L’ordinanza n. 19142 emessa dalla Corte di cassazione il 15 giugno 2016 ha contribuito a rafforzare il proprio orientamento che qualifica l’art. 28, co. 4, D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175 (c.d. “decreto semplificazioni”)[1] come norma di carattere sostanziale piuttosto che procedimentale.
L’art. 28, co. 4, D.Lgs. n. 175/2014 ha introdotto nuove disposizioni sugli effetti della cancellazione delle società dal registro delle imprese in base alle quali “ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese”.
Con la pronuncia in rassegna, i giudici della Suprema Corte limitano l’efficacia temporale di questa norma puntualizzando che essa “[…] non ha valentia interpretativa (neppure implicita) né efficacia retroattiva […]” in quanto “[…] reca disposizioni di natura sostanziale sulla capacità delle società cancellate dal registro imprese […]”.
La logica, nonché necessaria, conseguenza di quanto affermato dalla Corte è che “[…] il differimento quinquennale degli effetti dell’estinzione della società derivanti dall’art. 2495 c.c., comma 2 […] si applica esclusivamente ai casi in cui la richiesta di cancellazione della società dal registro delle imprese (che costituisce il presupposto di tale differimento) sia presentata nella vigenza della nuova disciplina di detto D.Lgs., ossia il 13 dicembre 2014, o successivamente […]”.
Gli Ermellini, per la verità, muovono il loro ragionamento dando seguito ad alcune importanti riflessioni svolte in occasione della ben più corposa pronuncia del 16 marzo 2015, la n. 6743.
Questi ultimi, nella specie, indagando il contenuto della relazione illustrativa al decreto, nel quale si legge che l’obiettivo della norma è quello di “evitare che le azioni di recupero poste in essere dagli enti creditori possano essere vanificate […]”, concludono che “[…] la norma […] opera su un piano sostanziale e non “procedurale” in quanto non si risolve in una diversa regolamentazione dei termini processuali o dei tempi e delle procedure di accertamento o di riscossione […]”.
I giudici costruiscono il loro convincimento ricorrendo: i) al “[…] generale disposto del comma 1 dell’art. 11 delle preleggi (per cui “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”)[…]” e ii) al “[…] comma 1 dell’art. 3 dello statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212 del 2000) secondo cui “le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”, salvi i casi di interpretazione autentica”.
A chiosa di quanto appena sopra, la Corte asserisce che “[…] il legislatore delegato non avrebbe avuto neppure in astratto il potere di delegare sul punto la L. n. 212 del 2000 con il D.Lgs. n. 175 del 2014, perché la legge di delegazione n. 23 del 2014 gli ha imposto lo specifico obbligo di rispettare lo statuto dei diritti del contribuente (art. 1 della legge delega) e, quindi, anche il comma 1 dell’art. 3 dello statuto […]”.
È importante a questo punto notare come il fulcro dell’intera vicenda affrontata con l’ordinanza de qua sia da rinvenire in un altro contributo esplicativo della conclusione in essa raggiunta: il difetto di capacità processuale della società estinta. I giudici della Corte hanno infatti già avuto modo di confermare in diverse circostanze che “[…] la cancellazione dal registro delle imprese, con estinzione della società prima della notifica dell’avviso di accertamento e dell’instaurazione del giudizio di primo grado, determina il difetto della sua capacità processuale e il difetto di legittimazione a rappresentarla dell’ex liquidatore […]” con il conseguente annullamento della sentenza impugnata ai sensi e per gli effetti dell’art. 382, c.p.c..
Quest’ultima riflessione, anch’essa in continuità rispetto a quanto riconosciuto dagli stessi giudici in numerose occasioni, sostiene il “fenomeno successorio” di cui all’art. 2495, c.c. in virtù del quale la cancellazione della Società dal registro delle imprese non produce l’estinzione delle obbligazioni sociali rimaste insoddisfatte a tale tempo.
L’art. 2495, c.c., nella novellata versione post-Riforma, rappresenta difatti il presidio civilistico a tutela delle ragioni creditorie delle parti terze rispetto alla società estinta. L’unico limite alla responsabilità dei soci è dato “dalle somme da questi ultimi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione”.
In merito alle somme e/o ai beni ottenuti dai soci sulla base del bilancio finale di liquidazione, gli Ermellini assicurano però che la reale percezione delle stesse nonché il loro ammontare debba essere provato “[…] dall’Amministrazione finanziaria che agisce contro i soci per i pregressi debiti tributari della Società, secondo il normale riparto dell’onere della prova […]”[2] di cui all’art. 2697, c.c..
I soci della società estinta sono, dunque, responsabili dinanzi al fisco delle obbligazioni tributarie della stessa limitatamente al denaro e al valore dei beni ricevuti durante la liquidazione e nei due anni precedenti l’avvio della procedura ai sensi dell’art. 36, co. 3 del D.p.r. n. 602/1973[3].
In definitiva, con riferimento alle richieste di cancellazione dal registro delle imprese effettuate prima del 13 dicembre 2014 e in considerazione della natura sostanziale e non procedimentale dell’art. 28, co. 4 del D.Lgs. n. 175/2014, i giudici della Suprema Corte sembrerebbero lasciare spazio unicamente allo schema di cui all’art. 36, D.p.r. n. 602/1973 affinché l’Amministrazione finanziaria possa vedere tutelate le (eventuali) proprie ragioni di credito nei confronti di una società estinta.
[1] Ex multis Cass. sez. 5^, sent. nn. 6743/15, 7923/16, 8140/16 e sez. 6^-5, ord. n. 15648/15.
[2] Cfr. Cass. sez. 5^, sent. 13259/15, nn. 5736/16, 7676/16, 7676/12, 7679/12, 19453/12, 1468/04, 5113/03, 5489/78, 3879.
[3] Ci si riferisce alla lettera dell’articolo così come innovata dallo stesso art. 28, co. 5 del D.Lgs. n. 175/2014.