La Corte di Cassazione con sentenza n. 4610/2025 si pronuncia in materia di transfer pricing, facendo particolare riferimento al criterio del confronto del prezzo tra valore applicato dall’azienda nella transazione infragruppo ed il “valore di libera concorrenza” (o “valore normale”).
Il transfer pricing è definito dalla consolidata giurisprudenza della Corte quale “fenomeno economico che prevede lo spostamento d’imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a differenti discipline fiscali”.
Il transfer pricing è disciplinato dall’art 110 comma 7 Tuir, ai sensi del quale: “ I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono determinati con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili, se ne deriva un aumento del reddito”.
L’art 110 Tuir non integra una disciplina antielusiva bensì è specificatamente rivolto alla repressione del fenomeno considerato.
Ne consegue che l’onere probatorio gravante sull’Amministrazione finanziaria concerne la sola esistenza di transazioni, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale.
Lo scostamento dal valore che sarebbe praticato in regime di libera concorrenza è determinato, da parte della Agenzia delle Entrate facendo riferimento ad alcune regole “di soft law”: Linee Guida OCSE e, a partire dal 2018, dal Ministero dell’economia e finanza.
Lo stesso art 9 tuir individua espressamente gli strumenti di calcolo del valore “congruo” del bene (e quindi tali da escludere transfer pricing): il metodo del confronto del prezzo con imprese indipendenti (cd. CUP) nella duplice forma del controllo interno (confronto tra transazione effettuata dal soggetto che deve applicare il prezzo di trasferimento con un soggetto terzo) ed esterno (confronto tra transazioni in cui il cedente e cessionario sono soggetti terzi rispetto al principio).
Tale controllo è stato ripreso e approfondito dalla Cassazione, che, facendo riferimento alle Linee Guida OCSE, qualifica la verifica comparata del prezzo non solo come un’analisi della similarità dei prodotti presi a riferimento, ma come una vera e propria analisi funzionale. Quest’ultima mira a individuare le attività economiche rilevanti, le responsabilità assunte, i beni impiegati o apportati, nonché i rischi sostenuti dalle parti coinvolte nelle transazioni.
Richiamandosi alle linee guida, la Cassazione prosegue ritenendo transazione tra parti comparabili ai fini del metodo del confronto di prezzo quella effettuata in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:
- nessuna delle differenze (nel caso ve ne siano) tra le transazioni comparate o tra le imprese che avviano dette transazioni può influenzare in modo rilevante il prezzo di libero mercato
- si possono apportare degli aggiustamenti sufficientemente accurati allo scopo di eliminare gli effetti sostanziali di dette differenze
- per quanto concerne il confronto interno, i comparabili interni devono soddisfare i cinque fattori di comparabilità allo stesso modo che i comparabili esterni e le indicazioni sugli aggiustamenti ai fini della comparabilità si applicano anche ai comparabili interni
L’assenza di una delle condizioni sopra menzionate, come riscontrabile nel caso di specie, compromette la legittimità della pretesa tributaria fondata sul metodo comparativo del confronto, costituendo così elemento probatorio idoneo a sorreggere la prova contraria rispetto alle circostanze su cui tale pretesa si basa.