Il presente contributo analizza il tema della corporate violence e della giustizia riparativa all’indomani della Riforma Cartabia, nell’ottica di leggere questa rivoluzione culturale del processo penale attraverso la lente della criminalità d’impresa.
1. La giustizia riparativa nella Riforma Cartabia
Una delle principali novità della Riforma Cartabia è l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa nel sistema penale ordinario. Fino a questo momento, infatti, vi erano stati solo pochi e frammentati interventi legislativi in materia, essenzialmente nei settori del processo minorile e di quello dinnanzi al Giudice di Pace, con sparute forme di prima sperimentazione nel processo penale per gli adulti (fra tutte, la sospensione del procedimento con messa alla prova di cui all’art. 168 bis c.p. e la estinzione del reato per condotte riparatorie di cui all’art. 162 ter c.p., la cui ratio, a onor del vero, era più quella di deflazionare il carico giudiziario rispetto a reati di non particolare allarme sociale che non quella di favorire logiche di valorizzazione del ruolo della vittima e di gestione condivisa del conflitto).
In attuazione dei principi e dei criteri direttivi contenuti all’art. 1, comma 18, L. 27 settembre 2021, n. 134, il legislatore delegato ha disegnato a tutti gli effetti un nuovo volto della giustizia penale, all’insegna di una pena che non è più – soltanto – punizione con connotati afflittivi, bensì – anche – cura, mediante programmi volti a ricucire i legami che la commissione del reato ha lacerato e a riportare armonia in un contesto relazionale e sociale che ha subìto una frattura, offrendo al reo una possibilità di recupero.
Segnatamente, i programmi di giustizia riparativa tendono a promuovere il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa e la ricostituzione dei legami con la comunità [1].
La nuova disciplina, di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, come modificato dal d.l. n. 162/2022, convertito in l. n. 199/2022 e ss.mm.ii., vede una giustizia dal volto umano, il cui obiettivo è trasformare il conflitto tra l’autore del reato e la vittima in un confronto e un dialogo tali da comporre il conflitto stesso. L’intervento normativo prende le mosse dalla constatazione d’inefficacia del paradigma punitivo tradizionale – che ha finito per risolversi nella stigmatizzazione del reo e della sua azione criminosa, con conseguente allontanamento dell’individuo dalla comunità – e, al contempo, da una pragmatica esigenza di deflazione del carico giudiziario e di sfoltimento delle strutture penitenziarie, dettata quest’ultima sia dall’urgenza di far fronte alle note e intollerabili condizioni degradanti delle carceri, sia dal forte impatto delle spese di gestione degli istituti di pena sui bilanci statali.
Alla giustizia riparativa viene dedicato il Titolo IV della Riforma Cartabia, rubricato appunto “Disciplina organica della giustizia riparativa”.
Gli articoli da 42 a 67 della Riforma Cartabia dettano i principi, le disposizioni generali e gli obiettivi del nuovo paradigma, disciplinano i programmi di giustizia riparativa e le loro garanzie, regolano la figura e l’attività del mediatore e individuano i servizi per la giustizia riparativa.
Nel rispondere all’esigenza di descrivere un concetto spesso evocato nel dibattito dottrinale, ma dai tratti sfuggenti, il legislatore della Riforma all’art. 42, lett. a) ha dato una definizione di giustizia riparativa [2]:
ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore.
Già dall’accurata scelta delle parole utilizzate si evince un cambio di rotta rispetto alla tradizionale concezione della giustizia penale: l’indagato/imputato non è più menzionato come tale, bensì come “persona indicata come autore dell’offesa”. Da tale locuzione traspare un approccio gentile, che prende fermamente le distanze dall’idea che vede contrapposti, arroccati sulle loro posizioni, reo e vittima, in favore di una maggiore apertura al dialogo, nucleo duro della giustizia riparativa. Non solo: nelle parole prescelte dal legislatore si coglie un genuino rispetto della presunzione di non colpevolezza (o, nella formulazione di matrice europea e di recente recepimento, di innocenza), principio troppo spesso calpestato nella prassi applicativa a dispetto del suo rango costituzionale.
