Con la Sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto da una società di capitali avverso il mancato riconoscimento del diritto al rimborso del credito Iva maturato, posto che quest’ultima non aveva fornito alcuna valida dimostrazione con riferimento all’attività di impresa realmente esercitata.
Sullo specifico punto, i giudici di legittimità hanno evidenziato come nell’ordinamento domestico il concetto di “attività di impresa” debba necessariamente essere analizzato avuto riguardo: sia alla definizione resa in ambito Comunitario e contenuta nella Direttiva 2006/112/CE (“Direttiva IVA”) sia ai limiti introdotti nell’ordinamento domestico per quelle società che non svolgono una reale attività (c.d. “società di comodo”).
Più nel dettaglio, partendo dalla definizione di attività di impresa resa a livello Comunitario, va innanzitutto rilevato come questa, ai fini fiscali, risulti significativamente differente rispetto alla nozione che viene data dal punto di vista civilistico nell’ordinamento domestico, non rilevando elementi legati allo scopo o alle finalità perseguite dal soggetto passivo, ma soprattutto prescindendo del tutto dall’elemento organizzativo.
La Direttiva IVA considera infatti l’attività economica come “lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità”, distaccandosi dalla nozione di impresa recepita dal punto di vista civilistico e rendendo di conseguenza le due definizioni pressoché autonome fra loro.
Tale autonomia appare chiara innanzitutto laddove le definizioni fiscali non rinviano all’articolo 2082 Codice Civile (i.e. legato al concetto di attività organizzata), ma bensì all’articolo 2195; detto rinvio non è privo di conseguenze, considerato che il concetto di organizzazione in forma di impresa ai fini fiscali passa in secondo piano rispetto invece alla portata che esso assume ai fini civilistici (cfr. Corte di Cassazione, 5 Dicembre 2014, n. 25777).
In sostanza in ambito comunitario la configurazione di un’organizzazione di fattori produttivi, non necessariamente porta alla dimostrazione dello svolgimento di un’attività di impresa.
A tale ultimo riguardo e sotto un differente profilo, a livello domestico il concetto di svolgimento di attività di impresa, deve essere analizzato anche alla luce dei limiti dettati dalla normativa sulle c.d. società di comodo.
In particolare per ciò che riguarda l’IVA, le penalizzazioni previste nei confronti delle “società di comodo” – intendendo con tale locuzione, sia le società che non superano il c.d. test di operatività di cui al comma 1 dell’art. 30 della Legge 23 dicembre 1994, n. 724, sia quelle che presentano le condizioni di c.d. perdita sistematica di cui all’art. 2, comma 36-decies, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138- consistono, tra le altre nell’impossibilità di utilizzare il credito Iva risultante dalla dichiarazione annuale, conseguendone anche l’impossibilità di richiederne il rimborso.
Laddove, non venga superato il c.d. test di operatività, legato alla sottoproduzione di ricavi rispetto alla potenziale redditività connessa alla detenzione degli asset patrimoniali da parte della società, viene introdotta una presunzione “iuris tantum” di inoperatività, contro la quale è fatta salva la possibilità per il contribuente di dare dimostrazione della presenza di “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto” (cfr. Corte di Cassazione 10 marzo 2017, n. 6195).
Delineato il suddetto quando normativo, i giudici hanno rilevato come la società in analisi non avesse fornito alcun oggettivo riscontro in ordine allo svolgimento di una reale attività imprenditoriale, motivazione che ha portato al rigetto del ricorso presentato e alla perdita del diritto al rimborso del credito Iva maturato.