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Green claim e greenwashing al vaglio della giurisprudenza

2 Febbraio 2022

Michele Massironi, Partner, La Scala Società Tra Avvocati

Di cosa si parla in questo articolo

Sommario: 1. Green claim e greenwashing; 2. Il greenwashing in Italia: i precedenti autodisciplinari; 3. La prima sentenza; 4. Il caso francese: il disegno di legge “Climat et Résilience” e la giurisprudenza rilevante

 

1. Green claim e greenwashing

La tutela e la salvaguardia dell’ambiente e dell’atmosfera sono diventati, nell’ultimo decennio, alcuni tra i temi più ricorrenti all’ordine del giorno dell’agenda politica internazionale. I risultati di questo afflato eco-sostenibile si possono infatti rinvenire nei più recenti esempi di programmazione a lungo termine promossi dai maggiori enti sovranazionali quali, ad esempio, l’Accordo di Parigi del 12 dicembre 2015[1], la presentazione del Green Deal europeo dell’11 dicembre 2019[2] e il Glasgow Climate Pact del 13 novembre 2021[3], volti alla riduzione delle emissioni, all’implementazione delle economie circolari e, in generale, alla minimizzazione dell’impatto negativo delle economie sull’ambiente.

In un contesto politico, sociale e imprenditoriale sempre maggiormente votato alle tematiche della sostenibilità, le imprese hanno ben compreso che il tema della sostenibilità ambientale potesse diventare un efficacissimo strumento promozionale su cui poter basare le proprie campagne pubblicitarie e di marketing, i c.d. green claim. Tuttavia, quando gli stessi green claim non trovano riscontro nelle caratteristiche dei beni e/o servizi venduti si ricade evidentemente in una pratica illecita: si enfatizza il carattere eco-sostenibile di un prodotto che ne risulta sprovvisto o la cui sussistenza non possa essere debitamente dimostrata. Ciò si verifica, a titolo esemplificativo, quando il messaggio pubblicitario contenga false informazioni, quando il suo tenore induca a ritenere che il prodotto pubblicizzato sia più sostenibile o comunque meno dannoso per l’ambiente rispetto a prodotti concorrenti e, ancora, quando non vi siano sufficienti evidenze scientifiche a riguardo ovvero il messaggio sia troppo vago o generico. La pratica è comunemente definita con il termine greenwashing[4].

La portata pregiudizievole di un siffatto fenomeno era stata preannunciata da uno studio della Commissione Europea del 2014[5] nel quale si rilevava che, nel territorio comunitario, il 76% dei prodotti commercializzati era corredato da un green claim (sia con riferimento al prodotto in se stesso che al suo imballaggio), che oltre il 60% del campione intervistato preferiva acquistare prodotti che ritenevano eco-sostenibili e che, tuttavia, il 61% non sapeva come distinguere effettivamente quali di questi prodotti fossero effettivamente eco-sostenibili. Già in quella sede si giunse alla conclusione che una parte preponderante dei green claim analizzati era sprovvista di precisione e chiarezza, addirittura notando che alcuni di essi contenevano informazioni false a tutti gli effetti.

2. Il greenwashing in Italia: i precedenti autodisciplinari

Nel contesto nazionale, il fenomeno del greenwashing è stato affrontato innanzitutto dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP). La fattispecie fu infatti oggetto di tipizzazione in occasione dell’elaborazione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale adottato circa un anno fa (di seguito, il “Codice”)[6] e oggetto di numerose pronunce dei due organi “giurisdizionali” dell’Istituto, anche anteriormente alla sua tipizzazione[7].

Procedendo all’analisi della giurisprudenza autodisciplinare si può notare che le ipotesi di greenwashing si configurano al ricorrere di determinate caratteristiche del messaggio ben individuabili.

