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Note

Il governo delle riparazioni “antieconomiche” e l’art. 2058 c.c.

30 Novembre 2023

Vittorio Bachelet, Ricercatore di Diritto Privato, Università Cattolica del Sacro Cuore


SOMMARIO: Una recente pronuncia della Cassazione (ord. n. 10686/2023) torna sul tema della risarcibilità delle spese di riparazione “antieconomiche”: maggiori del deprezzamento subito dal bene danneggiato dall’illecito, o addirittura del valore che il bene aveva prima del sinistro. La pronuncia viene apprezzata, nella nota di commento, perché individua il criterio normativo di riferimento nell’art. 2058 c.c. – che ammette il risarcimento in forma specifica nei limiti della non eccessiva onerosità per il danneggiante (rispetto al risarcimento per equivalente). Essa è, nondimeno, criticata, là dove attribuisce rilievo, nella valutazione in merito alla risarcibilità di riparazioni c.d. antieconomiche, alla circostanza per cui il danneggiato si sia arricchito grazie all’aumento del valore (di scambio) del bene riparato, che non appare, invece, giustificato nella logica di una previsione volta a tutelare, entro certi limiti, proprio il valore d’uso.

ABSTRACT: A recent decision of the Italian Supreme Court (no. 10686/2023) dealt with the question of the recoverability of “uneconomical” repair costs that are higher than the loss in value of the thing damaged by the tortious act or even the value that the thing had before the accident. The judgment is appreciated because it identifies the normative reference criterion in article 2058 of the Civil Code, which allows compensation in a certain form within the limits of a non-excessive burden on the injured party (as opposed to compensation for an equivalent). However, it is criticized insofar as, when assessing the compensability of so-called uneconomical repairs, it is based on the fact that the injured party has been enriched by the increase in the (exchange) value of the repaired item, which in turn does not seem justified in the logic of a provision that is intended to protect, within certain limits, precisely the use value.


1. Il caso e la questione

La vicenda oggetto dell’ordinanza di Cassazione n. 10686/2023 rispecchia uno schema semplice, assai spesso ricorrente nell’esperienza applicativa: il proprietario di un’autovettura coinvolta in un incidente stradale agisce di fronte al giudice di pace per il risarcimento dei danni patrimoniali riportati dal mezzo. Il giudice riconosce la – sia pur parziale – responsabilità del convenuto e condanna la sua compagnia assicurativa a risarcire l’attore per un importo (di circa € 3.700) pari al costo delle riparazioni effettuate.

Su impugnazione dell’assicuratore, il tribunale in secondo grado riduce l’entità del risarcimento a una somma (di circa € 2.100) pari, invece, al deprezzamento subìto dal veicolo a causa del sinistro. Il proprietario ricorre, allora, in Cassazione per contestare la diminuzione dell’importo risarcitorio disposta in appello, che viene ora parametrato alla riduzione del valore di scambio del bene leso, anziché ai costi necessari a ripristinarne il valore d’uso, come richiesto dal danneggiato.

La questione che la decisione in commento affronta è, perciò, se il nostro sistema di responsabilità civile giustifichi, e in che misura, il risarcimento di spese di riparazione “antieconomiche”, perché maggiori della perdita di valore subita dal bene danneggiato, o addirittura del valore che il bene aveva prima del sinistro[1].

2. I parametri normativi “estranei”: gli artt. 1223 e 1227, cpv., c.c.

La questione indicata, si badi, non si colloca nell’orizzonte normativo dell’art. 1223 c.c., il quale prevede un risarcimento del danno limitato alle conseguenze «immediate e dirette» dell’illecito[2], secondo il canone di regolarità causale elaborato da Pothier[3] già recepito dal Code Napoléon e nel codice italiano unitario[4]. Certo, in taluni casi, il risarcimento per equivalente si riesce a liquidare con esclusivo riferimento alle spese di ripristino (si pensi al danno da infiltrazioni di umidità nel muro causate da perdite dell’appartamento limitrofo), ovvero accade che l’importo di queste coincida con la perdita di valore del bene leso, sicché non si pone un problema di “antieconomicità” delle stesse[5]. E allora l’art. 1223 c.c. potrà legittimare l’addebitabilità al responsabile, sub specie di danno emergente, delle spese normalmente conseguenti a quel tipo di fatto dannoso[6].

Ma se la norma potrà essere invocata per negare, ad esempio, il risarcimento delle spese di riparazione di danni preesistenti all’illecito (come quelle per la sostituzione di parti del veicolo diverse da quelle incidentate), quando si pone un problema di “antieconomicità” delle stesse, essa non permette in un ordinamento come il nostro – che offre, come si vedrà, criteri sistematici più adeguati – di escludere la risarcibilità di spese di ripristino particolarmente onerose, come invece a lungo ritenuto dalla giurisprudenza[7].

La pronuncia in esame è immune da sviste di questo genere, e resiste altresì alla tentazione di invocare una norma parimenti inconferente, e nondimeno talora richiamata dalla giurisprudenza, come il capoverso dell’art. 1227 c.c.[8], anch’esso applicabile in ambito aquiliano in forza del rinvio di cui all’art. 2056. Una simile previsione, nel negare il risarcimento dei danni evitabili dal danneggiato con l’ordinaria diligenza, si occupa infatti di un problema diverso, prestandosi a escludere il risarcimento di spese di ripristino, liquidate da riparatori particolarmente esosi, che il danneggiato diligente avrebbe dovuto rifiutarsi di pagare[9]; mentre essa nulla dice con riguardo al fenomeno delle riparazioni c.d. antieconomiche, effettuate a prezzo di mercato, oggetto della nostra attenzione[10].

Invero, la rifusione delle spese di ripristino del valore d’uso del bene si configura, non di rado, quale alternativa al risarcimento della perdita patrimoniale, poiché quelle spese superano la riduzione di valore del bene provocato dall’illecito, ovvero addirittura il valore che esso aveva in precedenza[11].

È quanto accaduto proprio nel caso in esame, dove il ripristino del veicolo incidentato aveva implicato un esborso, pari a circa € 3.700, quasi doppio rispetto al suo valore originario, diminuito di circa € 2.100 a seguito del sinistro. Prima di essere danneggiato dall’illecito, il mezzo era, dunque, vendibile sul mercato dell’usato al prezzo di oltre duemila euro. Pur avendo perso ogni attrattiva economica dopo l’incidente, esso poteva, tuttavia, essere riparato a un costo quasi doppio sia del suo deprezzamento, che del suo valore iniziale.

