Il presente contributo analizza la risposta dell’Agenzia delle Entrate n. 432 del 19 settembre 2023 che per la prima volta si sofferma sulla disciplina del carried interest nel particolare contesto delle strutture tipiche dei fondi di investimento internazionali.
Con la risposta n. 432 del 19 settembre 2023 l’Agenzia delle Entrate è tornata ad occuparsi della disciplina del carried interest, esprimendosi su una fattispecie assolutamente nuova rispetto a quelle oggetto delle (numerose) precedenti risposte. Tale pronuncia è particolarmente interessante giacché ha ad oggetto il trattamento del carried interest nel contesto delle strutture tipiche dei fondi di investimento internazionali, fornendo da un lato conferme di alcuni principi già noti, dall’altro dando talune interpretazioni in verità non del tutto coerenti con la ratio normativa ed il contesto di riferimento.
Nella fattispecie esaminata l’istante è una società italiana che presta servizi di consulenza (sub-advisory) ad una advisory company (UK), la quale a sua volta fornisce consulenza ad una management company (stabilita in Lussemburgo) che gestisce due fondi alternativi “paralleli”, costituiti quali SCSp di diritto lussemburghese, e un terzo fondo “parallelo” (anch’esso SCSp lussemburghese) partecipato dai manager.
I primi due fondi alternativi “paralleli” sono partecipati, oltreché da investitori istituzionali e da altri veicoli riconducibili alla famiglia che controlla il gruppo di private equity, anche da un veicolo di investimento (anch’esso costituito in forma di SCSp lussemburghese e denominato “Carry Fund”) a sua volta partecipato dai manager e da un anchor investor (investitore istituzionale riconducibile alla suddetta famiglia).
Le quote del Carry Fund sono sottoscritte inter alia da quattro manager, tutti fiscalmente residenti in Italia, legati alla società di sub-advisory da rapporti di lavoro/amministrazione.
Dette quote (c.d. “speciali”) danno diritto a ricevere – come chiarito oltre – un potenziale extra rendimento postergato rispetto al ritorno degli investitori che partecipano ai due ”fondi paralleli” (ossia il carried interest).
Infatti, i partnership agreement (ossia i regolamenti) dei due fondi alternativi in cui investe il Carry Fund prevedono dapprima la restituzione pro-quota dei versamenti effettuati dai limited partner (i.e. gli investitori) maggiorati di un rendimento minimo prefissato (c.d. hurdle rate) e, per la quota residua (e fino a concorrenza di una soglia massima), la distribuzione in via preferenziale in favore del Carry Fund, il quale a sua volta (al netto di una quota erogata a titolo di management fee) distribuisce quanto ricevuto tra i titolari delle quote speciali, in proporzione alla rispettiva partecipazione.
Nell’analisi (“caso per caso”) della struttura di co-investimento del management, l’Agenzia delle Entrate – che ritiene non applicabile alla fattispecie esaminata la presunzione di cui all’art. 60 del decreto 50/2017 per i motivi oltre specificati – conferma tuttavia la rilevanza (in senso positivo) di alcuni elementi ormai consolidati per il riconoscimento della natura finanziaria dei proventi spettanti ai manager, ossia:
- la detenzione di strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati anche da parte di investitori terzi, diversi dai membri del management team (in tal caso si tratta dell’anchor investor che partecipa al Carry Fund);
- la presenza di un adeguato sistema di remunerazione e di incentivazione dei manager, in linea con lo standard del mercato e costituito da una componente fissa commisurata al ruolo svolto e alle responsabilità assunte e da una parte variabile legata alle performance aziendali e individuali, oltreché da una serie di fringe benefit;
- l’idoneità dell’investimento, anche in termini di ammontare assoluto, a garantire l’allineamento (nel caso di specie i manager investono importi compresi tra il 90 e il 250 per cento della propria retribuzione annua fissa lorda e, in termini complessivi, un importo pari a circa 75,3 milioni – di cui circa 2,9 milioni sono investiti dai quattro manager italiani attivi presso la sub-advisory company – corrispondente a circa il 4 per cento del commitment complessivo di tutti i “fondi paralleli”);
- l’esposizione del manager al rischio di perdita del capitale investito, anche in ipotesi di clausole di leavership che prevedano (i) l’acquisizione definitiva delle quote speciali mediante un meccanismo di vesting in funzione del tempo trascorso dall’investimento iniziale e (ii) il rimborso delle quote non-vested, oggetto di annullamento e conseguente liquidazione, nella misura pari al minore tra il valore nominale e il valore di mercato.