A tale blocco di norme neo-introdotte si accompagnano ulteriori disposizioni che, andando a novellare quelle già esistenti, completano l’effettivo ingresso del nuovo paradigma di giustizia nell’ordinamento penale. È il caso del nuovo art. 415 bis c.p.p. che, nel normare – come noto – la chiusura delle indagini preliminari per consentire all’indagato di esercitare un serie di prerogative difensive, prevede che l’avviso, oltre alla rituale classica informativa, contempli d’ora in avanti altresì la comunicazione, per l’indagato e la persona offesa, della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.
L’entrata in vigore delle disposizioni della Riforma Cartabia in materia di giustizia riparativa è stata rinviata al 30 giugno 2023, in modo da accordare agli operatori un lasso di tempo congruo per l’organizzazione amministrativa e la predisposizione delle strutture che saranno chiamate a garantire la piena operatività dell’innovativa “giustizia dell’incontro” [3].
In questa sede non si intende operare una rassegna delle previsioni di dettaglio che riempiono di contenuto e regolano l’applicazione del nuovo modello di giustizia, bensì tentare di leggere questa rivoluzione culturale del processo penale attraverso la lente della criminalità d’impresa, nell’ottica di individuare quale possa essere lo spazio della giustizia riparativa nel contesto delle corporations.
2. La corporate violence e le vittime di corporate crimes
Prima di svolgere qualsivoglia considerazione rispetto all’impatto che la giustizia riparativa potrà avere sul diritto penale d’impresa, occorre soffermarsi brevemente sul profilo soggettivo delle vittime dei reati di tipica commissione nelle organizzazioni collettive.
Con vittime di corporate violence si fa riferimento ai soggetti offesi dai reati commessi dalle società commerciali nell’ambito della loro attività d’impresa, con lesione dei beni vita, integrità fisica o salute (a titolo esemplificativo, reati contro l’ambiente, reati in materia di salute e sicurezza sul lavoro).
La casistica in tema di corporate violence è estremamente ampia e variegata: guardando al panorama nazionale, basti pensare ai noti casi Thyssen-Krupp e Ilva o, ancora, ai numerosi casi riguardanti luoghi di lavoro contaminati dalle polveri di amianto.
La circostanza che, in tali frangenti, le conseguenze lesive non siano il frutto di condotte intenzionali, e che gli effetti degli illeciti non siano sempre del tutto tangibili (a titolo esemplificativo, nel caso di ripercussioni esclusivamente psicologiche), pone le vittime di corporate crimes in una condizione di particolare vulnerabilità rispetto alle vittime di altri reati che, nella coscienza collettiva, appaiono meritevoli di maggiore protezione. Tale vulnerabilità è ulteriormente esacerbata dal divario che la vittima di corporate crimes avverte tra lo strumentario di tutela a propria disposizione e la soverchiante superiorità organizzativa e informativa, oltre che il potere economico, dell’impresa.
Ne deriva un’esigenza di assistenza che, storicamente, non ha quasi mai trovato adeguata soddisfazione nel processo penale tradizionale.
Invero, l’aspettativa di una “giusta e severa” punizione dei responsabili è sovente stata delusa, data la natura colposa degli illeciti e le connesse difficoltà di accertamento, anche sul piano del nesso causale; basti pensare alle sentenze di assoluzione che hanno bollato molti processi per lesioni e morte da amianto, con somma indignazione dell’opinione pubblica culminata in amare considerazioni, come quella pronunciata alla lettura della sentenza d’appello del processo Breda-Ansaldo: “Cercavamo giustizia ma purtroppo abbiamo trovato la legge che difende i potenti” [4].
Del pari, l’attesa di un risarcimento “morale e sociale” da parte delle vittime è spesso stata frustrata nelle aule, non adeguatamente attrezzate – fino ad oggi – a garantire simili risultati.