Rispetto a fattispecie di questo genere – giova ribadirlo – né l’art. 1227 cpv., né l’art. 1223 c.c. hanno molto da dire. Limitandosi a stabilire i canoni di liquidazione del risarcimento per equivalente, essi omettono infatti di occuparsi della quantificazione del danno consistente nelle spese di importo diverso dalla perdita patrimoniale subita, necessarie a ripristinare il valore d’uso del bene danneggiato. E non si occupano, pertanto, nemmeno di fornire al giudice un criterio per orientarsi nella scelta fra tali diversi “livelli” di risarcimento pecuniario.

 3. Il criterio dirimente di cui all’art. 2058 c.c.: il risarcimento “pecuniario in forma specifica” (1° comma)

Di fronte alla segnalata divergenza di esiti liquidatori, l’ordinanza in commento si segnala, in primo luogo, perché correttamente rinviene la disciplina di riferimento nell’art. 2058 c.c. in tema di risarcimento in forma specifica, nel solco di un indirizzo venuto a consolidarsi negli ultimi decenni[12]. In secondo luogo, perché essa chiarisce con fermezza che la norma evocata non preclude, di per sé, riparazioni “antieconomiche”.

Sotto il primo profilo, la pronuncia si lascia apprezzare in quanto, assunta la perdita del valore di scambio quale oggetto del risarcimento per equivalente[13] – ed escluso che si possa giungere, per questa via, a coprire spese di riparazione superiori al danno “differenziale”[14] –, individua il criterio per dirimere la questione nell’ambito dell’art. 2058 c.c., secondo cui è facoltà del danneggiato chiedere, ove in tutto o in parte possibile, la reintegrazione in forma specifica in alternativa al risarcimento per equivalente (primo comma).

In questo modo, si assume esattamente che la peculiarità del risarcimento in forma specifica non consiste tanto nell’oggetto della condanna (un facere volto a riparare, ovvero un dare beni sostitutivi di quello danneggiato)[15], bensì nella latitudine del ristoro: che può essere di natura sì pecuniaria, ma destinato a coprire le spese di ripristino del valore d’uso del bene danneggiato, anziché la diminuzione del suo valore di scambio, “coperto” dal risarcimento per equivalente. Tale lettura, espressamente accolta dal legislatore tedesco al § 249 BGB[16] e più di recente nell’ambito del Draft Common Frame of Reference[17], si presta a legittimare quanto assai di frequente si verifica nella prassi, essendo di norma interesse del danneggiato aggiustare il prima possibile il proprio veicolo presso un riparatore di fiducia, e addossare in un momento successivo i costi di rispristino al danneggiante[18].

Si ammette così, valorizzando in via sistematica una norma quale l’art. 2058 c.c. –assente invece in altri ordinamenti, come storicamente in quello francese[19] – che al medesimo fatto dannoso corrispondano, nel nostro sistema di responsabilità civile, due tipi di risarcimento pecuniario[20], uno per equivalente e l’altro in forma specifica, volti a tutelare due diversi interessi parimenti patrimoniali del danneggiato: il primo al ripristino del valore di scambio (Wertinteresse) e il secondo del valore d’uso (Integritätsinteresse)[21], la cui lesione determina due specie di danno normativamente diverse[22].

Tali approdi della pronuncia in esame, ancorché non incontrastati[23], sono invero già acquisiti in giurisprudenza sulla scia della dottrina più avveduta. Ed è, dunque, ora sul concreto modo di operare della norma correttamente evocata, con particolare riguardo ai limiti posti al risarcimento in forma specifica, che bisogna concentrare l’attenzione.

4. Segue. Il bilanciamento di interessi in conflitto e il limite dell’eccessiva onerosità per il danneggiato (comma 2°)

L’ulteriore aspetto per cui la pronuncia in esame merita approvazione è strettamente connesso al profilo sul quale ci siamo appena soffermati[24]. Nella misura in cui si ammette una norma come l’art. 2058 c.c. a “governare” il tema delle riparazioni antieconomiche, non ritenendo paradossale un risarcimento pecuniario in forma specifica, è giocoforza riconoscere che l’importo dovuto a tale titolo possa essere diverso, e segnatamente maggiore del ristoro per equivalente.

A tale riguardo, nella condivisibile prospettiva adottata, la norma deputata a dirimere la questione dell’ammissibilità delle riparazioni antieconomiche è, infatti, il capoverso dell’art. 2058 c.c., secondo cui la richiesta di reintegrazione in forma specifica può essere respinta, e disposto il solo risarcimento per equivalente, a fronte dell’eccessiva onerosità del ripristino. Valorizzando tale previsione, l’ordinanza in commento coerentemente conclude che in via ordinaria risulta ammessa una reintegrazione del danneggiato anche più onerosa per il danneggiante del risarcimento per equivalente, purché non “eccessivamente”.

Sotto questo profilo, essa si apprezza perché contrasta le tendenze tradizionalmente restrittive dell’ambito applicativo dell’art. 2058 c.c., tanto diffidenti nei confronti della concessione di riparazioni c.d. antieconomiche, da qualificare come eccessivamente onerose tutte le riparazioni superiori al risarcimento del danno “differenziale”[25]. Finendo così per negare ogni autonoma rilevanza al risarcimento pecuniario in forma specifica, ammettendolo soltanto quando di importo corrispondente a quello per equivalente[26], e per obliterare, in definitiva, il ruolo svolto dall’art. 2058 c.c. nel tratteggiare i lineamenti del nostro sistema di responsabilità civile.

Respinti tali eccessi, che fanno prevalere aprioristici dogmi sulle scelte effettivamente compiute dal legislatore[27], l’aspetto su cui occorre concentrare l’attenzione, come fa la pronuncia in commento, riguarda il modo di operare dei limiti entro cui un “risarcimento pecuniario in forma specifica” risulta ammissibile nel nostro ordinamento, benché di un importo superiore a quello per equivalente[28].

Nitida si rivela in tal senso la consapevolezza della Cassazione che, attraverso il rinvio al criterio elastico della non eccessiva onerosità, il legislatore abbia inteso individuare un punto di bilanciamento tra interessi in conflitto delle parti[29]: da un lato, quello del danneggiato al reintegro, che viene considerato meritevole di tutela, ancorché sensibilmente più gravoso per il danneggiante del ristoro per equivalente, in funzione delle apprezzabili ragioni le quali potrebbero indurlo a preferire la riparazione (come la più agevole guida di un veicolo a cui è abituato, le difficoltà di reperirne uno simile usato, la volontà di sottrarsi ai tempi e ai rischi di una tale ricerca); dall’altro, l’interesse del danneggiante a non sopportare costi eccessivi e a non restare prigioniero di scelte irragionevoli, magari capricciose, dell’offeso – verosimilmente anche alla luce dell’esigenza di mantenere l’importo del risarcimento entro livelli tali da non snaturare la funzione tipicamente “compensativa” della responsabilità civile[30].

