Il presente contributo contiene personali riflessioni di commento frutto dell’interesse scientifico, dell’Autore, per la materia. Ogni opinione è, dunque, espressa, dall’Autore, esclusivamente a titolo personale.
Lo scorso 26 giugno è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Legge n. 83 del 22 giugno 2012 (il “Decreto”) all’interno del quale il Consiglio dei Ministri ha riunito (le ennesime) “misure urgenti per la crescita del Paese”, proseguendo, così, l’opera di ammodernamento-razionalizzazione del nostro tessuto normativo in funzione del risanamento dei conti pubblici e del rilancio dell’economia nazionale: come si può agevolmente intuire, il Decreto si segnala per il suo carattere “politematico”.
Non rientra, però, nell’economia del presente contributo passare in rassegna l’intero articolato: in questa breve nota mi propongo, piuttosto e più semplicemente, di raccogliere, senza pretesa di esaustività, qualche personale appunto di commento relativamente ad una, in particolare, delle innovazioni disciplinari, vale a dire la modifica dell’art. 2412, c.c. e, più precisamente, la “correzione” del suo quinto comma disposta dal capoverso di chiusura dell’art. 32 del Decreto.
1. La situazione di partenza
Partirei con una puntualizzazione: per quanto nella rubrica del Capo II (Titolo III) del Decreto si discorra di “nuovi” strumenti di finanziamento, l’art. 32, che di quel Capo ne esaurisce il contenuto, non introduce nel nostro ordinamento “nuove” forme di finanziamento ma ridisegna il regime giuridico ed il trattamento fiscale di alcune tra quelle già esistenti, vale a dire cambiali finanziarie e obbligazioni (postergate, partecipative e quotate o quotande).
Tanto premesso, il nuovo comma 5 dell’art. 2412, c.c. (come, appunto, riformulato dall’art. 32 del Decreto) così recita: “I commi primo e secondo non si applicano alle emissioni di obbligazioni destinate ad essere quotate in mercati regolamentati o in sistemi multilaterali di negoziazione ovvero di obbligazioni che danno il diritto di acquisire ovvero di sottoscrivere azioni”.
Scompare, pertanto, ogni riferimento al soggetto – la società quotata – che può emettere queste obbligazioni per le quali “non si applicano” i primi due commi dell’art. 2412.
Prima, però, di illustrare il senso di questo ritocco e le conseguenze pratiche che ne potrebbero discendere, vale la pena che premetta brevi cenni sulla “situazione di fatto” che il legislatore del Decreto ha inteso correggere.
Il capoverso di apertura dell’art. 2412, c.c., stabilisce una soglia massima entro la quale una società può emettere obbligazioni e, cioè: il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili (il “Limite Dimensionale”).
Il comma 5 del medesimo articolo, prima di essere rettificato dal Decreto, consentiva di superare o, per meglio dire, di “non applicare” il Limite Dimensionale nel caso di prestiti obbligazionari:
- emessi da società con azioni quotate in mercati regolamentati e, contestualmente,
- destinati alla quotazione in un mercato regolamentato: il medesimo di quotazione della società ovvero anche uno diverso.
Il quinto comma dell’art. 2412, c.c., codificava (e continua a codificare) un regime “in deroga” e – aggiungo – “di favore” (il Regime in Deroga) che, come abbiamo appena visto, prima del Decreto, era riservato alle società quotate.
Veniamo, quindi, ai motivi che chiariscono la scelta, fatta propria dal legislatore del Decreto, di elidere questo requisito “soggettivo”: l’opzione legislativa si spiega considerando che l’accesso al mercato dei capitali – mi verrebbe da dire “tradizionalmente” – è retto da regole che sotto svariati aspetti (principalmente, tributari) penalizzano l’operatività delle imprese non quotate e, pertanto, l’impossibilità (giuridica) per queste imprese di avvantaggiarsi del Regime in Deroga non ha fatto altro che acuire, per anni, la disparità tra società quotate e non quotate.
È, appunto, il divario competitivo tra imprese quotate e non quotate che il legislatore del Decreto ha voluto colmare o, quanto meno, “assottigliare” permettendo, anche alle imprese non quotate, di servirsi del Regime in Deroga (per completezza, devo tuttavia ricordare che il Decreto valorizza questo obiettivo in una serie di altre disposizioni che, però, non sono, in questa sede, oggetto di esame).