La genericità del green claim, innanzitutto, rappresentata dalla circostanza che i messaggi pubblicitari contengano riferimenti a vanti ambientali totalmente sprovvisti di evidenze a supporto, non consentendo al destinatario di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto/servizio pubblicizzato corrisponda il beneficio ambientale genericamente richiamato. Di regola, sono preordinati a fare presa sul pubblico per il tramite di frasi, locuzioni e perifrasi oramai divenute di uso comune che tuttavia non sono per nulla in grado di qualificare ed identificare il grado di sostenibilità sotteso al prodotto/servizio pubblicizzato. Sul punto, una recente ingiunzione del Comitato di Controllo dello IAP ha così statuito: “il messaggio … nel presentare i prodotti a marchio «Freshly Cosmetics» vanta, tra le altre cose, la sostenibilità dei prodotti «naturale, vegan, sostenibile…» senza fornire alcuna indicazione a sostegno di tale assoluta promessa di ecologicità. Ad avviso del Comitato di Controllo, l’affermazione «sostenibile» non risulta in linea con quanto richiesto all’art. 12 del Codice, poiché il messaggio non permette in alcun modo di comprendere con chiarezza per quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata si ottenga il beneficio ambientale vantato in termini perentori, il quale resta quindi del tutto generico, e come tale non ammissibile[8].

In secondo luogo, l’opacità del messaggio tale da celare la reale attitudine all’ecosostenibilità del prodotto/servizio, inducendo in errore il potenziale acquirente sulle sue reali caratteristiche. Pertanto, sono da considerare censurabili per la loro opacità tutti i green claim relativi a prodotti o ad attività produttive capaci di ingenerare la convinzione che questi siano ad impatto zero nonostante la loro oggettiva impossibilità ad esserlo o, ancora, qualora la documentazione scientifica di supporto prodotta sia insufficiente o comunque non univoca allo scopo di dimostrare la veridicità e la fondatezza del vanto ambientale. Anche questa eventualità è stata oggetto di una pronuncia di ingiunzione da parte del Comitato del Controllo, il quale ha ritenuto che “i claim «gas a zero emissioni» e «luce e gas a impatto nullo» accreditano … l’erroneo convincimento che la combustione del gas al domicilio non produca emissioni e che l’azienda in questione abbia messo in funzione comportamenti virtuosi capaci già di garantire in assoluto i perentori risultati vantati, laddove invece un’attività produttiva senza alcun impatto sull’ambiente non è di fatto concretizzabile, se non in termini di compensazione. Ma a tal proposito il messaggio non permettere di comprendere con chiarezza, come peraltro richiesto dall’art. 12 del Codice, attraverso quale aspetto dell’attività produttiva si ottengono i benefici ambientali vantati[9].

Infine, il mancato assolvimento dell’onere probatorio addossato all’utilizzatore del messaggio pubblicitario in virtù dell’art. 6 del Codice ed avente ad oggetto la dimostrazione della veridicità e della fondatezza del vanto ambientale veicolato dal green claim. A sostegno della sussistenza di tale onere, si può far riferimento ad una pronuncia del Giurì, nella quale si ricorda che “…sarebbe stato onere di Olive s.r.l. [ndr. la resistente], così come giustamente sottolineato dal Comitato di Controllo, dimostrare, ai sensi dell’art. 6 del Codice, la veridicità dei dati, nonché delle descrizioni e illustrazioni, presentati nella propria comunicazione. Ciò, a maggior ragione, in quanto la pubblicità in esame è interamente basata sul messaggio ecologico, che, ai sensi dell’art. 12 del Codice, deve essere valutato con particolare rigore, per ciò che riguarda la sua veridicità e verificabilità. E ciò proprio per l’importanza che dev’essere attribuita ai valori della tutela dell’ambiente, che impone di prendere in massima serietà i messaggi «ecologici» contenuti nelle campagne pubblicitarie, affinché essi non divengano mere formule di stile, e siano invece impiegati solo per fornire ai consumatori informazioni rilevanti e scientificamente verificate… Il Giurì ritiene pertanto che l’accusa di violazione degli artt. 2 e 12 del Codice sia stata adeguatamente provata. Così pure, si può condividere l’asserzione secondo cui lo spot televisivo, nella misura in cui presenta come grande novità dei pannolini Nappynat una serie di presunte qualità degli stessi (fra cui, in particolare, gli effetti antiirritanti e antibatterici), implicitamente attribuisce qualità negative agli altri pannolini in commercio[10].