Se, dunque, i giudici ammettono che l’importo del risarcimento pecuniario in forma specifica possa divergere e superare quello per equivalente, riconoscendo un rapporto di alternatività fra le due specie di risarcimento, altrettanto correttamente essi qualificano una tale rapporto come di regola a eccezione[31], ove il danneggiato abbia chiesto il reintegro[32]: nel senso che la richiesta di ripristino potrà essere disattesa soltanto nelle ipotesi “non ordinarie” in cui il danneggiante risulti eccessivamente gravato.

Ne consegue la censura della decisione impugnata, che troppo frettolosamente aveva escluso la plausibilità della riparazione e disposto a favore del danneggiato il solo risarcimento per equivalente.

5. Profili critici: il ruolo dell’eventuale “locupletazione” del danneggiato

Ciò posto con riguardo ai profili più condivisibili della decisione in commento, se ne possono ora mettere in luce anche le non marginali criticità.

La specifica ragione per cui la pronuncia d’appello viene cassata dal provvedimento in esame è che essa aveva negato il risarcimento pecuniario in forma specifica esclusivamente sulla base della sua eccessiva onerosità per il danneggiante, omettendo di considerare se esso comportasse una “locupletazione” per il danneggiato, considerando che una riparazione antieconomica non trovi ex se legittimazione nel quadro delle scelte del sistema. Secondo la pronuncia in esame, invece, per respingere la domanda risarcitoria in forma specifica e disporre il risarcimento per equivalente, il giudice non dovrebbe limitarsi a giudicare della natura antieconomica delle riparazioni, ma piuttosto appurare che, alla riparazione antieconomica, faccia necessariamente da pendant un arricchimento nella sfera patrimoniale del leso derivante da un aumento di valore del veicolo riparato (dovuto, ad esempio, alla sostituzione di parti già usurate dello stesso con componenti nuove: c.d. riparazioni Neu für Alt)[33].

A tale ricostruzione occorre, tuttavia, obiettare che quanto avviene nella sfera del danneggiato non dovrebbe, invero, rilevare nell’ambito di una disciplina alla stregua della quale il ripristino del valore d’uso, richiesto dal danneggiato, è ammesso dall’art. 2058 cpv. c.c. nei limiti della non eccessiva onerosità per il danneggiante[34]. Nella logica della norma, eventuali arricchimenti del primo devono anzi considerarsi ammessi, e quindi “giustificati”. Se, infatti, si riconosce che il risarcimento in forma specifica tutela l’interesse del danneggiato a vedere ripristinato il valore d’uso del bene leso – meritevole di riparazione nei limiti della non eccessiva onerosità per l’obbligato –, bisogna ammettere che un eventuale incremento del valore di scambio dello stesso sia, per così dire, coperto dall’ordinamento[35].

Diversamente, si dovrebbe ammettere un anziano signore a riparare la sua vecchia automobile, con rifusione di spese anche antieconomiche (purché non eccessivamente), e, dall’altro, consentire al danneggiante di invocare l’art. 2041 c.c. per ottenere, da parte del primo, un importo pari all’eventuale incremento di valore del veicolo determinato dalle riparazioni[36]. A tale stregua, il danneggiato si troverebbe sì l’auto reintegrata nel suo valore d’uso a spese del responsabile, ma al “prezzo” di perdere la somma, che non avrebbe altrimenti sborsato, corrispondente al plusvalore acquisito da un bene destinato all’uso, piuttosto che allo scambio[37].

La Cassazione in commento non segue, però, nemmeno questa contraddittoria, e pertanto non condivisibile, linea interpretativa elaborata da una parte della dottrina. Poiché, se afferma che il risarcimento «non può eccedere la misura del danno e comportare un arricchimento ingiustificato», essa assume poi, come si diceva, la sussistenza di un arricchimento del danneggiato quale elemento ulteriore da accertare, rispetto all’eccessiva onerosità per il danneggiante, al fine di «orientare il giudice nella scelta della modalità liquidatoria» – anziché per “correggere” il contenuto del risarcimento pecuniario in forma specifica.

Qualche passaggio della motivazione sembra addirittura qualificare l’eventualità dell’arricchimento come il naturale pendant, nella sfera del danneggiato, di un ripristino eccessivamente gravoso per il danneggiante, alla stregua di «un dato sintomatico della correttezza dell’applicazione dell’art. 2058, 2° co., c.c.»[38]. E non sarebbe, allora, in questione la moltiplicazione degli elementi da accertare rispetto alla mera eccessiva onerosità, bensì l’istituzione di una sorta di meccanismo presuntivo, in base al quale l’eccessiva onerosità per il danneggiante si dovrebbe presumere quando viene accertato il diverso fatto dell’arricchimento del danneggiato: dando così per scontato quanto non è affatto ovvio, poiché in pratica una riparazione particolarmente costosa non comporta sempre e comunque un “apprezzamento” del bene (si pensi a un’auto d’epoca, per la quale è assai oneroso trovare i pezzi di ricambio, il cui valore resta, nondimeno, inalterato una volta aggiustata a caro prezzo).

Quello da ultimo evidenziato costituisce, dunque, un non piccolo “inciampo” di una pronuncia che, per altri versi, si muove assai correttamente nel quadro normativo di riferimento. A ben vedere, ritenendo necessario l’accertamento dell’eventuale rivalutazione del bene riparato ex art. 2058 cpv., si introdurrebbe, peraltro, un obbligo giudiziale di verifica successiva alla riparazione stessa, che sembra postulare la sussistenza di un vincolo per il danneggiato a impiegare le somme, ottenute a titolo di risarcimento in forma specifica, nell’effettiva riparazione del bene leso: ipotesi questa che, come vedremo più avanti, non risulta invero convincente.

6. Segue. “Soggettivizzazione” del giudizio ex art. 2058, cpv.?

Escluso che quanto attiene alla sfera oggettiva del danneggiato assuma rilievo nel giudizio sull’ammissibilità del risarcimento in forma specifica, occorre a maggior ragione escludere che rilevi quanto attiene alla sua sfera soggettiva.

Sul punto, la pronuncia in esame non è, in realtà, equivoca. L’intento della stessa, quando si esercita a identificare la schiera di interessi meritevoli tali giustificare la preferenza per la riparazione in natura (quali la più agevole guida di un veicolo a cui è abituato, le difficoltà di reperirne uno simile usato, la volontà di sottrarsi ai tempi e ai rischi di una tale ricerca), non è, infatti, quello di allargare l’oggetto dell’accertamento giudiziale ex art. 2058, cpv., c.c. Attraverso quella esemplificazione, essa mira piuttosto a spiegare in astratto la scelta del legislatore di ammettere risarcimenti in forma specifica antieconomici, nei limiti della non eccessiva onerosità.