È in tali sacche del processo penale che interviene la nuova disciplina prevista dalla Riforma Cartabia, nell’ottica di offrire alle vittime soluzioni ricostruttive più adatte a rispondere alla loro domanda di giustizia.
3. Gli orizzonti applicativi della giustizia riparativa nella criminalità d’impresa
Sebbene sia necessario attendere l’entrata in vigore del corpus normativo sulla giustizia riparativa per poter valutare i concreti effetti di tale rivoluzione culturale sul processo penale e, per quanto di interesse in questa sede, sul processo penale per reati d’impresa, si ritiene comunque utile condividere alcune prime considerazioni prospettiche in merito.
Dal punto di vista criminologico, è stato osservato che la criminalità economica mal si presterebbe ad essere gestita con un approccio incentrato sulla relazione tra i soggetti coinvolti nel conflitto, in quanto il tipico autore di corporate crimes è solito manifestare una tendenza a non riconoscere la propria responsabilità ([5]).
Ciò rappresenterebbe un significativo ostacolo per la buona riuscita di un qualsiasi programma di giustizia riparativa che, per sua natura, postula la responsabilizzazione dell’autore del reato e il suo coinvolgimento attivo e consapevole in un percorso connotato da una spiccata volontarietà della scelta riparatoria.
Volgendo poi lo sguardo alle vittime dei reati d’impresa, può scorgersi un ulteriore possibile ostacolo rispetto al ricorso alla giustizia riparativa in tale ambito nell’esistenza, di sovente, di cd. vittime diffuse.
È infatti frequente, nella corporate violence, che il destinatario dei danni provocati dal reato non sia il singolo, bensì una moltitudine di soggetti (è il caso, ad esempio, di reati ambientali che abbiano ripercussioni sulla salute), con evidenti e problematiche conseguenze: il significativo impatto del danno “aggregato” derivante dall’illecito risulta “spalmato” su una platea di destinatari ampia, alle volte al punto da risultare di difficile esatta definizione; la diffusività delle conseguenze lesive, e la usuale complessità nell’individuazione di un nesso diretto e immediato con l’illecito, rischiano di far sì che le vittime non abbiano gli strumenti per riconoscersi come tali e, quindi, per invocare adeguatamente tutela.
Nonostante questi possibili intoppi nell’efficace implementazione del nuovo paradigma in ambito corporate, deve osservarsi che, a ben vedere, l’ambito della criminalità d’impresa è stato nell’ultimo ventennio un banco di prova di logiche punitive alternative a quella tradizionale. Il riferimento è alla disciplina della responsabilità da reato degli enti e alla connessa valorizzazione della cultura della prevenzione, momento di rottura di una concezione che vede la riparazione come una vicenda privata o, peggio, secondaria ([6]).
Nell’ottica del decreto legislativo n. 231/2001, infatti, la finalità principale perseguita dal legislatore è quella di prevenire la commissione di illeciti e, ove questi vengano commessi, di incentivare la riparazione delle relative conseguenze dannose o pericolose, come previsto dagli artt. 12 e 17 del decreto. Alla repressione secondo le tradizionali logiche retributive, dunque, si giunge solo in via subordinata.
Tali norme valutano la responsabilità non già in termini retrospettivi e con l’ottica esclusiva di irrogare una sanzione per la condotta illecita passata, bensì in termini prospettici, con la diversa ottica di migliorare la compliance dell’impresa e favorire la riparazione, così approntando tutela agli interessi di tutte le parti coinvolte. In questa tipologia di approccio, propria del decreto 231, si scorgono senz’altro punti di contatto con i fondamenti della giustizia riparativa.
Per concludere, rilevato che la criminalità d’impresa ha già assistito a una notevole svolta culturale nell’idea punitiva, si ritiene che essa ben potrebbe costituire terreno fertile per il nuovo modello di giustizia della riparazione. Al banco di prova della prassi applicativa sarà rimessa la declinazione concreta di percorsi che siano strutturati per coinvolgere, accanto alle persone fisiche, anche le organizzazioni, nel rispetto dei principi che informano la disciplina di recente introduzione.
