Le tempistiche sono quelle della crisi, concitate. Così, tra le fila dell’ordinamento giuridico si affastellano una serie di provvedimenti di diversa forma e emanazione ma sorretti dalla finalità comune, quella di contenere l’emergenza sanitaria e mitigare, per quanto possibile, le sue ripercussioni sull’economia nazionale. Uno degli ultimi – in ordine cronologico e non certo di importanza – è il d.l. n. 23/2020 (c.d. decreto liquidità), il principale strumento domestico di politica-economica posto a fronte della crisi sanitaria.
L’intento delle misure prettamente giuridiche è chiaro: fornire alle imprese un quadro normativo di riferimento che – in via del tutto eccezionale – possa fungere da humus per la rinnovata solidità e competitività del tessuto economico italiano dinnanzi alla – altrettanto eccezionale – emergenza in corso.
È in tal senso che si muovono, tra gli altri, gli interventi normativi in merito alla sospensione della postergazione del finanziamento dei soci (art. 8 del decreto) e quelli relativi alla sospensione delle norme disciplinanti la riduzione del capitale sociale per perdite e la tutela della soglia legale minima di capitalizzazione delle società (art. 6 del decreto), così come il provvisorio cambio di paradigma circa la valutazione contabile del requisito di continuità aziendale che – in via del tutto inedita – viene ritenuto sussistente se presente all’ultimo bilancio chiuso antecedentemente al 23 febbraio 2020 (art. 7 del decreto).
Quello anzidetto è dunque il quadro giuridico in cui si inserisce il principale intervento di natura economica previsto dal decreto. Un intervento poderoso, se si limita l’analisi al dato numerico della liquidità potenzialmente iniettabile nel mercato per effetto delle misure adottate: € 400 miliardi. In sostanza – e l’auspicio è che ciò avvenga nel più breve tempo possibile, anche alla luce della recente autorizzazione della Commissione Europea ai sensi dell’art. 108 TFUE in materia di aiuti di Stato – nel prossimo futuro le imprese italiane si troveranno ad operare forti della liquidità addizionale loro concessa dagli intermediari finanziari e garantita, in prima istanza, da SACE o dal Fondo di Garanzia per le PMI e, in seconda battuta, dallo Stato.
Sotto questo profilo, posto al centro della visione strategica non è stato il potere legislativo, bensì il circuito finanziario privato. Saranno gli intermediari finanziari a ricevere le richieste di finanziamento da parte delle imprese e saranno sempre gli intermediari finanziari a dover condurre un’istruttoria privata sulle domande di accesso al credito, creando dei dossier che verranno trasmessi a SACE soltanto per la validazione della garanzia contro-assicurata dallo Stato. Così per la grandissima maggioranza delle imprese italiane.
Attenzione, però. La misura economica viene ad inserirsi in un quadro giuridico che – nei termini anzidetti urgentemente ri-disegnato ad immagine e somiglianza dell’impresa in crisi – ha tuttavia omesso di apprezzare le ragioni di tutela degli intermediari finanziari, vero e proprio volano del sostegno garantito all’economia nazionale.
Le indicazioni fornite dal Governo agli intermediari finanziari fanno perno su alcuni sporadici divieti: divieto di finanziamento ad imprese con esposizioni UTP antecedenti al 31 gennaio 2020; divieto di finanziamento ad imprese in corso di concordato in continuità, accordi di ristrutturazione o piani attestati di risanamento successivi al 31 dicembre 2019; divieto di finanziamento ad imprese in stato di “difficoltà” ai sensi della normativa europea.
Eppure, nulla viene detto circa le conseguenze penali scaturenti in capo all’intermediario finanziario in dipendenza della concessione di credito in favore di un’impresa non rientrante nei parametri previsti dal decreto o addirittura in favore di un’impresa che – pur rispondente ai criteri – verta nondimeno in uno stato di crisi pressoché incontrovertibile. Di fatto, il decreto è privo di qualsivoglia raccordo tra le prescrizioni in esso contenute e la disciplina penal-fallimentare.