In attesa di vedere come il segnalato passaggio della motivazione verrà accolto dai commentatori, si può però, intanto, esprimere una certa preoccupazione in merito al rischio che esso venga valorizzato, dai pratici, per giustificare una sorta di “soggettivizzazione” del giudizio sull’ammissibilità del risarcimento di spese antieconomiche di riparazione. Mentre occorre, invece, tenersi lontani dalla tentazione di concepire quel novero di interessi meritevoli del danneggiato alla stregua di elementi – ulteriori e diversi rispetto all’eccessiva onerosità per il danneggiato – da accertare in concreto per pronunciarsi sull’ammissibilità del risarcimento pecuniario in forma specifica[39].

Se, dunque, l’art. 2058 cpv. c.c., nel porre il limite della reintegrazione nella sua non eccessiva onerosità per il danneggiante, demanda all’interprete di effettuare un mero raffronto oggettivo tra il peso economico che ha la riparazione in forma specifica rispetto al risarcimento per equivalente[40], vi sono in effetti ipotesi nelle quali un tale raffronto risulta impossibile. Il che avviene ogni qualvolta il pregiudizio lamentato, a causa del danno materiale subìto dal bene, sia di tipo non patrimoniale poiché, per definizione, non esiste qui un risarcimento del danno per equivalente da assumere quale parametro per valutare l’eccessiva onerosità della reintegrazione[41].

In tali casi, e solo in tali casi[42] – che riguardano fattispecie diverse da quella oggetto della nostra attenzione, nelle quali il bene danneggiato ha un valore economico irrisorio o nullo, ma presenta nondimeno un significativo valore di affezione (Affektionsinteresse)[43] – si può discorrere di una “soggettivizzazione” del giudizio ex art. 2058 cpv. c.c. Ciò nella misura in cui condivisibilmente si ritenga che il limite della non eccessiva onerosità, inapplicabile in quanto tale, possa trovare applicazione in ambito non patrimoniale in via analogica, o addirittura estensiva, quale limite di ragionevolezza. Non alla luce di un impraticabile raffronto quantitativo tra valori d’uso e di scambio, bensì di un bilanciamento “qualitativo” tra il costo della riparazione per il danneggiato e il valore soggettivo che essa ha per il danneggiato, anche alla luce del rango degli interessi in gioco: ben potendosi, alla stregua di un siffatto giudizio, ammettere, ad esempio, la riparazione assai onerosa di un giocattolo appartenente a un ragazzo affetto da handicap, che abbia un particolare significato nel suo percorso di crescita[44].

Come detto, però, un tale ragionamento si giustifica in fattispecie di danno non patrimoniale che sono estranee al tema delle riparazioni c.d. antieconomiche affrontato dalla pronuncia in esame. Sicché bisogna astenersi dal contaminare il giudizio sull’ammissibilità del risarcimento del danno patrimoniale da spese di ripristino onerose con questo genere di considerazioni.

7. Il problema del vincolo di destinazione delle somme di ripristino: cenni.

Resta, infine, il problema della libertà, o meno, di disposizione delle somme ottenute a titolo di risarcimento in forma specifica all’effettivo reintegro (Dispositionfreiheit)[45]. La questione non è direttamente affrontata dalla decisione in commento. Tuttavia, come anticipato, là dove riconosce rilievo all’eventuale arricchimento del danneggiato, dovuto all’aumento di valore del bene riparato, essa sembra, in qualche modo, dare per scontato che questi sia tenuto a impiegare le somme conseguite nel ripristino del bene (in modo da consentire al giudice di valutare l’eventualità, o meno, di un siffatto arricchimento).

Da questo punto di vista, sotto il profilo logico, differenziare risarcimento in forma specifica e per equivalente sembra, in effetti, postulare un simile vincolo di destinazione: in quanto è solo la tutela del valore d’uso, in luogo di quella del valore di scambio, che pare giustificare, come si è visto, una diversa liquidazione del danno. Sarebbe, altrimenti, ovvio che il danneggiato domandi sempre e solo il risarcimento più cospicuo[46].

D’altro lato, è innegabile che possano sussistere difficoltà operative alla verifica dell’effettiva destinazione delle somme al ripristino[47]. E ciò sembra rendere ragione di quegli orientamenti, talora anche giurisprudenziali[48], che risultano sul punto largheggianti (probabilmente anche in funzione dell’esigenza di assicurare una somma superiore alla perdita di valore del veicolo, tenendo conto degli ulteriori costi transattivi[49], e non solo, in cui il danneggiato potrebbe imbattersi nel riacquistare un bene analogo a quello leso)[50].

In ogni caso, è opportuno segnalare che il problema si rivela di portata meno rilevante di quanto si possa pensare, considerando che si tratta di una questione che viene in rilievo solo nei casi di anticipazione dei costi di ripristino. Quando invece, nella pratica, risulta assai più frequente, come si diceva e come sembra, del resto, avvenuto anche nel caso di specie, che il danneggiato provveda in autonomia al ripristino e solo successivamente chieda al danneggiante la compensazione dell’esborso[51].

8. Uno sguardo d’insieme.

Alla luce di quanto sin qui illustrato, sembra in definitiva potersi dire che la pronuncia in esame merita apprezzamento là dove coglie nitidamente – in un settore connotato da significative oscillazioni dottrinali, oltre che giurisprudenziali – gli aspetti più rilevanti della norma di cui all’art. 2058 c.c.: considerando la stessa, da un lato, in grado di fondare condanne di contenuto anche pecuniario e, dall’altro, riconoscendo che essa stabilisce un parametro di liquidazione del danno diverso da quello per equivalente, in grado di fondare risarcimenti di importo eventualmente superiore, come nel caso oggetto della decisione annotata. è, del resto, per tali ragioni che la previsione in esame va valorizzata nel nostro sistema di responsabilità civile: perché incorpora un criterio, quello della non eccessività della reintegrazione, elastico, ma nondimeno chiaro nell’ammettere importi anche maggiori del danno “differenziale”.