4. Conclusioni sulla giustizia riparativa nella Riforma Cartabia
Ogni assertiva conclusione sul connubio tra giustizia riparativa e criminalità d’impresa sarebbe allo stato prematura.
Nondimeno, può affermarsi sin d’ora, ad avviso di chi scrive, che l’implementazione di un nuovo paradigma di giustizia, già sperimentato con successo in altri ordinamenti (e in parte testato in alcuni micro-settori del nostro ordinamento) debba essere accolta con favore.
Gli effetti benefici attesi della giustizia riparativa sono infatti molteplici e trasversali: le vittime, nel prendere maggiore coscienza del proprio ruolo, avrebbero l’opportunità di fronteggiare direttamente l’autore del reato, senza l’intermediazione degli attori del processo che, per come tradizionalmente concepito, rischia di porre in secondo piano la loro tutela; gli autori del reato, nel percorso di responsabilizzazione che contraddistingue il nuovo paradigma, cesserebbero di essere meri soggetti passivi di pene afflittive per divenire protagonisti nella medicatura dello strappo causato al tessuto comunitario dalla commissione dell’illecito; da ultimo, il sistema giustizia si gioverebbe di un notevole abbassamento dei costi, della deflazione del carico giudiziario e, soprattutto, vedrebbe una virtuosa via d’uscita all’annoso e cronico problema del sovraffollamento carcerario.
Nel microcosmo del diritto penale dell’economia, la giustizia riparativa potrebbe consentire di limitare le conseguenze pregiudizievoli dell’illecito, su differenti piani: quello della riduzione dello squilibrio e del profondo divario oggi avvertito dalle vittime rispetto ai “potenti” autori del reato, mediante incentivazione di un dialogo che pone le parti (e la comunità interessata) sullo stesso piano; quello del contenimento del danno reputazionale, sia del singolo autore che della impresa coinvolta; infine, quello del ripristino della fiducia dei cittadini verso realtà imprenditoriali macchiatesi di crimini ritenuti esecrabili, perché sacrificanti beni giuridici primari quali la vita, l’integrità fisica, la salute, sull’altare del profitto.
[1] Così l’art. 43, comma 2, decreto legislativo n. 150/2022 e ss.mm.ii.
[2] Prima della Riforma Cartabia, la definizione positiva di giustizia riparativa poteva essere tratta principalmente dalla normativa europea e internazionale. Le fonti di riferimento sono la Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato (e che sostituisce la Decisione Quadro 2001/220/GAI), la Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec (2018)8 del Comitato dei Ministri, che sviluppa la precedente Raccomandazione R(99)19 in materia di mediazione penale, e i Principi nell’uso dei programmi di giustizia riparativa in ambito penale elaborati nel 2002 dalle Nazioni Unite. Da tali fonti risulta una definizione di giustizia riparativa coerente con quella adottata dal nostro legislatore, ossia quella di un processo che consente alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, con il loro libero consenso, alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito, con il supporto di un terzo all’uopo formato e imparziale.
[3] Il differimento dell’entrata in vigore delle norme in materia di giustizia riparativa è previsto dall’art. 92 decreto legislativo n. 150/2022 e ss.mm.ii, vi rubricato “Disposizioni transitorie in materia di giustizia riparativa. Servizi esistenti” (testualmente, la disposizione richiamata prevede che il nuovo corpus normativo trovi applicazione “decorsi sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto”).
[4] La frase è attribuita a Michele Michelino, ex operaio della Breda e portavoce del Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro, come riportata dall’articolo “Perché le morti sul lavoro per amianto restano senza giustizia”, reperibile al seguente url: https://www.milanotoday.it/cronaca/assolti-manager-bredaansaldo.html
[5] D. Luedtke, Progression in the Age of Recession: Restorative Justice and White-Collar Crime in Post-Recession America, in Brook J. Corp. Fin. & Comm. L., 2014, 234.
[6] R. De Paolis, Della funzione della pena, della giustizia riparativa, della criminalità economica: una riflessione, in Discrimen, 20 agosto 2021.