Per converso, nella risposta dell’Agenzia delle Entrate si colgono taluni aspetti critici, per lo più scaturenti da una lettura particolarmente formalistica della presunzione di legge e non del tutto coerente con la ratio normativa ed il contesto di riferimento (i.e. quello delle tipiche strutture dei fondi di investimento internazionali), come di seguito sintetizzati e brevemente commentati:
- l’Amministrazione finanziaria ha ritenuto la presunzione di legge applicabile ai soli manager dell’advisory company e non anche ai manager del sub-advisor, per mancanza del “nesso” tra le scelte strategiche del management e il risultato atteso dagli investitori.
Le private equity firm internazionali presentano generalmente una struttura articolata, nella quale il gestore – pur restando responsabile delle decisioni d’investimento – affida la gestione del portafoglio ad altri soggetti (advisor o portfolio manager), i quali a loro volta possono avvalersi di sub-advisor localizzati nelle giurisdizioni in cui il fondo intende investire, al fine di identificare e proporre al gestore opportunità di investimento nel mercato locale. L’articolazione della struttura della firm tiene dunque conto delle particolari esigenze organizzative legate alla presenza in più geografie, ma resta tuttavia unitaria e finalizzata all’unico obiettivo della gestione del fondo nell’interesse degli investitori. In particolare, l’attività del sub-advisor non può essere (de)qualificata come un’attività secondaria – di mero supporto tecnico – rispetto a quella dell’advisor. Infatti, in tali strutture i sub-advisor locali, al pari dell’advisor centrale, pur non avendo poteri decisionali (e quindi responsabilità diretta), intervengono sulle strategie di investimento della private equity firm, fornendo un supporto qualificato al gestore e condizionandone quindi le relative decisioni. È evidente dunque che anche rispetto ai manager che operano presso la sub-advisory company, essendo ravvisabile nell’attività da essi svolta una stretta connessione (“nesso”) con la determinazione della strategia di gestione del fondo, si pone la medesima necessità di allineamento con gli interessi degli investitori al pari dei manager operanti nel gestore e nell’advisor;
- l’Amministrazione finanziaria ritiene la presunzione di legge applicabile solo all’investimento in un fondo strutturato in forma unitaria (come unico veicolo di raccolta) e non in un fondo articolato in più veicoli paralleli e/o multilivello.
In particolare, l’Agenzia ritiene che la presunzione di legge vada interpretata nel senso che l’ammontare minimo dell’investimento debba essere parametrato non ad un progetto con investimenti multipli, ma agli importi impegnati dal (singolo) organismo di investimento collettivo del risparmio o al patrimonio netto del (singolo) emittente, nel caso di società o enti. Al riguardo, non sembra tuttavia coerentemente valutata la fattispecie in esame, giacché i fondi “paralleli” sono comunque parti di una struttura d’investimento unitaria, tipica dei fondi internazionali, che va considerata come tale ai fini dell’analisi, laddove il Carry Fund rappresenta il veicolo attraverso il quale i manager effettuano l’investimento nei “fondi paralleli” da cui origina la distribuzione preferenziale. Ai fini del requisito dell’investimento minimo, pertanto: (a) dovrebbe rilevare l’investimento effettuato dai manager (sia in quote ordinarie sia in quote intitolate al carried interest), direttamente o indirettamente (attraverso il Carry Fund), in tutti i fondi paralleli e (b) detto investimento dovrebbe essere parametrato all’ammontare complessivo dei fondi in cui i manager hanno investito. L’interpretazione dell’Agenzia rischia di condurre (ingiustificatamente) all’inapplicabilità della presunzione di legge ai fondi internazionali, sovente strutturati in fondi paralleli e/o multilivello, nei quali il carried interest è solitamente allocato al management team attraverso un veicolo dedicato (per ragioni principalmente operative e di segregazione);
- l’Amministrazione finanziaria ritiene che la verifica del requisito del rendimento minimo o hurdle rate vada operata con riferimento al rendimento ritraibile dagli investitori che partecipano al Carry Fund.