Se, dunque, quel criterio viene correttamente commisurato alle spese di ripristino del valore d’uso del bene leso, con la conseguenza di ammettere anche riparazioni c.d. antieconomiche, la Cassazione in commento si “smarrisce” nell’applicare il capoverso dell’art. 2058 c.c. Come detto, essa finisce infatti per attribuire autonomo rilievo, nella valutazione in merito alla risarcibilità di riparazioni antieconomiche, alla circostanza dell’eventuale arricchimento del danneggiato dovuto all’aumento del valore di scambio del bene riparato, che non appare, invero, comprensibile nella logica di una previsione volta a tutelare, pur entro certi limiti, proprio il valore d’uso. E ciò, per le ragioni anzidette, senza poter tenere in considerazione lo specifico interesse del danneggiato alla riparazione; ma limitandosi, invece, a operare un oggettivo raffronto tra i costi di riparazione e i costi del risarcimento per equivalente – salvo che si versi in ipotesi nelle quali, diversamente da quella qui in rilievo, si registrano pregiudizi di natura non patrimoniale.

 

[1] Per tale distinzione, tra riparazioni “genericamente antieconomiche” e, rispettivamente, “antieconomiche in senso stretto” (le uniche riparazioni antieconomiche nel linguaggio dei pratici del settore), cfr. A. D’Adda, Il risarcimento del danno in forma specifica. Oggetto e funzioni, Cedam, 2022, 195, nt. 148; ma v. anche, tra gli altri, P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Giuffrè, 20192, 578, ove riferimenti giurisprudenziali (cui adde quelli riportati nella nota di commento a Cass. 4 marzo 1998, n. 2402, in Foro it., 1998, c. 1439).

[2] V., da ultimo, N. Rizzo, La causalità civile, Giappichelli, 2022, 41 ss., e già A. Belvedere, Causalità giuridica?, in Riv. dir. civ., 2006, 16 ss.

[3] Così, rifacendosi all’opinione di Dumoulin, R.J. Pothier, Traité des obligations, I, Rue Saint-Jeande-Beauvais, 1821 (1761), 189, n. 167.

[4] Secondo cui, rispettivamente, «Dans le cas même où l’inexécution de la convention résulte du dol du débiteur, les dommages et intérêts ne doivent comprendre, à l’égard de la perte éprouvée par le créancier et du gain dont il a été privé, que ce qui est une suite immédiate et directe de l’inexécution de la convention» (art. 1151 code civil), e «Quantunque l’inadempimento dell’obbligazione derivi da dolo del debitore, i danni relativi alla perdita sofferta dal creditore ed al guadagno di cui fu il medesimo privato, non debbono estendersi se non a ciò che è una conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento dell’obbligazione» (art. 1229 c.c.).

[5] Così A. D’Adda, Sub Art. 2058, in Comm. Gabrielli, Utet, 2011, 633, già Id., Il risarcimento del danno in forma specifica, cit., 187 s.; mentre, per altra parte della dottrina, quelle illustrate non costituirebbero ipotesi residuali, bensì la “regola”: v. le ntt. successive.

[6] V. la nt. precedente e, in generale, C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Scialoja-Branca, Zanichelli, 1967, 248 ss. Diversamente, G. Ferri jr., Danno extracontrattuale e valori di mercato, in Riv. dir. comm., 1992, 778 ss., ritiene che il danno emergente consista nella sola perdita di valore del bene leso, e mai nelle spese di ripristino che, pur rientrando nella nozione di mancato guadagno (inteso anche come “mancato risparmio”), non sarebbero immediatamente e direttamente ricollegabili alla lesione del bene – e, ove antieconomiche, nemmeno inevitabili ex art. 1227 cpv. (contra, v. in seguito nel testo).

[7] Peraltro, con il conforto di parte della dottrina, anche recente: così, con diversità di accenti, ad es. M. Barcellona, Trattato della responsabilità civile, Utet, 2011, 921 s.; M. Franzoni, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja-Branca, Zanichelli, 1993, 1119; e ora T. Pellegrini, I costi di riparazione come risarcimento per equivalente. Note a margine del progetto francese di riforma della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 2019, spec. 457 ss.

[8] Conf., come anticipato, G. Ferri Jr., Danno extracontrattuale, cit., 781 s., ove riferimenti alla nt. 30 (ma l’A. richiama anche, alle ntt. 27 e 31, l’indirizzo orientato a invocare l’art. 1227 cpv. per affermare la risarcibilità e non evitabilità, in quanto tali, delle spese di ripristino antieconomiche). Ulteriori riferimenti in F. Raspagni, Reintegrazione in forma specifica: contenuto, funzione e ambito risarcibile, in Danno resp., 2014, 1141, nt. 25.

[9] Riferimenti, anche alla posizione contraria, nella nota di commento a Cass. n. 2402/1998, cit., c. 1438 s.

[10] A. D’Adda, Il risarcimento, cit., 70, 191, 198 s.; ma v. A. Belvedere, Causalità giuridica?, cit., 12, nt. 26.

[11] A tale realistica considerazione (G. Ferri jr., Danno extracontrattuale, cit., 761), alla stregua della quale sovente il mercato diverge dal modello concorrenziale perfetto – che «valuta la diminuzione del valore di una cosa danneggiata in misura pari al costo della sua riparazione» (P. Trimarchi, La responsabilità civile, cit., 576), si contrappone l’opinione di chi ritiene, invece, assai marginali le ipotesi nelle quali vi sarebbe uno scostamento tra valori di scambio e (spese di ripristino dei) valori d’uso: M. Barcellona, Trattato, cit., 929; conf. T. Pellegrini, I costi di riparazione, cit., 461; ma v. anche M.R. Marella, La riparazione del danno in forma specifica, Cedam, 2000, 294 s. Su tali orientamenti, cfr. A. Gnani, Il risarcimento in forma specifica, in Tratt. Cicu-Messineo, Giuffrè, 2018, 109 ss.

[12] V. la recente Cass. 30 marzo 2022, n. 10196, per cui «la domanda di risarcimento del danno subito da un veicolo a seguito di incidente stradale, quando abbia ad oggetto la somma necessaria per effettuare la riparazione dei danni, deve considerarsi come richiesta di risarcimento in forma specifica…» (massima); e già Cass. 4 novembre 2013, n. 24718; Cass. 12 ottobre 2010, n. 21012; Cass. n. 2402/1998, cit.: tutte richiamate nella pronuncia in esame e consultabili in One legale. Riferimenti alla dottrina che ha ispirato tale orientamento giurisprudenziale nelle ntt. seguenti.

[13] Esplicita, in tal senso, Cass. 3 luglio 1997, n. 5993 (ma v. anche Cass. 15 maggio 2005, n. 12964, entrambe in One legale), secondo cui la somma dovuta a titolo di risarcimento “per equivalente” va commisurata alla differenza di valore tra il bene nel suo stato originario e il bene danneggiato. Ulteriori riferimenti in G. Ferri jr., Danno extracontrattuale, cit., 804.