La pronuncia appena richiamata riveste un’importanza considerevole anche con riguardo all’impatto negativo che può avere un messaggio pubblicitario all’interno del gioco della concorrenza tra imprese. L’impresa ricorrente, che al tempo stesso era una concorrente della resistente, contestava la liceità di una campagna pubblicitaria incentrata sulla qualità ecologica dei prodotti commercializzati in quanto ingannevole.

3. La prima sentenza

A seguito della progressiva presa di coscienza da parte dell’organo di autodisciplina pubblicitaria, era dunque ragionevole attendersi che sul fenomeno cominciassero ad intervenire le prime pronunce della giurisprudenza di merito. In Italia, è il Tribunale di Gorizia, con l’ordinanza cautelare emessa il 25 novembre 2021 all’esito di un ricorso ex artt. 669-bis e ss. e 700 c.p.c., ad essere il primo foro ad aver avuto l’opportunità di esprimersi sul fenomeno del greenwashing[11].

Il procedimento cautelare era stato avviato da una società operante nel settore dei rivestimenti per automobili che si era vista danneggiata da un’impresa concorrente, la quale attribuiva ai propri tessuti pregi ambientali generici, fuorvianti e non dimostrabili. La ricorrente, dunque, chiedeva, in via cautelare, tra l’altro, l’emissione di un ordine di inibitoria volto a far cessare tale illegittima condotta, che rischiava di pregiudicare la quota di mercato acquisita dalla ricorrente medesima.

Il Tribunale di Gorizia, all’esito del procedimento, ritiene fondate le doglianze della ricorrente e concede l’inibitoria richiesta, rilevando che i messaggi pubblicitari utilizzati dalla società resistente contenevano rimandi a vantaggi ambientali che non erano verificabili o erano del tutto generici ed idonei a confondere i possibili destinatari ed evidenziando altresì che gli effetti negativi di una simile condotta si estrinsecavano verso due direttrici: da una parte, verso i consumatori finali, i quali, seppure indirettamente, potevano essere indotti ad acquistare beni/servizi che apparivano essere eco-friendly, ma che probabilmente non lo erano, poiché i produttori di autoveicoli avrebbero potuto riutilizzare nei confronti del pubblico i green claim adoperati dalla resistente che era parte della loro supply chain e, dall’altra, nei confronti delle altre imprese, in quanto l’adozione di tali messaggi pubblicitari illegittimi avrebbe consentito un vantaggio competitivo a favore dell’impresa utilizzatrice e dunque realizzava una fattispecie di concorrenza sleale.

Dal tenore della pronuncia, appare verosimile che il Tribunale, pur senza esplicitarlo direttamente nella motivazione del provvedimento, abbia considerato prevalente la seconda direttrice, ritenendo evidentemente che l’impresa resistente avesse posto in essere una condotta di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c.. Tale conclusione sembra peraltro rafforzata dalla inibitoria alla diffusione dei messaggi pubblicitari oggetto di causa disposta dal giudicante, in quanto ritenuti idonei a pregiudicare irreparabilmente la quota di mercato acquisita dalla società ricorrente.

In essa, è altresì rinvenibile un’interessante ricognizione del quadro normativo ad oggi esistente in riferimento ai messaggi pubblicitari relativi all’asserita sostenibilità di un prodotto.

Secondo il Tribunale, il greenwashing si inserisce senz’altro nel più ampio genus della pubblicità ingannevole ma la sentenza fa anche ampio richiamo di alcune disposizioni del Codice e della giurisprudenza autodisciplinare, dalla quale mutua il principio in virtù del quale le comunicazioni pubblicitarie che enfatizzano la dimensione eco-sostenibile di un prodotto/servizio non possono essere generiche. Infatti, seppur siano presenti elementi documentali a supporto, i green claim devono consentire al consumatore di distinguere precisamente a quali aspetti del prodotto/servizio corrispondano i benefici che vengono reclamizzati. Ciò in quanto, allo stato attuale, la consapevolezza e le istanze ambientali hanno acquisito una presa tale sulla società da poter influenzare in maniera determinante i comportamenti di acquisto dei consumatori e, non secondariamente, la reputazione di un’impresa che si qualifichi come eco-friendly.

