non esca poi «la concessione di un finanziamento sotto qualsiasi forma», posto che il cessionario non è, per sé, soggetto autorizzato a fare finanziamenti (ma la mera ridistribuzione dei termini del pagamento rientra nel nozione rilevante di fare finanziamenti?).

10.2.- A parte ciò (che poco proprio non è), l’impressione di fondo è che si proceda per compartimenti stagni. Certo, non è attendersi da un legislatore come quello dello Schema delle linee di allargamento (figurarsi, poi, delle invasioni di campo).

Resta inalterata, tuttavia, la esigenza fondamentale di normative integrate (e di prospettiva unitaria) per il tema del debitore (di impresa e non di impresa) in crisi. Il ruolo della gestione imprenditoriale dei crediti bancari in sofferenza è, all’evidenza, del tutto centrale in proposito.

11. Il tema dei «reclami»

11.1.- La norma dell’art. 114.14 dello Schema assegna, nel suo comma 1, alla Banca d’Italia il compito di «disciplinare le procedure che i gestori di crediti in sofferenza per la gestione dei reclami presentati dai debitori»; richiama, nel suo comma 2, la possibilità di presentare degli esposti alla medesima banca d’Italia relativi al comportamento tenuto dai gestori.

Spicca l’assenza, nel contesto, di un qualunque riferimento all’ABF; come pure, e più in generale, di un qualunque richiamo a una fase successiva e ulteriore rispetto a quella del reclamo. L’impressione, al di là della genericità della formula normativa, è che non verrà consentita una gestione delle controversie che sfoci nell’ABF.

11.2.- Una simile scelta lascia, per vero, piuttosto perplessi. In tal modo si viene a inclinare, in effetti, verso un sistema stragiudiziale di soluzione delle controversie tra clienti e banche orientato sul polo della composizione transattiva, piuttosto che su quello dell’ADR di tipo decisorio (qual è, per l’appunto, l’ABF).

12. Subdeleghe e outsourcing di attività

12.1.- Se l’«industria» della gestione e valorizzazione dei crediti deteriorati appare, nell’attuale contesto del mercato esistente, come connotata da un elevato livello di frammentazione della relativa filiera, che per l’appunto si compone – anche in ragione di taluni vincoli normativi che insistono su questa attività (così, l’art. 2, co. 2, lett. c e co. 6 della legge 130/1999; l’art. 115 T.U.L.P.S.) – di numerosi soggetti che sono andati specializzandosi nel compimento delle diverse fasi del processo che articola lo svolgimento di questa attività, non vi è ragione di ritenere che la medesima struttura di filiera non si venga a consolidare anche per quelle operazioni di smobilizzazione di sofferenze che decideranno di avvalersi della cornice normativa introdotta dalla Direttiva NPL.

È noto che, nell’ambito delle cartolarizzazioni, una simile frammentazione reagisce a un quadro normativo che, non essendo sufficientemente chiaro in ordine alle condizioni, alle modalità e ai limiti di attribuzione di funzioni o attività nell’interesse dell’operazione (in specie quando queste attività coinvolgano contatti diretti con il debitore, o anche l’avvio e la conduzione di contenziosi o di procedure esecutive), si presta a un elevato livello di conflittualità tra ceduti e cessionari, che è inevitabilmente destinato a scaricarsi sulla giustizia civile in conseguenza dell’attivazione dei vari strumenti di opposizione alle procedure esecutive che l’ordinamento mette a disposizione degli esecutati.

La proposta di articolato qui commentata non solo non coglie l’occasione del recepimento della direttiva NPL per intervenire su tale problema (in relazione alle cartolarizzazioni) ma, per la logica secondo cui è impostata, rischia di ingenerare lo stesso tipo di criticità anche in relazione alle operazioni rientranti nel suo proprio ambito applicativo.

E infatti, con una scelta che appare a chi scrive a rischio di non conformità con la direttiva (e in specie con la prima parte dell’art. 12), la bozza di decreto omette di dettare una disciplina – rigida o lasca che sia – delle possibili forme di articolazione delle funzioni e delle attività della “filiera” del credito deteriorato, per esaurire la disciplina dell’esternalizzazione sul piano meramente pubblicistico dell’estensione a tali soggetti di taluni obblighi nei confronti dell’Autorità, con la correlativa attribuzione a questa poteri pubblicistici verso le imprese destinatarie di incarichi di esternalizzazione. Se le disposizioni attuative della Banca d’Italia potranno essere l’occasione per rimediare a tale lacuna, non può non rilevarsi che la mera attribuzione di poteri discrezionali all’Autorità non aiuta a orientare il mercato (né a garantire un «level playing field»), in assenza di criteri direttivi sanciti nel dato positivo.

12.2.- Sembrerebbe fare eccezione al disinteresse del legislatore verso l’assetto della filiera dei crediti deteriorati solo la previsione per cui «non costituisce attività di gestione di crediti in sofferenza ai sensi del Capo II del Titolo V del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, l’attività esercitata, sulla base di un accordo di esternalizzazione di funzioni aziendali, da società titolari della licenza per l’attività di recupero» a soggetti dotati di licenza ex art. 115 T.U.L.P.S.