2. I meriti della nuova disciplina
La ratio del Regime in Deroga (così illustrata nella Relazione che ha accompagnato l’entrata in vigore dello “storico” d.lgs. n. 6/2003) risiede nel fatto di essere, la quotazione, uno strumento che consente (su base continuativa) il “controllo del mercato” innalzando, almeno in potenza, il livello di trasparenza tanto delle società ammesse alla quotazione quanto delle singole operazioni compiute sui mercati regolamentati: per questa via, se oltre alla società anche il prestito è quotato (o destinato alla quotazione), il pubblico degli investitori è (o, per meglio dire, si presume sia) nelle condizioni di stimare, in maniera completamente informata, la qualità dell’investimento che si accinge a perfezionare, sottoscrivendo titoli (mercato primario) ovvero successivamente acquistandoli (mercato secondario).
La modifica introdotta dal Decreto, già sotto questo profilo, va salutata con favore: ed, invero, se già il prestito è quotato, ritengo – se devo ragionare in concreto e non per astratte presunzioni – che la quotazione anche della società (delle sue azioni) non è un fatto che, almeno di per se stesso, aggiunge “elementi di tutela” di tale, decisiva, importanza da motivare una deroga al Limite Dimensionale e, nel dire questo, prescindo da qualsiasi considerazione in merito dal grado di effettività del c.d. “controllo del mercato” tema sul quale si potrebbe, infatti, aprire un ulteriore dibattito (del resto, già in sede di primo commento alla riforma del 2003, si avanzano autorevoli riserve proprio sulla reale capacità del mercato di compiere un’efficace opera di monitoraggio-controllo e, quindi, in definitiva, anche di auto-regolarsi).
A favore della scelta operata dal legislatore del Decreto militano, poi, anche ragioni di tipo operativo o, se si preferisce, valutazioni di opportunità pratica: credo, infatti, che si possa affermare – o almeno fondato motivo per sperare – che le aperture contenute nel Decreto potranno servire a dare nuovo impulso al mercato del “credito diffuso” (mi sia consentito definirlo tale) stimolandone, in particolare, l’accesso da parte, soprattutto, di quelle imprese – appunto, le non quotate – che, fino ad oggi, sono rimaste ai margini di questo mercato o comunque hanno stentato a farvi ingresso (penso, a titolo meramente evocativo, alle piattaforme degli Eurobond).
Più sfumati, ma non per questo da tralasciare, mi paiono invece i “benefici” sul piano interpretativo e, quindi, della certezza delle norme che stiamo commentando: l’enunciato ante-Decreto del quinto comma dell’art. 2412, c.c. lascia(va), infatti, aperti una serie di interrogativi ai quali, attenta dottrina, aveva comunque fornito una riposta: ad esempio, uno dei temi di discussione era quello del delisting della società e, cioè ci si chiedeva (i) se ed a quali condizioni la società che ha emesso un prestito avvalendosi del Regime in Deroga potesse, successivamente, procedere col ritiro dalla quotazione oppure (ii) cosa accadeva se il ritiro dalla quotazione dovesse comunque avvenire: è di prima evidenza che, oggi, grazie alla semplificazione dei requisiti di accesso al Regime in Deroga contenuta nel Decreto, dubbi di questa evidente portata pratica possono, definitivamente, ritenersi non più attuali.
La nuova formulazione del comma 5 dell’art. 2412, c.c., mi offre, poi, lo spunto per riprendere un’altra questione si interpretativa ma dalle palesi ricadute pratiche: prima del Decreto, ci si domandava quale dovesse essere il mercato di riferimento per la quotazione del prestito e cioè, stringendo sul problema, se la società, per beneficiarie del Regime in Deroga, potesse, o meno, quotare il prestito anche in un mercato extra-UE. Il comma 5 dell’art. 2412, c.c., nella sua vecchia stesura, lasciava, invero, aperto l’interrogativo in quanto richiedeva l’essere, il prestito, destinato alla quotazione nello stesso mercato di quotazione delle azioni oppure “in altri” mercati e, cioè, in mercati “diversi” da quello di quotazione “generale” della società senza, però, null’altro specificare.
Questo dubbio – tutt’altro che di mera valenza teorica – era sciolto da alcune autorevoli voci della dottrina che (non a torto) affermavano che il mercato di quotazione del prestito, ancorché “diverso” da quello di quotazione delle azioni, dovesse comunque appartenere alla zona “comunitaria” sul presupposto che i mercati comunitari condividono una base comune di disciplina o, comunque, di principi informatori. L’interpretazione restrittiva (i.e.: mercato “diverso” significa “altro” mercato comunque comunitario) per quanto fondata su ragioni di coerenza interna del sistema si scontra(va), però, con il (vecchio) testo del comma 5 che parlava tout court di “altri” mercati senza, cioè, aggiungere successivi elementi di dettaglio che potessero servire a circoscrivere, come appunto voleva l’interpretazione restrittiva, il campo dei “mercati rilevanti”. Essendo – quello testuale – l’unico motivo che, a mio parere, poteva impedire l’adesione, senza riserve, all’interpretazione restrittiva, oggi, che quell’elemento è stato eliminato, credo meriti definitiva convalida la conclusione – restrittiva – secondo cui il mercato rilevante ai fini della quotazione del prestito e, dunque, dell’accesso al Regime in Deroga, deve essere un mercato comunitario.