In particolare, il Tribunale ha censurato l’utilizzo di locuzioni come “scelta naturale, amica dell’ambiente, la prima e unica microfibra che garantisce eco-sostenibilità durante tutto il ciclo produttivo, microfibra ecologica” per la loro genericità e per la loro capacità di prefigurare nel potenziale consumatore l’immagine ecosostenibile di un prodotto senza “dar conto effettivamente di quali siano le politiche aziendali che consentono un maggior rispetto dell’ambiente e riducano fattivamente l’impatto che la produzione e commercializzazione di un tessuto di derivazione petrolifera possano determinare in senso positivo sull’ambiente e sul suo rispetto”.

A sostegno della indispensabile specificità che deve connotare il contenuto di un green claim vi è, infine, la considerazione che altrimenti non sarebbe rispettata l’esigenza di effettiva tutela dell’ambiente se i vanti ambientali contenuti nei messaggi pubblicitari diventassero frasi di uso comune e non corrispondessero esattamente a una determinata qualità del prodotto/servizio pubblicizzato.

4. Il caso francese: il disegno di legge “Climat et Résilience” e la giurisprudenza rilevante

Pare utile infine richiamare l’esperienza francese, in considerazione della recente adozione del disegno di legge “Climat et Résilience” da parte dell’Assemblea nazionale in data 4 maggio 2021; esso infatti ha recepito le istanze provenienti dalla classe imprenditoriale transalpina in relazione all’esatta identificazione e delimitazione dell’ambito di liceità dei green claim (le “communication verte”), avuto riguardo alla loro progressiva diffusione ed utilizzazione nella comunicazione commerciale[12].

Uno dei tratti salienti del citato disegno di legge risiede certamente nella modifica apportata all’art. 121-2 del codice del consumo dedicato all’elencazione delle fattispecie al ricorrere delle quali viene configurata una pratica commerciale scorretta, con l’introduzione dell’espresso riferimento alla protezione ambientale. Con tale novella legislativa, pertanto, si presumerà scorretta la comunicazione commerciale che si basi su considerazioni, indicazioni o messaggi pubblicitari falsi o tali da indurre in errore un consumatore in considerazione all’impatto ambientale del bene o servizio reclamizzato o, ancora, relativamente al tenore degli impegni ambientali asseritamente assunti mediante il tenore del messaggio pubblicitario[13].

Il disvalore attribuito alle pratiche di greenwashing (o, nella sua versione francese, anche “écoblanchiment”) dal legislatore francese è, altresì, testimoniato dalla modifica dell’art. 132-2 del codice del consumo relativo all’enucleazione delle sanzioni irrogabili a coloro che fanno uso di pratiche commerciali scorrette. Così facendo, qualora il messaggio ingannevole integri la fattispecie di écoblanchiment, fatte salve le sanzioni previste per le pratiche commerciali scorrette ordinarie[14], la pena pecuniaria potrà essere aumentata fino all’80% delle spese sostenute per la realizzazione di detta pratica e in misura proporzionale ai vantaggi ricavati dall’illecito. In aggiunta, è previsto ulteriormente che al provvedimento emesso per comminare la sanzione venga data debita pubblicità mediante la sua affissione o riproduzione su un quotidiano a tiratura nazionale e sulle relative versioni digitali, fermo restando l’obbligo impartito alla persona giuridica condannata di diffonderlo sul suo sito internet per un periodo di almeno 30 giorni[15].

Sul tema, meritano di essere menzionate due pronunce che dimostrano come la giurisprudenza francese si sia attivata già da tempo.