[14] Che, oltre alla perdita di valore del bene danneggiato, secondo l’ordinanza in commento deve comprendere, sempre sub specie di danno emergente, anche i costi necessari per la sostituzione del veicolo incidentato: come le spese di rottamazione e di nuova immatricolazione, il bollo non goduto, la mancata disponibilità dell’auto nel tempo intercorrente tra rottamazione e il reperimento di un mezzo analogo (c.d. fermo recupero analogo mezzo). Con riguardo al lucro cessante, si rinvia a P. Trimarchi, La responsabilità civile, cit., 580 ss.

[15] Così, in nuce, R. Scognamiglio, Il risarcimento del danno in forma specifica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, 201 ss., ora in Id., Responsabilità civile e danno, Giappichelli, 2010, 250 ss., spec. 271 s. (da cui sono tratte le citazioni che seguono), il quale osservava, rifacendosi a Oertmann e Larenz, che il risarcimento in natura si presta a realizzarsi in diversi modi, tra cui, quello della riparazione «a cura del leso ed a spese dell’obbligato». L’intuizione, ripresa da C. Salvi, Il danno extracontrattuale. Modelli e funzioni, Jovene, 1985, 35 (Id., Il risarcimento del danno in forma specifica, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti, a cura di S. Mazzamuto, Jovene, 1989, 583), è stata in seguito sviluppata, tra gli altri, da G. Cian, Riflessioni in tema di risarcimento in forma specifica, in Studi in onore di Pietro Rescigno, V, Giuffrè, 1998, 758 ss. e, in seguito, da A. D’Adda, Il risarcimento del danno in forma specifica, cit., spec. 121 ss. (conf., ex multis, A. Montanari, Il risarcimento in forma specifica e la rilevanza giuridica dell’attività di compensazione del danno, in Eur. dir. priv., 2013, 521 s.).

[16] La norma, rubricata «Art und Umfang des Schadensersatzes», stabilisce che «Ist wegen Verletzung einer Person oder wegen Beschädigung einer Sache Schadensersatz zu leisten, so kann der Gläubiger statt der Herstellung den dazu erforderlichen Geldbetrag verlangen» (2). E può essere illuminante anche da noi, pur in assenza di una previsione esplicita che accordi al danneggiato la facoltà di domandare, a titolo di risarcimento, le somme necessarie al ripristino, in luogo di un ordine di riparazione: lo evidenzia G. Cian, Riflessioni, cit., 757 ss., ove ulteriori riferimenti dottrinali alla nt. 10.

[17] DCFR 2009, VI. – 6:101 («Aim and forms of reparation»): «Where a tangible object is damaged, compensation equal to its depreciation of value is to be awarded instead of the cost of its repair if the cost of repair unreasonably exceeds the depreciation of value» (3).

[18] Per tutti, A. D’Adda, Il risarcimento, cit., 59 s.

[19] Ma v. il Projet de réforme de la responsabilité civile del 13 marzo 2017, su cui si sofferma T. Pellegrini, I costi di riparazione come risarcimento per equivalente. Note a margine del progetto francese di riforma della responsabilità civile, cit., 445 ss., ove ulteriori riferimenti alla nt. 1.

[20] V., ad es., C. Salvi, Il danno extracontrattuale, cit., 33 ss.; mentre con riguardo alla funzione effettivamente risarcitoria della reintegrazione in forma specifica cfr., anzitutto, R. Scognamiglio, Il risarcimento del danno, cit., 252 ss.

[21] Riferimenti in D’Adda, Il risarcimento, cit., 150. Variamente critica sulla evidenziata alternativa tra valori d’uso e di scambio è, però, la dottrina citata alla precedente nt. 11.

[22] Id., op. ult. cit., 153 ss., e, ancora, C. Salvi, Il danno extracontrattuale, cit., 35 s.

[23] Benché non trovi riscontro nell’ordinamento positivo, sistematicamente considerato, il preconcetto per cui la nozione di danno sia una soltanto, quella “differenziale” (C. Castronovo, Responsabilità civile, Giuffrè, 2018, 943 ss., già Id., Il risarcimento in forma specifica come risarcimento del danno, in Processo e tecniche, cit., 500 ss.; ma anche G. Ferri jr., Danno, cit., 799, e M. Barcellona, Trattato, cit., 925), rende vano ogni tentativo di reductio ad unum dell’obbligazione risarcitoria; laddove altri riconoscono che essa può concretizzarsi variamente pur a fronte di un unico danno (così E. Navarretta, Il risarcimento in forma specifica e il dibattito sui danni punitivi tra effettività, prevenzione e deterrenza, in Resp. civ. prev., 2019, 13, e ora F. Mezzanotte, La valutazione equitativa del danno, Giappichelli, 2022, 135 ss.).

[24] La apprezza per tali ragioni A. D’Adda, Rimborso dei costi (anche «antieconomici») di riparazione: l’art. 2058 c.c. e la guadagnata consapevolezza dogmatica del «diritto vivente», in Resp. civ. prev., 2023, spec. 1048.

[25] Ovvero al valore del veicolo prima del sinistro: riferimenti alla giurisprudenza di merito che erroneamente ragionava in tal senso in V. Verde, Brevi note in tema di riparazioni antieconomiche, in Arc. giur. circ. strad., 2003, 671; mentre nella giurisprudenza di legittimità si segnala per aver precisato che «il valore venale di un bene non costituisce il limite massimo incondizionatamente insuperabile, per il risarcimento di qualsiasi danno inferto al bene stesso», già Cass. 17 febbraio 1979, n. 1066, in Resp. civ. prev., 1979, 483 ss. (in senso contrario, v. ancora di recente, però, Cass. 28 aprile 2014, n. 9367, in One legale, e, in dottrina, G. Ferri jr., Danno extracontrattuale, cit., 808 s., e 816 s., secondo il quale il ristoro pecuniario in forma specifica di importo superiore al valore del bene illeso sarebbe, addirittura, impossibile “economicamente” ex art. 2058, primo comma, c.c., anziché eccessivamente oneroso alla stregua del capoverso della norma, essendo tale valutazione riferita ai casi di lesione, e non di “distruzione” del valore d’uso; analogamente, discorre, però, di impossibilità “giuridica”, M. Franzoni, Il danno risarcibile, II, in Tratt. resp. civ. Franzoni, Giuffrè, 2004, 263).

[26] In base all’idea che non possano configurarsi due obbligazioni in forma pecuniaria, entrambe risarcitorie, ma di entità differente: cfr. M. Barcellona, Trattato, cit., spec. 921 e 924, M. Franzoni, Dei fatti illeciti, cit., 1119 s.; C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., 947; G. Ferri jr., Danno extracontrattuale, cit., 810 s.