Sempre rimanendo sul terreno dell’interpretazione delle norme ma, stavolta, guardando in avanti ed in particolare a quanto resta da fare per perfezionare, almeno sul piano della certezza, questa parte del nostro diritto, la decisione di rivedere l’art. 2412, c.c., poteva forse offrire l’occasione per sciogliere altri dubbi che, a differenza di quelli appena nominati, sono (ancora) aperti; tra questi mi preme ricordarne uno: giacché l’accesso al Regime in Deroga avviene sul presupposto (oggi unico) che il prestito sia “destinato” alla quotazione, viene spontaneo chiedersi cosa accade nel caso in cui – per qualunque ragione – una volta emesso il prestito oltre il Limite Dimensionale (perché “destinato” alla quotazione) l’obiettivo “quotazione” non venga, poi, per qualunque motivo, raggiunto. Anche sull’argomento parte della dottrina si è esercitata e la conclusione cui è approdata (applicazione analogica dell’art. 2413, c.c.), per quanto certamente condivisibile e, di fatti, largamente condivisa, sconta, però, quell’ineliminabile margine di incertezza tipico delle interpretazioni analogiche: mi domando, allora, se non si sia persa una buona occasione per fornire al quesito una risposta certa perché autentica.
3. Prospettive e osservazioni conclusive
È prematuro, oggi, provare a dire se il “ritocco” del quinto comma dell’art. 2412, c.c., sia, o meno, il primo passo verso scelte più coraggiose che il legislatore nazionale potrebbe, in un prossimo futuro, adottare (aggiungo: sperabilmente non in via d’urgenza). Non potendomi, quindi, avventurare in congetture che non tarderebbero a rivelare la loro scarsa attendibilità, mi limito, però e rapidamente, a ricordare qualche dato ed a formulare un auspicio.
Il Limite Dimensionale stabilito dall’art. 2412, c.c., è una peculiarità (ancorché non del tutto esclusiva) del nostro diritto e, quindi, non è difficile intravedere dietro singolarità di questo genere un problema di concorrenza tra ordinamenti: il rischio, in sostanza, è che in sede di accesso al mercato dei capitali, le nostre imprese (non quotate) possano incontrare “barriere all’entrata” che non farebbero altro che limitarne la capacità competitiva.
Mi pare, dunque, di poter dire che disposizioni come l’art. 2412 (e – beninteso – non solo il suo comma 5) sollevano un problema oltre che interno anche “internazionale” nel senso che l’esigenza di assicurare una tendenziale parità di armi nella corsa all’approvvigionamento di mezzi finanziari sul mercato dei capitali non viene solo in rilievo nei rapporti tra società quotate e non quotate “di diritto italiano” ma anche tra imprese italiane e competitors esteri.
Non meraviglia, dunque, che la possibile abrogazione dell’art. 2412, c.c. sia tutt’altro che un tema dell’ultima ora: di recente se ne è, per esempio, tornato a parlare in occasione di un “tavolo di lavoro” messo in piedi, lo scorso anno, dalla Consob sulla Concorrenza fra sistemi di regole e vigilanza (in concomitanza con altri due tavoli di lavoro sempre avviati da Consob e dedicati alle “macro aree” della Semplificazione regolamentare del mercato finanziario italiano e della Raccolta bancaria a mezzo di obbligazioni, prospetto e regole di condotta; cfr. Documento di Consultazione del 25 luglio 2011, pag. 26).
Movendo, allora, da queste premesse, provo, conclusivamente, a tirare le fila di questa riflessione (qui solo abbozzata nelle sue linee principali) osservando, per prima cosa, che un mercato che ambisce ad essere realmente “comune” postula, anzitutto, regole uniformi e, quindi – mi sia permesso dirlo apertamente – costi di compliance omogenei: questo “principio guida” può soffrire eccezioni solo se si accerta che – effettivamente – una particolare area geografica presenta singolarità talmente marcate da richiedere, appunto, regole “speciali” ad applicazione locale; in linea, quindi, con quanto già preconizzato o, almeno, auspicato da autorevoli voci della dottrina giuridica e da esponenti del mondo professionale, va indiscutibilmente difesa l’idea di rimuovere il Limite Dimensionale.
Fino a che, però, questo passo (per certi versi storico) non verrà compiuto, non si potrà fare altro che apprezzare ogni sforzo – come quello fatto dal legislatore del Decreto – di ridurne, di quel limite, la portata applicativa.