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Editoriali

Il Comitato per le Nomine: un’incompiuta italiana

26 Aprile 2017

Massimo Belcredi

Il Codice di Autodisciplina raccomanda alle società quotate di istituire all’interno del CdA un Comitato per le proposte di nomina degli amministratori.

Che un Comitato Nomine sia necessario è dubbio: nel nostro sistema delle candidature si occupano di solito direttamente gli azionisti (segnatamente quelli di controllo). E infatti il Rapporto Assonime sull’applicazione del Codice ne fotografa l’insuccesso: nel 2016 un comitato autonomo (non unificato con il comitato remunerazioni) era istituito solo dal 21% degli emittenti, con finalità in genere limitate alla cooptazione di indipendenti. Nel settore finanziario esso è istituito più spesso (85%), ma solo per effetto di una regolamentazione stringente.

Di recente, varie società hanno modificato i propri statuti per consentire al CdA di presentare una propria lista di candidati. Ciò ha particolare significato dove non esiste un socio di controllo e la maggioranza del consiglio è espressa da soci che detengono quote limitate (tra il 20% e il 30% del capitale o addirittura inferiori). Gli investitori istituzionali, infatti, presentano liste “corte”, per evitare l’accusa di avere concertato un cambio di controllo, sicché la maggioranza dei consiglieri è eletta da soci “di minoranza”, mentre i consiglieri “di minoranza” sono eletti in realtà dalla maggioranza dei soci. Per evitare questo pasticcio si propone che il consiglio uscente presenti una propria lista, previa consultazione con i principali soci demandata al Comitato Nomine.

Siamo dunque alla vigilia di un rinascimento del Comitato Nomine? Non è detto.

Vari autori hanno commentato i rischi di “collegamento” tra lista del CdA e liste presentate da azionisti di rilievo, magari gli stessi che quel consiglio hanno eletto 3 anni prima. A ciò si potrebbe rimediare con la presentazione di una lista “unica”, concordata con i principali soci. Tale soluzione presuppone però un confronto aperto e non conflittuale sulle candidature. È lecito nutrire dubbi sul fatto che ciò avvenga spesso, soprattutto dove non vi è un azionista di controllo la cui leadership sia riconosciuta. Che faranno gli investitori istituzionali ove loro eventuali segnalazioni non fossero accolte dal Comitato Nomine (o dal CdA)? O se fossero presenti candidature loro sgradite nella lista che si vorrebbe unica?

In tale scenario, inoltre, il Comitato Nomine opererebbe come camera di compensazione tra le istanze dei vari azionisti, così “schermando” una negoziazione tra soci. In tal caso, peraltro, non è chiaro se e come i rischi di “concerto”, oggi paventati, sarebbero superati.

Infine, la definizione di una lista “unica” del CdA, benedetta dai principali azionisti (investitori istituzionali inclusi), potrebbe aprire la porta alla rappresentanza di “altre” minoranze, che difficilmente sarebbero riusciti a prevalere altrimenti nella contesa assembleare. A normativa vigente, il venir meno dello ”scudo” rappresentato dalle liste Assogestioni aprirebbe cioè, paradossalmente, la porta a investitori con atteggiamento conflittuale o interessati a scorribande di breve termine. Tale rischio sarebbe contenibile con interventi restrittivi, che alzino i quorum di presentazione delle liste o quelli necessari per l’elezione, e/o riducano i posti in consiglio riservati alle minoranze (dove eccedenti il minimo di legge). Sarebbe cioè richiesto un intervento normativo o regolamentare, non privo di controindicazioni.

Insomma, appare probabile che il Comitato Nomine continui ad essere adottato sporadicamente, in presenza di particolari condizioni di armonia tra i soci.

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