La Corte di Cassazione, sezione penale, si è trovata, più di un decennio fa, a dirimere il caso di una società produttrice di prodotti chimici che aveva commercializzato un diserbante, il cui imballaggio era corredato di generiche diciture relative alla tutela e alla salvaguardia dell’ambiente in ragione della sua asserita biodegradabilità. La Corte osservava che la società produttrice, nell’attribuirsi il predetto vanto ambientale, faceva un utilizzo opaco di uno studio scientifico che attestava la celerità nella degradabilità della sostanza principale del prodotto, senza considerare che altre sostanze in esso contenute ne causavano un significativo rallentamento. In sostanza, la Corte riteneva fuorviante l’opacità di un simile messaggio nella misura in cui avrebbe potuto “laisser croire à une dégradation miraculeuse du produit dans un délai très rapide”. D’altro canto, si riteneva ingannevole il messaggio anche nella misura in cui avrebbe potuto, potenzialmente, generare nei consumatori un abbassamento della soglia di attenzione e precauzione necessariamente richiesta nell’utilizzo di un prodotto con quelle caratteristiche intrinseche, in ragione della sua asserita compatibilità ambientale[16].

La Corte d’appello di Versailles, invece, più di recente, è intervenuta in una vicenda che vedeva fronteggiarsi due società produttrici di caffè; la ricorrente lamentava l’illegittimità del messaggio pubblicitario della resistente nella misura in cui esso comparava – esaltandolo – il gusto del proprio prodotto rispetto a quello del concorrente sulla base del fatto che dal suo utilizzo non conseguisse la produzione di rifiuti. La Corte accertava l’illiceità e il carattere denigratorio della pratica commerciale in ragione della comparazione illegittima che aveva determinato tra i due prodotti; tuttavia, rinveniva un elemento aggravante nella circostanza che la comparazione si fosse fondata sull’esaltazione di un vanto ambientale[17].

 

[1] Accordo di Parigi, 12 dicembre 2015, siglato dagli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC).

[2] Green Deal, presentato l’11 dicembre 2019, pacchetto di iniziative proposte dalla Commissione Europea con l’obiettivo generale di raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050.

[3] Glasgow Climate Pack, 13 novembre 2021, Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021 (COP26).

[4] Una definizione di green claim e greenwashing è rinvenibile nel working paper denominato “Orientamenti per l’attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali” pubblicato dalla Commissione Europea il 25 maggio 2016: “Le espressioni «asserzione ambientale» e «dichiarazione ecologica» si riferiscono alla pratica di suggerire o in altro modo dare l’impressione (nell’ambito di una comunicazione commerciale, del marketing o della pubblicità) che un prodotto o un servizio abbia un impatto positivo o sia privo di impatto sull’ambiente o sia meno dannoso per l’ambiente rispetto a prodotti o servizi concorrenti. Ciò può essere dovuto alla sua composizione, al modo in cui è fabbricato o prodotto, al modo in cui può essere smaltito o alla riduzione del consumo di energia o dell’inquinamento attesa dal suo impiego. Quando tali asserzioni non sono veritiere o non possono essere verificate, la pratica è di frequente definita «greenwashing», ovvero appropriazione indebita di virtù ambientaliste finalizzata alla creazione di un’immagine «verde». Il «greenwashing» può riguardare tutte le forme di pratiche commerciali delle imprese nei confronti dei consumatori concernenti gli attributi ambientali dei prodotti o servizi. A seconda delle circostanze, tale pratica può comprendere tutti i tipi di affermazioni, informazioni, simboli, loghi, elementi grafici e marchi, nonché la loro interazione con i colori, impiegati sull’imballaggio, sull’etichetta, nella pubblicità, su tutti i media (compresi i siti Internet), da qualsiasi organizzazione che si qualifichi come «professionista» e ponga in essere pratiche commerciali nei confronti dei consumatori”.