Senonché, al di là della collocazione infelice della previsione (che non ci sembra né «transitoria», né «finale»), viene da domandarsi perché una attività, che è in sé oggettivamente una esternalizzazione di funzioni, dovrebbe venire sottratta alla relativa disciplina. Come pure questa disposizione non scioglie il dubbio circa la esternalizzabilità o meno dell’attività di recupero a soggetti che non sono dotati di licenza ex art. 115 T.U.L.P.S.

12.3.- In assenza di una disciplina d’impresa (di là di quella meramente pubblicistica di estensione di taluni poteri dell’Autorità nei confronti dei soggetti incaricati di funzioni esternalizzate), rimangono indeterminate – e pertanto inevitabilmente rimesse alla prassi degli operatori del mercato (su cui si troveranno poi chiamati a esprimersi, a valle, il regolatore e i giudici) – le forme della gestione delegata; restando all’evidenza come punto fermo quello dell’applicazione degli artt. 1228, 1719 e 2049 c.c.

Così, lo schema di decreto non sembra prendere posizione sul tema della rappresentanza sostanziale (e poi pure processuale), lasciando spazio anche a soluzioni nel concreto ambigue (mera indicazione che si agisce nella veste di «mandatario»), delle quali non mancano dei riscontri nell’attuale diritto applicato (in sede giudiziale, la procura alle liti può anche non bastare, se chi dà la procura si autoqualifica come mandatario tout court).

È chiaro, peraltro, che il modello negoziale della delega dal gestore all’outsourcer non è indifferente al ceduto, sotto più e distinti profili. In effetti, a seconda del fatto che si tratti di gestione solo «interna» o, invece, anche «esterna», i termini del rapporto obbligatorio con il debitore cambiano, e non marginalmente (si pensi, ad esempio, alla disciplina della compensazione).

Come pure la struttura della delega impatta sulla posizione del cessionario: a fronte di un gestore che si presenti al ceduto come legittimato in proprio al compimento degli atti gestori, la posizione dominicale del cessionario viene quasi a “retrocedere” a quella di mero “creditore” del gestore.

Si impone pertanto una fondamentale esigenza di chiarezza, in specie nei confronti del debitore ceduto. Da questo punto di vista, ci sembra che questi abbia titolo e interesse a essere reso edotto della struttura della delega e di eventuali sub-deleghe (con indicazione dei soggetti coinvolti e dei relativi ruoli), anche perché questo sia messo in condizione di verificare il corretto agire del gestore: la sede opportuna per veicolare tali informazioni essendo la comunicazione ex art. 114.10.

13. Il gestore dei crediti deteriorati tra mandato e “ufficio di diritto privato”

In conclusione, non ci pare inutile svolgere una rapida considerazione in ordine alla configurazione che assume il rapporto tra acquirente (e quindi titolare) del credito e gestore.

Ora, si è detto che la disciplina in questione viene a introdurre imperativamente una dissociazione tra titolarità e gestione, nel senso che l’acquirente non ha la facoltà di determinarsi autonomamente nel senso di conferire o meno la delega gestoria, perché è la legge a imporre ciò. Come pure il titolare del credito non può riprendere in proprio l’affare, se non per conferire una nuova delega a un diverso soggetto.

Un simile ruolo di “presidio di protezione” del gestore allontana il rapporto tra questo e l’acquirente dal tipo contrattuale del mandato – dove il mandante resta il dominus dell’operazione, con il correlativo potere di istruire il mandatario ex art. 1711 c.c. – e lo avvicina a un modello più simile a quello dell’ufficio di diritto privato, dove il gestore persegue sì l’interesse del gerito, ma dovendo attenersi primariamente a criteri dettati dalla legge; criteri che, nel caso di specie, fanno leva anche su clausole generali (cfr. l’art. 114.8) e quindi implicano un certo grado di discrezionalità interpretativa e applicativa.

Ne risulta, all’atto pratico, una sostanziale svalutazione del potere di istruzione dell’acquirente, che si trova subordinato all’esigenza rispetto della normativa applicabile (come inclusiva anche dell’azione di vigilanza) a cui è tenuto il gestore.

Se una simile conclusione si ritrae senza particolari margini di dubbio dall’impianto complessivo del decreto di recepimento, riteniamo opportuno, anche per le ragioni già esposte nel punto 10.1, che si provveda alla revisione dell’inciso, contenuto nell’art. art. 114.1, comma 1, lett. b), che impone al gestore di agire «in linea con le istruzioni dall’acquirente dei crediti in sofferenza», nella direzione di esplicitare la prevalenza dei protocolli di azione, che il gestore abbia sviluppato ai fini di compliance, sul potere di istruzione dell’acquirente.

 

* Le opinioni espresse in questo contributo non impegnano, quanto al prof. Dolmetta, l’Arbitro Bancario Finanziario e, quanto al prof. Malvagna, l’Arbitro per le Controversie Finanziarie.

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