Introduzione
L’art. 60 del Decreto Legge n. 50 del 24 aprile 2017[1], reca la disciplina tributaria, ai fini delle imposte sui redditi, dei proventi rivenienti dall’investimento effettuato nelle società, o nei fondi gestiti, da manager e gestori attraverso strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali “rafforzati”. Viene così disciplinata la fiscalità del c.d. carried interest, stabilendo che, al ricorrere delle condizioni ivi previste, tali proventi costituiscono in ogni caso redditi di capitale o redditi diversi di natura finanziaria (escludendo quindi che i medesimi proventi possano essere qualificati quali redditi di lavoro dipendente o ad essi assimilati).
La disposizione è di assoluta rilevanza nel settore del private equity, superando le incertezze che si ponevano in passato, e rappresenta un importante segnale a sostegno di una visione strategica della politica fiscale e dello sviluppo economico del nostro Paese.
Il carried interest nel Private equity
Le operazioni di private equity, per loro natura, necessitano generalmente di un modello contrattuale di organizzazione dei rapporti tra gli investitori ed il team di managers del fondo che preveda meccanismi di coinvolgimento di questi ultimi nella assunzione dei rischi correlati agli investimenti, in grado di allinearne gli interessi economici a quelli degli altri investitori.
In quest’ambito, si sono diffusi nella prassi di mercato peculiari strumenti finanziari, riservati ai managers e gestori di fondi chiusi, portatori del c.d. “carried interest”, ovverosia di una partecipazione agli utili proporzionalmente maggiore rispetto a quella riconosciuta alla generalità degli investitori, solitamente a fronte dell’assenza di diritti amministrativi e dell’esistenza di temporanei vincoli alla loro trasferibilità. Viene infatti prevista, in linea generale, una partecipazione al risultato di gestione una volta che il fondo sia giunto al termine della sua esistenza (quindi, una volta che siano stati realizzati tutti gli investimenti effettuati), con una postergazione nella percezione dell’utile sino a quando la generalità degli investitori ricevono un certo ritorno base sull’investimento effettuato (c.d. hurdle rate) e una successiva accelerazione, superata la soglia di tale ritorno base, che può consentire dapprima un recupero di utile rispetto alle quote ordinarie (c.d. catch up) e poi, in caso di performance particolarmente favorevole del fondo, anche uno speciale privilegio nella distribuzione dell’utile ulteriore (il carried interest).
La questione della qualificazione reddituale di tali proventi era stata, in passato, fonte di incertezze interpretative, soprattutto laddove erano previste clausole che subordinavano il possesso di tali strumenti all’esistenza del rapporto di lavoro (c.d. leavership provisions), ponendosi il dubbio se i relativi proventi potessero essere ricondotti nell’ambito dei redditi da lavoro[2]. E l’incertezza, come sappiamo, scoraggia gli investimenti.
Con l’art. 60 del D.L. n. 50/2017 viene ora invece definito in via normativa che, in presenza di determinati requisiti di ordine quantitativo e temporale dell’investimento, i relativi proventi costituiscono redditi di capitale o redditi diversi (normalmente tassati con l’aliquota del 26 per cento) e non possono, dunque, essere considerati una mera modalità di remunerazione dell’attività lavorativa prestata (soggetta, invece, a tassazione ordinaria con le aliquote progressive IRPEF).
Le condizioni per la qualificazione del carried interest come reddito di natura finanziaria
Preliminarmente, si rileva che la disposizione di cui all’art. 60 del D.L. n. 50/2017 riguarda i proventi:
- derivanti dalla partecipazione, diretta o indiretta, a società, enti o OICR, residenti o istituiti nel territorio dello Stato o in Stati o territori che consentono un adeguato scambio di informazioni, come individuati dal decreto ministeriale del 4 settembre 1996 (c.d. white list);
- percepiti da amministratori e dipendenti di tali società, enti o OICR, ovvero di soggetti legati alle entità di cui al punto precedente da un rapporto diretto o indiretto di controllo o gestione, compresi – come precisato dalla relazione illustrativa al disegno di legge di conversione – i soggetti delegati alla gestione e quelli con funzioni di advisor;
- se relativi ad azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi “diritti patrimoniali rafforzati” (trovando quindi applicazione sia per gli strumenti finanziari portatori del carried interest, sia per i piani di co-investimento effettuati solitamente dai managers delle società targets nell’ambito delle operazioni di leverage buy out).