[5] Consumer market study on environmental claims for non-food products, Commissione Europea, luglio 2014. Il quale individuava il potenziale espansivo dei prodotti eco-sostenibili nei seguenti termini: “Green products have the advantage of combining societal benefits of reduced environmental damage with higher satisfaction of consumers. There can be also relevant economic benefits for consumers, notably through more efficient use of resources, energy savings or a longer lifetime of products”.

[6] Il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale elaborato dallo IAP “è vincolante per aziende che investono in comunicazione, agenzie, consulenti, mezzi di diffusione, concessionarie e per tutti coloro che lo abbiano accettato tramite la propria associazione, o mediante la conclusione di un contratto di inserzione pubblicitaria.

Gli organismi aderenti, infatti, si impegnano a inserire nei propri contratti, o in quelli dei propri associati, una speciale clausola di accettazione del Codice e delle decisioni autodisciplinari. Quindi la larga generalità della comunicazione commerciale italiana è tenuta a rispettarli” (si veda www.iap.it/conoscere-iap/finalita-e-funzioni/).

Il regime di favore accordato agli organismi autonomi di autodisciplina in tema di pubblicità ingannevole era già emerso in ambito comunitario dai considerando della direttiva del Consiglio 84/450/CEE del 10 settembre 1984, nei quali si leggeva che i “controlli volontari esercitati da organismi autonomi per eliminare la pubblicità ingannevole possono evitare azioni giudiziarie o ricorsi amministrativi e devono quindi essere incoraggiati” e veniva ribadito – con specifico riferimento ai codici di condotta – nella direttiva 2005/29/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005, secondo la quale: “è opportuno prevedere un ruolo per i codici di condotta che consenta ai professionisti di applicare in modo efficace i principi della presente direttiva in specifici settori economici. Nei settori in cui vi siano obblighi tassativi specifici che disciplinano il comportamento dei professionisti, è opportuno che questi forniscano altresì prove riguardo agli obblighi di diligenza professionale in tale settore”.

[7] Gli organi “giurisdizionali” dello IAP sono, da una parte, il Comitato di Controllo, il quale ha il compito di esaminare la conformità dei messaggi pubblicitari al Codice agendo sia d’ufficio sia su istanza di parte, emettendo una c.d. ingiunzione di desistenza nel caso in cui il messaggio pubblicitario sia manifestamente contrario al Codice; dall’altra, il Giurì, il quale può essere attivato esclusivamente su istanza di parte o su rinvio del Comitato di Controllo ed ha la facoltà di ordinare la cessazione della diffusione del messaggio pubblicitario.

[8] Ingiunzione n. 50/21 del 2 dicembre 2021, nei confronti di Freshly Cosmetics S.l.; in senso conforme, ingiunzione n. 46/21 del 12 novembre 2021, nei confronti di Anticimex S.r.l., La7 S.p.a., CairoRCS Media S.p.a., secondo la quale “ad avviso del Comitato, tale affermazione «100% green» non risulta in linea con quanto richiesto all’art. 12 del Codice, poiché il messaggio non permettere di comprendere con chiarezza attraverso quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata si ottenga il beneficio ambientale vantato in termini così assoluti e perentori, che resta pertanto del tutto generico”.

[9] Ingiunzione n. 9/21 del 24 febbraio 2021, nei confronti di Bluenergy Group S.p.a.; in senso conforme, ingiunzione n. 30/15 dell’11 maggio 2015, nei confronti di Kemeco S.r.l., per la quale “le pagine del sito internet presentano i prodotti facendo essenzialmente leva sul loro essere «biologici» … Ad avviso del Comitato di Controllo, i vanti pubblicitari non sono tuttavia sufficientemente supportati dalla documentazione chiesta ed ottenuta in più riprese dall’inserzionista. In particolare, la promessa di «biologicità» attribuisce suggestivamente ai prodotti plus di natura ecologica, di rispetto dell’ambiente e della salute, ma non consente di comprendere chiaramente a quale aspetto dei prodotti tali benefici si riferiscano. Inoltre non sono stati forniti dati conclusivi, pertinenti e scientificamente verificabili a supporto di tale promessa, come richiesto dall’art. 12 del Codice. Infatti, come indicato nella relazione sulla sicurezza, il prodotto non contiene alcun ingrediente biologico e nessun ingrediente di origine naturale. Il vanto di ecologicità sarebbe, invece, da attribuire unicamente alla presenza di un componente, che in base alla sua particolare proprietà lavante, sarebbe in grado di ridurre la quantità di prodotto da utilizzare con conseguente riduzione dell’impatto ambientale in termini di sostanze immesse nelle acque. Tale spiegazione, tuttavia, è molto distante dal concetto di biologicità che invece fa riferimento alla inequivocabile presenza di sostanze provenienti da agricoltura biologica”.

