WEBINAR / 30 Gennaio
Rappresentante designato nelle società quotate alla luce della Legge Capitali


Impatti per le assemblee 2025

ZOOM MEETING
Offerte per iscrizioni entro il 10/01


WEBINAR / 30 Gennaio
Rappresentante designato nelle società quotate alla luce della Legge Capitali
www.dirittobancario.it
Giurisprudenza

Gli accertamenti bancari si estendono anche ai contribuenti non titolari di un reddito d’impresa o di lavoro autonomo

17 Maggio 2017

Andrea Di Gialluca, Dottore Commercialista, Maria Adele Morelli, Ricercatrice Fondazione Nazionale Commercialisti (FNC)

Cassazione Civile, Sez. V, 31 gennaio 2017, n. 2432

Nella recente sentenza del 31 gennaio 2017 n. 2432[1], la Corte di Cassazione ha chiarito l’ambito di applicazione della presunzione legale relativa fondata sugli accertamenti bancari di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, precisando che la suddetta presunzione relativa ai versamenti bancari è riferibile non solo ai titolari di reddito di impresa o di lavoro autonomo ma alla generalità dei contribuenti.

La controversia giunta all’attenzione della Suprema Corte origina da un’indagine finanziaria effettuata in capo ad un contribuente persona fisica, sul cui conto corrente erano stati effettuati diversi versamenti in contanti. Tali importi erano stati giustificati dal contribuente come riconducibili ad operazioni effettuate a suo beneficio dal padre, il quale confermava dette dichiarazioni. Ne conseguiva in capo a quest’ultimo, persona fisica non titolare di reddito di impresa o di lavoro autonomo, un accertamento ai fini IRPEF per un valore complessivo pari ai versamenti effettuati sul conto corrente del figlio. Il maggior reddito attribuito veniva qualificato dai Verificatori come “ reddito diverso”[2], in quanto derivante da lavoro autonomo occasionale svolto dal contribuente nella società di famiglia.

Il contribuente, proposto ricorso avverso il predetto avviso di accertamento, risultava vittorioso in entrambi i gradi del giudizio di merito. Nello specifico, la Commissione Tributaria Regionale riteneva, nel caso di specie, non operante la presunzione di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973, affermando che era onere dell’Ufficio dimostrare lo svolgimento delle attività diverse dalle quali erano derivati i maggiori redditi desunti dagli accertamenti bancari.

Giunta la controversia in Cassazione, quest’ultima ha, in primo luogo, ricostruito il corretto ambito applicativo della presunzione di cui alla normativa appena citata.

Chiariscono, in proposito, i Giudici che la presunzione legale relativa della disponibilità di maggior reddito non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o di reddito di lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti; ciò in considerazione del richiamo, operato dal citato art. 32 comma 1, n. 2, d. P.R. n. 600 del 1973, anche all’art. 38 del medesimo d.P.R., riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche. La Suprema Corte ha, altresì, definito le modalità applicative di suddetta presunzione, chiarendo che i “dati ed elementi” attinenti ai rapporti bancari desunti dalle indagini finanziarie possono essere utilizzati nei confronti di tutti i contribuenti destinatari di accertamenti previsti dal d.P.R. n. 600 del 1973.

Per quanto attiene, invece, ai titolari di reddito d’impresa, la presunzione in esame opera nel senso di consentire che vengano considerati ricavi i prelevamenti effettuati. Tale presunzione non è, come noto, più applicabile ai lavoratori autonomi[3].

Conclusivamente a parere della Suprema Corte la presunzione legale de qua si articola secondo due diverse modalità: mentre le operazioni bancarie di prelevamento conservano, ai fini della normativa in esame, validità presuntiva unicamente nei confronti di titolari di reddito d’impresa, le operazioni di versamento hanno efficacia presuntiva di maggiore disponibilità reddituale nei confronti di tutti i contribuenti[4] (ivi compresi imprese e professionisti[5]), i quali possono contrastarne l’efficacia adempiendo all’onere di dimostrare che ne hanno tenuto conto ai fini della determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine.

Nel caso di specie, dunque, la Suprema Corte ha ritenuto valido l’operato dell’Amministrazione Finanziaria e pertanto ne ha accolto il ricorso. E, infatti, l’Agenzia delle Entrate aveva individuato il contribuente quale autore del versamento in contanti delle somme risultanti dal conto corrente, assoggettandolo correttamente ad accertamento bancario, ritenendolo titolare di un reddito che (“senza esservi obbligata”) ha qualificato come “reddito diverso” derivante da attività di lavoro autonomo priva del requisito della abitualità.

 


[1] Così come nella “sentenza gemella” del 20 gennaio 2017, n. 1519.

[2] Art. 67, comma 1, lett. l), t.u.i.r..

[3] A tale conclusione è possibile pervenire a seguito delle modifiche apportate all’art. 32, d.P.R. n. 600 del 1973 dal d.l. 22 ottobre 2016 n. 193, convertito in legge 1° dicembre 2016 n. 225. Quest’ultimo intervento normativo ha, infatti, recepito quanto stabilito dalla sentenza del 6 ottobre 2014 della Corte Costituzionale che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo in commento nella parte in cui consentiva l’operatività della presunzione di maggiori compensi a seguito dei prelevamenti effettuati dai titolari di reddito di lavoro autonomo. Tali principi sono stati ormai pacificamente recepiti anche nella giurisprudenza di legittimità: ex plurimis Cass. ord. 28 novembre 2014 n. 25295; Cass. sent. 6 marzo 2015 n. 4585.

[4] E’ in proposito citata Cass. sent. 2 ottobre 2013 n. 22514, con la quale la Suprema Corte ha avallato la legittimità dell’accertamento bancario esperito nei confronti di un percettore di reddito assimilato a quello di lavoro dipendente. In particolare è stato affermato che la delimitazione dell’ambito applicativo della disciplina in esame ai soli soggetti esercitanti attività d’impresa commerciale, agricola, artistica o professionale è priva di qualsivoglia riscontro normativo.

[5] La Corte di Cassazione nella sentenza del 9 agosto 2016 n. 16697, ha statuito che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale del 6 ottobre 2014, n. 228, ai prelevamenti non giustificati dei professionisti non possono automaticamente corrispondere compensi non dichiarati, in quanto la prova incombe sull’Amministrazione Finanziaria. Tuttavia, per i versamenti bancari che non trovano riscontro in contabilità, resta invariata la presunzione legale a favore dell’Amministrazione Finanziaria, superabile dalla prova contraria fornita dal contribuente.

La pronuncia in esame è stata emanata a pochi giorni di distanza dalla sentenza della Suprema Corte del 5 agosto 2016, n. 16440 (precedenti conformi: Cass. sent. 11 novembre 2015, n. 230141; Cass. sent. 21 giugno 2016, n. 12781), che aveva, invece, sancito che in caso di indagini bancarie nei confronti di professionisti anche la presunzione sui versamenti era venuta meno dopo la citata sentenza della Corte Costituzionale.


WEBINAR / 30 Gennaio
Rappresentante designato nelle società quotate alla luce della Legge Capitali


Impatti per le assemblee 2025

ZOOM MEETING
Offerte per iscrizioni entro il 10/01

Iscriviti alla nostra Newsletter
Iscriviti alla nostra Newsletter