[27] Giustamente critici, su tali tendenze, A. D’Adda e L. Regazzoni, Realtà sociale e scienza giuridica nel secondo Novecento, in Pens. econ. it., 2021, 190, essendo piuttosto alla luce delle norme dell’ordinamento che le definizioni normative vanno elaborate, anziché a partire da «una nostra libera scelta fatta in sede diversa da quella dell’interpretazione» (U. Scarpelli, La definizione nel diritto, in Jus, 1959, 506, conf. A. Belvedere, Il problema delle definizioni nel codice civile, Giuffrè, 1977, ora in Id., Scritti giuridici, I. Linguaggio e metodo giuridico, Cedam, 2016, 37).

[28] Che l’entità del risarcimento per equivalente costituisca il parametro (ipotetico) alla luce del quale commisurare il funzionamento del risarcimento in forma specifica lo evidenzia, ad es., C. Salvi, Il danno extracontrattuale, cit., 41 – il che è condiviso anche dalla criticata dottrina per cui il secondo sarebbe ammissibile solo in quanto corrispondente al primo, anziché non eccessivamente oneroso rispetto ad esso.

[29] Conf., in dottrina, da ultimo A. D’Adda, Rimborso dei costi, cit., 1053.

[30] Spunti in questo senso in Id., Il risarcimento in forma specifica, cit., 220 ss. Intendendosi evidentemente il termine “compensativo” come riferito al danno c.d. differenziale, e non anche al danno da perdita del valore d’uso – trattandosi, altrimenti, pur sempre di “compensazione” di un danno diverso. Si evita così che la preferenza espressa dal danneggiato per il ripristino del valore d’uso, di per sé legittima ex art. 2058 cpv. anche quando più gravosa per il danneggiante (senza sollevare problemi di compatibilità con l’art. 3 Cost., come ritenuto da C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., 945), addossi al responsabile un peso economico irragionevole.

[31] Il che non è evidentemente in contrasto con l’affermazione, altrettanto condivisibile, che il nostro sistema di responsabilità civile contempli un “primato” del risarcimento per equivalente, in quanto sempre ammissibile, mentre quello (pecuniario) in forma specifica viene concesso, a richiesta del danneggiato, solo quando non eccessivamente gravoso rispetto al primo: C. Salvi, Il danno extracontrattuale, cit., 38 ss.

[32] Mentre nell’ordinamento tedesco si riscontra una primazia della Naturalrestitution ai sensi del § 249(1) BGB («Wer zum Schadensersatz verpflichtet ist, hat den Zustand herzustellen, der bestehen würde, wenn der zum Ersatz verpflichtende Umstand nicht eingetreten wäre»), su cui cfr. A. D’Adda, Il risarcimento in forma specifica, cit., 131 s., nt. 18, e già D. Mandrioli, Risarcimento del danno in forma specifica, in Riv. dir. comm., I, 1922, 385 ss., critico verso una tale impostazione di ispirazione “giursnaturalistica”.

[33] Lett. “nuovo per il vecchio”: fenomeno ammesso nell’ordinamento tedesco, purché le spese di riparazione non siano sproporzionate (unverhältnismäßigen Aufwendungen) ai sensi del § 251(2) BGB. Ed è ovvio che, per quella parte di dottrina che riconosce una e una sola nozione di danno, quello “differenziale”, la questione circa le ricadute di un eventuale incremento del patrimonio del danneggiato determinato dal risarcimento pecuniario in forma specifica costituisce, invece, uno “pseudoproblema” (C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., 947).

[34] Oltre che della (non im)possibilità a norma dell’art. 2058, primo comma, c.c.: limite evidentemente inoperante con riguardo al “risarcimento pecuniario in forma specifica”; ma v. alle ntt. precedenti la peculiare ricostruzione di G. Ferri jr., Danno extracontrattuale, cit., 808 ss.

[35] In tal senso, da ultimo, per tutti A. D’Adda, Rimborso dei costi, cit., 1055; ma v. già, tra gli altri, P. Trimarchi, La responsabilità civile, cit., 577 s., e R. Scognamiglio, Il risarcimento del danno in forma specifica, cit., 281 ss.

[36] Così, ritenendo il nostro sistema di responsabilità civile orientato esclusivamente a compensare i valori di mercato, ad es. M. Barcellona, Trattato, cit., 938 ss. (e, con particolare riguardo al caso in cui sia il giudice a disporre ex art. 2058 c.c. la prestazione di un bene di funzionalità maggiore di quello leso, G. Ferri jr., Danno extracontrattuale, cit., 824 s.). Analogamente, v. anche P.G. Monateri, La responsabilità civile, in Tratt. dir. civ. Sacco, Utet, 1993, 328 s. (Id., Gli usi e la ratio della dottrina della compensatio lucri cum damno. È possibile trovare un senso?, in Quadr., 1990, 282 s.), ma in virtù – sembrerebbe – della compensatio lucri cum damno, sulla cui applicazione in un caso del genere si potrebbe, però, obiettare che il beneficio da “compensare” dipenderebbe da una condotta diversa e successiva rispetto a quella dannosa (amplius, sul tema, L. Regazzoni, La compensatio lucri cum damno tra causa e funzione del beneficio, in Riv. dir. civ., 2021, 279 ss.).

In giurisprudenza, favorevole a tale soluzione è, ad es., Cass. 14 giugno 2001, n. 8062 (conf. Giud. pace Ascoli Piceno 25 giugno 2008, entrambe in One legale), secondo la cui massima: «posto che la funzione tipica del risarcimento è di porre il patrimonio del danneggiato nelle medesime condizioni in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non si fosse prodotto, qualora la riparazione del pregiudizio subito vada oltre la ricostituzione della situazione anteriore e produca un vantaggio economico al danneggiato, il giudice deve tenerne conto, riducendo la misura del risarcimento».

[37] Convincente, al riguardo, l’ormai risalente presa di posizione di R. Scognamiglio, Il risarcimento del danno in forma specifica, cit., 281, secondo cui è proprio in prospettiva equitativa che bisogna astenersi dal far sopportare un “prezzo” per la riparazione al danneggiato che avrebbe continuato ad adoperare l’oggetto in questione per un tempo più o meno lungo. è, infatti, condivisa anche da P. Trimarchi, La responsabilità civile, cit., 577 s., la preoccupazione che, diversamente, si finirebbe per imporre al danneggiato uno «scambio non voluto» (mentre andrebbe ammessa la detrazione dal risarcimento del maggior valore della cosa riparata «quando possa ritenersi che un inevitabile aumento del valore sarà realizzato dal creditore in danaro, oppure che egli avrebbe sostituito la cosa subito o entro un breve termine, in ogni caso»). Sulla scorta dell’esperienza tedesca, riconosce, però, in via generalizzata il diritto del danneggiante di ottenere la “restituzione” dell’incremento patrimoniale che rifletta anche un incremento del valore d’uso in termini di maggiore durata del bene – poiché si tratterebbe di un arricchimento effettivamente ingiustificato nella logica dell’art. 2058 c.c. – e in generale quando l’incremento puramente patrimoniale non deriva dalla necessità di sostituire una componente del bene leso con una nuova (ad es., perché non vi sono pezzi di ricambio con stesso grado di usura), bensì dalla preferenza accordata dal danneggiato a un ricambio di maggiore “qualità”, A. D’Adda, Il risarcimento, cit., 207 ss.