[10] Pronuncia n. 69/2016 del Giurì; in senso conforme si veda l’ingiunzione n. 14/17 del 6 marzo 2017, nei confronti di Farmen International, per la quale, da una parte, “il mancato assolvimento dell’onere probatorio crea una lacuna che si riflette negativamente sulla valutazione di liceità del messaggio in ordine alle affermazioni in esso contenute e determina necessariamente una presunzione di ingannevolezza delle stesse”, e, dall’altra, precisa che “il claim «la prima colorazione con etichetta ambientale, buona con te, buona con l’ambiente», che si fonda su uno studio LCA su due creme coloranti, contravviene alla ratio e al disposto dell’art. 12 del Codice, che vieta il ricorso a claim generici, richiedendo che la comunicazione commerciale nel prospettare un beneficio ambientale debba «consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono». Ciò in ragione del fatto che la sensibilità verso i problemi ambientali è oggi molto elevata e le virtù ecologiche decantate da una impresa o da un prodotto influenzare le scelte di acquisto del consumatore medio. Ne consegue che non è conforme ad un’esigenza di effettiva tutela dell’ambiente che i vanti ambientali divengano frasi di uso comune, privo di concreto significato ai fini della caratterizzazione e della differenziazione dei prodotti”.

[11] Trib. Gorizia, ord. 25 novembre 2021.

[12] Si veda in particolare la dichiarazione di intenti presente nell’ art. 1 della legge: “En cohérence avec l’accord de Paris adopté le 12 décembre 2015 et ratifié le 5 octobre 2016, et dans le cadre du Pacte vert pour l’Europe, l’Etat rappelle son engagement à respecter les objectifs de réduction des émissions de gaz à effet de serre, tels qu’ils résulteront notamment de la révision prochaine du règlement (UE) 2018/842 du Parlement européen et du Conseil du 30 mai 2018 relatif aux réductions annuelles contraignantes des émissions de gaz à effet de serre par les Etats membres de 2021 à 2030 contribuant à l’action pour le climat, afin de respecter les engagements pris dans le cadre de l’accord de Paris et modifiant le règlement (UE) n° 525/2013.

[13] Art. 121-2, codice del consumo: “Une pratique commerciale est trompeuse si elle est commise dans l’une des circostances suivantes :

1°…

2° Lorsqu’elle repose sur des allégations, indications ou présentations fausses ou de nature à induire en erreur et portant sur l’un ou plusieurs des éléments suivants :

  1. a) …
  2. b) Les caractéristique essentielles du bien ou du service, à savoir : ses qualités substantielles, sa composition, ses accessoires, son origine, sa quantité, son mode et sa date de fabrication, les conditions de son utilisation, son impact environnemental et son aptitude à l’usage, ses propriétés et les résultats attendus de son utilisation, ainsi que les résultats et les principales caractéristiques des tests et contrôles effectués sur le bien ou le service ;

c)…

d)…

  1. e) La portée des engagements de l’annonceur, notamment en matière d’impact environnemental du bien ou du service, la nature, le procédé ou le motif de la vente ou de la prestation de services ;

”.

[14] Segnatamente, rappresentate dalla reclusione fino a due anni e da un’ammenda fino a € 300.000,00.