Come già evidenziato, il Carry Fund non è altro che il veicolo attraverso il quale i manager investono nei primi due fondi paralleli. Pertanto, è coerente con la ratio dell’art. 60 che la verifica della ricorrenza del requisito del rendimento minimo (o della postergazione) sia operata rispetto all’investimento effettuato dagli investitori diversi dai manager nei fondi paralleli, che distribuiscono i rendimenti ordinari e il carried interest (al Carry Fund). Del resto, appare invece ultroneo rispetto alla ratio normativa valutare la postergazione guardando alla disciplina delle distribuzioni operate al livello del Carry Fund, giacché esso (al netto di una quota erogata a titolo di management fee) si limita a re-distribuire a valle (ai manager e all’anchor investor) il carried interest distribuito a monte dai due fondi paralleli partecipati, in base alla waterfall prevista dai relativi partnership agreement, solo dopo che gli altri partecipanti a detti fondi paralleli abbiano ricevuto il rendimento minimo previsto.
In definitiva, pur giungendo ad un esito positivo per il contribuente attraverso l’analisi “caso per caso”, la risposta dell’Agenzia delle Entrate sembra non del tutto coerente con la ratio normativa ed il contesto di riferimento e di fatto rischia di escludere dalla presunzione di legge molte delle strutture di co-investimento delle private equity firm internazionali. La lettura formalistica della norma fornita dall’Amministrazione finanziaria, nell’ottica del peculiare assetto degli organismi d’investimento internazionali (i.e. con riferimento sia al ruolo dei sub-advisor che all’organizzazione multi-veicolo e multi-livello del fondo), rischia di colpire negativamente l’operatività degli stessi in Italia e, in definitiva, di ridurre l’attrattività del Paese per i team di gestione.
Ciò risulta peraltro in controtendenza con le politiche fiscali di recente adozione, tra cui rileva anzitutto la c.d. investment management exemption, introdotta con il precipuo scopo di attrarre lo stabilimento in Italia delle strutture estere di gestione collettiva del risparmio (anche nelle tipiche articolazioni dell’advisor o sub-advisor), escludendo – a certe condizioni – che l’attività da esse svolta nel territorio dello Stato possa configurare una stabile organizzazione personale o materiale dei veicoli esteri d’investimento (delle relative controllate e, in ultima analisi, degli investitori). La disciplina citata è infatti indirizzata proprio agli asset manager (e ai loro dipendenti e/o collaboratori), identificati dalla Relazione illustrativa inter alia nei soggetti che contribuiscono, anche tramite operazioni preliminari o accessorie, all’acquisto e/o alla vendita e/o alla negoziazione di strumenti finanziari per conto del veicolo d’investimento non residente. Tra le condizioni per beneficiare del safe harbour è significativamente previsto che la remunerazione per l’attività svolta in Italia sia correttamente determinata (at arm’s length) in base a metodi appropriati di transfer pricing; in altri termini, tali funzioni di supporto devono partecipare alla remunerazione della complessiva attività di gestione in modo coerente con il ruolo svolto dall’entità locale (tenendo conto di asset, rischi e funzioni), proprio a riprova dell’esistenza di un nesso rilevante tra detta entità e la gestione del veicolo d’investimento. L’esistenza di tale “nesso” (e della conseguente finalità di allineamento dei rischi sottesa alla disciplina del carried interest) è peraltro ulteriormente comprovata dalla previsione che contempla e disciplina (ponendovi un limite complessivo) la partecipazione ai risultati economici del fondo da parte del management team operante in Italia.