Ciò detto, l’art. 60, comma 1 del D.L. n. 50/2017 prevede che i proventi percepiti costituiscono “in ogni caso redditi di capitale o redditi diversi” se ricorrono i seguenti requisiti:
a) ammontare minimo di investimento. L’impegno di investimento complessivo di tutti i dipendenti e gli amministratori deve comportare un esborso effettivo pari ad almeno l’1 per cento dell’investimento complessivo effettuato dall’organismo di investimento collettivo del risparmio o del patrimonio netto nel caso di società o enti. Ai fini della determinazione dell’esborso complessivo, si tiene conto:
- dell’ammontare assoggettato a tassazione come reddito in natura di lavoro in sede di attribuzione/sottoscrizione delle azioni, quote o strumenti finanziari, e, nel caso di soggetti non residenti, dell’ammontare che sarebbe stato assoggettato a tassazione laddove questi ultimi fossero stati residenti in Italia (art. 60, comma 2);
- dell’ammontare sottoscritto in azioni, quote o altri strumenti finanziari senza diritti patrimoniali rafforzati (art. 60, comma 3).
b) hurdle rate. I proventi delle azioni, quote o strumenti finanziari che danno i diritti patrimoniali rafforzati maturano solo dopo che tutti i soci o partecipanti all’organismo di investimento collettivo del risparmio hanno percepito un ammontare pari al capitale investito e ad un rendimento minimo previsto nello statuto o nel regolamento ovvero, abbiano realizzato con la cessione un prezzo di vendita almeno pari al capitale investito e al predetto rendimento minimo, nel caso di cambio di controllo; e
c) minimum holding period di 5 anni. Le azioni, quote o strumenti finanziari aventi i suindicati diritti patrimoniali rafforzati sono detenuti dai dipendenti e amministratori o, in caso di decesso, dai loro eredi, per un periodo non inferiore a 5 anni, o se precedente al decorso di tale periodo quinquennale, fino alla data di cambio di controllo o di sostituzione del soggetto incaricato della gestione.
Come emerge dalla relazione illustrativa al disegno di legge di conversione, i sopra citati requisiti di ordine quantitativo e temporale dell’investimento sono volti ad allineare gli interessi economici ed i rischi (di perdita del capitale investito) dei gestori con quelli della generalità degli investitori, in assenza dei quali i proventi percepiti su azioni, quote o strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati devono essere qualificati come redditi di lavoro o redditi di natura finanziaria a seconda delle circostanze.
L’ultimo comma dell’art. 60 del D.L. n. 50/2017 prevede che le disposizioni in commento si applicano ai proventi percepiti a partire dal 24 aprile 2017 (data di entrata in vigore del decreto legge), anche in relazione ad azioni, quote e strumenti assegnati o sottoscritti prima di tale data.
Si rammenta, infine, che le disposizioni contenute nel D.L. n. 50/2017 sono subordinate alla conversione in legge entro 60 giorni dall’entrata in vigore, a pena di decadenza.
[1] Pubblicato sul Supplemento Ordinario n. 20/L alla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 2017 ed entrato in vigore in pari data.
[2] Cfr. Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 103/E del 4 dicembre 2012 in cui è stato precisato che tali proventi si configurano quali redditi di capitale quando la partecipazione agli utili “(…) non è subordinata all’esistenza del rapporto di lavoro, dal momento che il beneficiario potrebbe continuare a mantenere il possesso delle azioni anche in caso di cessazione del rapporto stesso”.