[15] Art. 132-2, codice del consumo: “Les pratiques commerciales trompeuses mentionnées aux articles L. 121-2 à L. 121-4 sont punies d’un emprisonnement de deux ans et d’une amende de 300.000 euros.

Le montant de l’amende peut être porté, de manière proportionnée aux avantages tirés du délit, à 10% du chiffre d’affaires moyen annuel, calculé sur les trois derniers chiffres d’affaires annuel connus à la date des faits, ou à 50% des dépenses engagées pour la réalisation de la publicité ou de la pratique constituant ce délit.

Lorsque la pratique commerciale trompeuse consiste à laisser entendre ou à donner l’impression qu’un bien ou un service a un effet positif ou n’a pas d’incidence sur l’environnement ou qu’il est moins néfaste pour l’environnement que les biens ou services concurrents, le montant de l’amende peut être porté, de manière proportionnée aux avantages tirés du délit, à 80 % des dépenses engagées pour la réalisation de la publicité ou de la pratique constituant ce délit. La sanction prononcée fait en outre l’objet d’un affichage ou d’une diffusion soit par la presse écrite, soit par tout moyen de communication au public par voie électronique. La sanction fait également l’objet d’une diffusion sur le site internet de la personne morale condamnée, pendant une durée de trente jours”.

[16] Cour de cassation, criminelle, Chambre criminelle, 6 octobre 2009, 08-87.757: “cette présentation élude le danger potentiel du produit par l’emploi de mots rassurants et induit le consommateur en erreur en diminuant le souci de précaution et de prévention qui devraient normalement l’inciter à une consommation prudente ; qu’enfin la question de la biodégradabilité doit aussi être abordée, bien qu’elle ne soit qu’indirectement visée dans la citation concernant les emballages par l’expression « alors que le produit n’est biodégradable qu’à long terme » ; qu’il peut en effet être constaté que le terme « biodégradable » figure en gros caractère sur plusieurs boîtes ; qu’il est hors de propos de trancher la controverse scientifique sur le temps exact de biodégradation du Roundup ; qu’il faut néanmoins relever que la société Monsanto fait une présentation trompeuse sur ce point, en utilisant les résultats d’études sur le temps de dégradation du glyphosate alors qu’il est établi que le Roundup est constitué de glyphosate et d’un tensio-actif et qu’il se dégrade plus lentement que le glyphosate seul ; que de surcroît, un sous-produit de dégradation du glyphosate, l’AMPA, se dégrade lui-même plus lentement, ce que le témoin cité à la barre de la cour a confirmé ; que l’aspect le plus trompeur dans l’emploi du terme biodégradable est qu’il complète le message relatif à la préservation de l’environnement ; qu’il est cité juste après l’immobilisation et l’inactivation au sol, lesquelles sont qualifiées sur l’emballage d’immédiate ; qu’une confusion s’opère inévitablement entre ces propriétés pouvant laisser croire à une dégradation miraculeuse du produit dans un délai très rapide ; que d’ailleurs la mention du sol propre permettant de nouvelles semailles contribue à brouiller le message dans le même sens”.

[17] Cour d’appel de Versailles, 13ème chambre, 19 septembre 2013, n° 12/07604 : “La circonstance qu’une publicité puisse comporter une allégation environnementale comparative et qu’un annonceur puisse formuler une allégation environnementale relative à la gestion des déchets comme la volonté alléguée de la société Bodum de mettre en évidence un message de sensibilisation des consommateurs à l’environnement et à l’enjeu écologique lié à la diminution des déchets ne fait pas échapper la publicité litigieuse à l’obligation d’être objective dans la comparaison présentée.

Or, la publicité litigieuse ne repose pas sur une comparaison objective portant sur une caractéristique essentielle et vérifiable de la manière de faire du café, d’un côté les cafetières à capsules qui généreraient des déchets et de l’autre, des cafetières à piston qui n’en produiraient pas, puisqu’elle compare des éléments non comparables, d’un côté pour le concurrent de la société Bodum, la production de déchets et l’atteinte environnementale sous-entendue, pour l’appelante le goût du café produit”.

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