[38] Secondo uno schema di ragionamento che sembra riecheggiare l’osservazione di M. Barcellona, Trattato, cit., 938, per cui l’onerosità del rimedio specifico per il danneggiante «sembrerebbe dipendere dal plusvalore che esso procura al danneggiato»: il che è forse vero allorché le gomme o il motore di un’autovettura sono sostituite da “pezzi” nuovi, data l’irreperibilità sul mercato di componenti usata caratterizzate dal medesimo grado di usura di quelli danneggiati (Id., op. cit., 937, nt. 90), ma non può essere generalizzato: v. l’esempio appresso nel testo.

[39] In tal senso è, però, orientata la lettura di chi, in dottrina, colloca nella fase “estimativa” del risarcimento le peculiarità della riparazione pecuniaria in forma specifica, come F. Mezzanotte, Cos’è in re ipsa nel «danno in re ipsa»?, in corso di pubblicazione in Resp. civ. prev., 2023, testo e nt. 52, secondo cui la pronuncia in commento ha chiarito che l’eccessiva onerosità ex art. 2058 cpv. c.c. «debba essere vagliata non limitandosi ad uno statico raffronto tra costi di riparazione e costi di sostituzione del veicolo, giacché in astratto nulla esclude che una valutazione del danno parametrata ai primi, pur notevolmente superiori ai secondi, sia coerente con l’unitaria logica compensativa della tutela risarcitoria, e risponda all’unico pregiudizio cui l’ordinamento deve porre ristoro, quello in concreto arrecato all’interesse che la vittima aveva rispetto al bene andato distrutto, opportunamente valutato secondo l’id quod interest».

[40] Senza considerare quanto attiene alla sfera soggettiva del danneggiante: dovendosi escludere, anzitutto, che possa assumere qualche rilievo la difficultas praestandi del debitore (alla quale fa, nondimeno, cenno il primo motivo del ricorso accolto dalla Cassazione in commento): così, per tutti, R. Scognamiglio, Il risarcimento del danno in forma specifica, cit., 280. Ma lo stesso è a dirsi con riguardo ad altre circostanze soggettive come quella per cui il danno sia stato procurato dolosamente (contra, P.G. Monateri, La responsabilità civile, cit., 331, il quale esclude che il limite di cui all’art. 2058 cpv. c.c. possa applicarsi in ipotesi nelle quali è opportuno disincentivare gli illeciti di dolo). Orientati a smorzare la contrapposizione tra orientamenti soggettivi e oggettivi dell’eccessiva onerosità sono, in generale, quanti risolvono il problema del risarcimento delle spese antieconomiche di riparazione in una questione di quantificazione del danno per equivalente: così, ad es., M. Franzoni, Il danno risarcibile, cit., 270.

[41] Non potendosi escludere, in radice, la configurabilità di un risarcimento in forma specifica del danno non patrimoniale per il solo fatto che il limite dell’eccessiva onerosità, così come delineato dall’art. 2058 cpv. c.c., non sia direttamente applicabile (come ritiene, invece, C. Salvi, Il danno extracontrattuale, cit., 196). In generale, sul tema, v. di recente A. Gnani, Il risarcimento in forma specifica, cit., 171 ss.

[42] Mentre il risarcimento pecuniario in forma specifica avrebbe sempre un profilo “esistenziale” secondo M.R. Marella, La riparazione del danno in forma specifica, cit., spec. 257.

[43] A. D’Adda, Il risarcimento in forma specifica, cit., 224 s.

[44] Cfr., ancora, Id., op. ult. cit., 244 ss. (Id., Sub Art. 2058, cit., 650 ss.), e già G. Cian, Riflessioni, cit., 762 s., valorizzando la circostanza per cui l’art. 2058 c.c. non condiziona il risarcimento del danno non patrimoniale alla natura del bene leso.

[45] Per una sintetica panoramica su questo problema, con riguardo al dibattito tedesco, si rinvia a Id., Riflessioni, cit., 759, nt. 11.

[46] A. D’Adda, Il risarcimento in forma specifica e criteri di quantificazione del danno, in Resp. civ., 2004, 202, conf., di recente, T. Pellegrini, I costi di riparazione, cit., 455.

[47] V. i riferimenti di cui alla nt. precedente, cui adde M.R. Marella, La riparazione del danno in forma specifica, cit., 218 ss., la quale discorre di «impossibilità di reperire strumenti probatori in grado di stabilire con certezza già in corso di giustizi se il creditore ha intenzione ed effettivamente impiegherà la somma corrispondente agli Herstellungskosten nella rimozione del danno». L’A. soggiunge altresì che va preclusa al danneggiante la possibilità di ripetere, attraverso lo strumento dell’arricchimento senza causa, quanto prestato a titolo di reintegrazione nel caso in cui il danneggiato non impieghi effettivamente le somme ottenute nella riparazione, poiché ciò condurrebbe a “duplicare” il contenzioso in materia.

[48] Vedi, ad es., Cass. n. 2402/1998, cit., c. 1441, e già Cass. 26 febbraio 1979, n. 1264, in One legale. In dottrina, per tutti, sia pur incidentalmente, P. Trimarchi, La responsabilità civile, cit., 576.

[49] Su cui A. Chianale, Diritto soggettivo e tutela in forma specifica, Giuffrè, 1992, 35 ss., 89 s., e, in generale, R.H. Coase, The Nature of the Firm, in Economica, 1937, 386 ss. (trad. it. La natura dell’impresa, in Id., Impresa mercato e diritto, Bologna, 1995, 73 ss.).

[50] Da ultimo, A. D’Adda, Rimborso dei costi, cit., 1062.

[51] A titolo, come più volte ribadito, di risarcimento pecuniario in forma specifica (mentre si tratterebbe, per G. Ferri Jr., Danno extracontrattuale, cit., 816 s., di una domanda impossibile ex art. 2058, primo comma, c.c., dal momento che la riparazione è già avvenuta; sicché non rimarrebbe, secondo tale non condivisibile prospettiva, se non domandare il risarcimento del danno per equivalente).

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