Nel silenzio dell’atto avente forza di legge, permane dunque uno scenario non escludibile e, anzi, avvalorato da consolidata giurisprudenza penale: quello che vede le persone fisiche operanti in seno all’intermediario finanziario essere coinvolte nella commissione, in concorso o in cooperazione con l’imprenditore, dei reati di bancarotta fraudolenta o semplice piuttosto che del reato di ricorso abusivo al credito.
Si tratta, a parere di chi scrive, di un’ambiguità non priva di inefficienze. La certezza del diritto è un valore economico, oltre che giuridico. E l’equilibrio dell’ottimo paretiano sembra qui evidente: incentivare la massimizzazione dei finanziamenti erogati a sostegno del tessuto economico fondamentalmente sano ed in temporanea e comprensibile difficoltà minimizzando allo stesso tempo il rischio di dispersione di valore connesso a finanziamenti in favore di imprese decotte a prescindere dalla situazione emergenziale o addirittura illecite poiché orbitanti nella sfera della criminalità organizzata.
L’optimum in parola non può di certo essere raggiunto per il tramite di una potenziale sanzione penale pendente in capo all’intermediario finanziario alla stregua di una Spada di Damocle non sorretta da rigidi e pre-determinati requisiti di sussistenza e – anzi – in ottica prospettica forse troppo influenzabile dalla valutazione postuma che verrà resa dalla magistratura penale ad emergenza rientrata ed a mente fredda, allorquando il clima concitato di questi giorni sarà un ricordo e ciò che tenderà ad essere valorizzato sarà quello che non è stato fatto al meglio piuttosto che la quantità di adempimenti che oggi gli intermediari finanziari sono chiamati a compiere bene e a compiere presto.
Due le soluzioni proposte. Da un lato, la predisposizione di più dettagliate procedure di selezione delle imprese suscettibili di finanziamento da parte dello Stato, con l’espressa precisazione che il rispetto di tali criteri pone l’intermediario finanziario concedente il credito nell’esercizio di una facoltà legittima in grado di scriminare sul versante dell’antigiuridicità eventuali reati contestabili. Dall’altro lato, la predisposizione di una soft-law da parte di un ente regolatore (con candidata di eccellenza Banca d’Italia), il cui puntuale rispetto in punto di selezione delle imprese candidate ed erogazione di credito ponga l’operatore dell’intermediario finanziario in una condizione di trasparenza tale da elidere ogni elemento psicologico colposo. Un provvedimento diverso, dunque, rispetto alla raccomandazione formulata da Banca d’Italia il 10 aprile scorso, nell’ambito della quale si stimolano gli intermediari finanziari all’estensione su base volontaria delle misure di sostegno alle imprese in difficoltà, anche di quelle formalmente escluse dai criteri stabiliti dal decreto legge: ciò, tuttavia, lasciando gli intermediari privi di qualsiasi best practice verso cui orientare la propria condotta.
Ad ogni modo, un aspetto è certo. È onere degli intermediari finanziari porsi da subito in una condizione logistica tale da assicurare la massima diligenza e perizia nella selezione delle imprese finanziabili, con procedure intersecanti l’acquisizione di documentazione rilevante (si pensi al progetto di bilancio 2019), eventuali autocertificazioni (si pensi a quelle circa il requisito di continuità aziendale ed il periodo di sua sussistenza o interruzione) e attestazioni esterne (non solo quelle degli organi di controllo, ma altresì quelle eventualmente provenienti da professionisti terzi). Allo stesso modo, tuttavia, è onere dello Stato porre gli intermediari finanziari nella possibilità di esercitare la propria diligenza in modo certo ed esente da rischi. In questa eventualità, il risvolto penale verrebbe a confinarsi nella sua naturale sede di extrema ratio, nel caso di specie rappresentata dalla collusione dolosa tra imprenditore in mala fede e intermediario finanziario compiacente.