Con l’ordinanza interlocutoria n. 5714/2025, la Corte di cassazione è ritornata sul tema dei limiti e dei presupposti previsti dal novello art. 21-bis del D. Lgs. n. 74/2000 ai fini dell’ingresso, nel processo tributario, della sentenza irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, pronunciata ad esito del dibattimento penale con formula “perché il fatto non sussiste”.
La vicenda giurisprudenziale traeva origine dall’impugnazione degli atti impositivi che riprendevano a tassazione, irrogando le relative sanzioni, i maggiori redditi percepiti dalle contribuenti nello Stato italiano, a seguito del disconoscimento del centro principale degli interessi vitali localizzato, solo formalmente, in Svizzera.
Soccombenti in primo grado ed in appello, le ricorrenti producevano, in occasione del giudizio di legittimità, la sentenza penale definitiva di assoluzione emessa a loro favore, invocando, a tal fine, l’operatività sub specie dell’art. 21-bis citato.
In tale circostanza, nel rilevare una generale discordanza tra gli orientamenti ermeneutici maturati in fase di applicazione della norma de qua, il Collegio ha rimesso gli atti di causa al Primo Presidente per valutare l’opportunità di un pronunciamento a Sezioni Unite, nell’ottica del raggiungimento di un’esegesi della disposizione in questione che sia conforme alla volontà del legislatore.
In primo luogo, dopo aver richiamato i lineamenti essenziali dell’assetto giuridico ante riforma, la Corte ha riepilogato le condizioni di efficacia disposte dall’art. 21-bis, ovverosia:
- la pronuncia dell’assoluzione con formula piena;
- l’identità del soggetto-parte dei giudizi penale e tributario;
- l’identità dei fatti materiali contestati nelle rispettive sedi penale e tributaria.
Ciò posto, mentre è ormai pacifico il riconoscimento della portata retroattiva del citato art. 21-bis in relazione ai processi tributari pendenti, la Suprema Corte ha rilevato che i maggiori contrasti interpretativi sono sorti nel tentativo di delineare il perimetro di efficacia sostanziale-probatoria del giudicato penale rispetto al contenzioso tributario.
Sul punto si sono registrati due diversi indirizzi.
Parte della giurisprudenza, ponendo in luce la necessità di coerenza sistematica nel rapporto tra i due processi, è giunta ad accordare al giudicato penale di assoluzione piena estensione di efficacia, sia in punto di accertamento giudiziale dell’imposta, sia in fase di irrogazione delle relative sanzioni amministrative.
Altra parte della giurisprudenza, argomentando sulla base di una “interpretazione letterale, sistematica, costituzionalmente orientata e in conformità ai principi unionali”, ha riconosciuto l’efficacia del giudicato penale solo ed esclusivamente rispetto al profilo sanzionatorio, demandando, in ogni caso, al giudice tributario la valutazione circa i presupposti sulla maggiore imposta accertata.
A conclusione, la Suprema Corte ha inoltre posto l’attenzione sull’ulteriore questione – sempre dibattuta in punto di interpretazione – circa la “gradazione” di assoluzione, ex art. 520, comma 2, c.p.c.; fattispecie che ricorre ogniqualvolta il giudice penale, con formula dubitativa, proscioglie l’imputato perché è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste o che l’imputato ha commesso il fatto stesso.
In definitiva, considerati la “non uniformità delle decisioni assunte e la rilevanza dei principi sottesi, di ambito generale” la Suprema Corte ha ritenuto che “possano ricorrere i presupposti per una pronuncia delle Sezioni Unite in merito all’ambito di efficacia dall’art. 21-bis d.lgs. n. 74/2000, sia in relazione al profilo della estensione anche al rapporto impositivo degli effetti della sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa ad esito del dibattimento con la formula “perché il fatto non sussiste”, sia in ordine alla applicabilità della nuova disciplina alla ipotesi di assoluzione con la formula prevista dal secondo comma dell’art. 530 del codice di procedura penale”.