1. Direttiva. Gli scopi.
La Direttiva 1023/2019 sui quadri di ristrutturazione preventiva (preventive restructuring frameworks)[1], del 20 giugno 2019, intende rafforzare in Europa attraverso regole simili nelle legislazioni nazionali la cultura del recupero dell’impresa in crisi e quindi la “prevenzione”. In particolare intende agevolare la ristrutturazione delle imprese in difficoltà finanziaria, anche se non esclude interventi nel caso di imprese in difficoltà per altre ragioni[2]. La Direttiva introduce l’obbligo per gli Stati membri di assicurare un regime diretto a facilitare la ristrutturazione preventiva dell’impresa ove vi sia probabilità d’insolvenza (insolvency likelihood). Per raggiungere tale risultato la Direttiva non prevede una disciplina completa della procedura di ristrutturazione, ma ne regola soltanto alcuni aspetti: la previsione di early warning tools, la possibilità di concessione e revoca della sospensione delle azioni esecutive, il contenuto e la disciplina del piano di ristrutturazione, il regime di formazione, per alcuni versi obbligatoria, delle classi, ivi compresi gli equity holders, gli interventi, per un verso limitati e per l’altro obbligatori, del giudice e dell’Autorità amministrativa che in taluni ordinamenti ne esercita le funzioni ( in Italia il Ministero dello Sviluppo nel caso dell’amministrazione straordinaria).
Nel corso dei lavori preparatori il testo della Direttiva, che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 17 luglio 2021, ha subito parecchie modifiche, anche se le linee generali sono rimaste immutate rispetto alla Proposta presentata dalla Commissione il 22 novembre 2016. Il legislatore italiano aveva mostrato sin da subito la volontà di adeguarsi alle linee indicate dal legislatore europeo. La legge delega 155/2017 (art. 1) dava mandato al legislatore delegato di tener conto della “normativa dell’Unione Europea” ed in particolare della Raccomandazione 135/2014/UE del 12 marzo 2014. La Raccomandazione era diretta ad assicurare l’introduzione da parte degli Stati membri di una disciplina uniforme in materia di insolvenza. Il primo Considerando della Raccomandazione indicava come finalità “garantire alle imprese sane in difficoltà finanziaria, ovunque siano stabilite nell’Unione, l’accesso a un quadro nazionale in materia di insolvenza che permetta loro di ristrutturarsi in una fase precoce in modo da evitare l’insolvenza, massimizzandone pertanto il valore totale per creditori, dipendenti, proprietari e per l’economia in generale”. Un secondo obiettivo era di garantire “una seconda opportunità in tutta l’Unione agli imprenditori onesti che falliscono”.
Gli obiettivi perseguiti dalla Raccomandazione erano fondamentalmente i medesimi della Direttiva, che è stata adottata perché la Raccomandazione non aveva sortito risultati concreti. La legge delega aveva dunque posto al legislatore delegato un obiettivo preciso che, come si evince da alcuni passi della Relazione al Codice della crisi, questi aveva ben in mente[3]. Tuttavia se anche la prima impressione è che il legislatore abbia tenuto conto dei vincoli europei, a differenza delle indicazioni derivanti dalla normativa Uncitral richiamata dall’art. 1 della legge delega – non vi è infatti nel Codice alcuna norma che riguardi il riconoscimento delle procedure d’insolvenza aperte al di fuori dell’Unione Europea – ad un esame più attento emergono aporie e difetti di coordinamento, cui dovrà rimediare il decreto correttivo di prossima emanazione, ove non si voglia porre mano nuovamente alla disciplina di legge prima di giungere alla scadenza del 17 luglio 2021.
2. Gli early warning tools.
Tra i principi generali che informano i quadri di ristrutturazione preventiva la Direttiva richiede che in ogni Stato membro i debitori “abbiano accesso a uno o più strumenti di allerta precoce chiari e trasparenti in grado di individuare situazioni che potrebbero comportare la probabilità di insolvenza e di segnalare al debitore la necessità di agire senza indugio”.
In attuazione di questo principio, già chiaramente indicato nel testo originario dell’allora Proposta di Direttiva del 22 novembre 2016, il Codice della crisi ha introdotto nel nostro ordinamento l’allerta. La disciplina dell’allerta ha come presupposto la previsione per tutti gli imprenditori collettivi dell’obbligo di organizzare l’impresa secondo assetti adeguati ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative.
Il principio è affermato in termini generali (meno rigorosi per l’imprenditore individuale) dall’art. 2086 c.c., opportunamente modificato, dall’art. 3 del Codice ed è ribadito nel testo rivisto della disciplina della governance dei diversi tipi societari, sia delle società di persone che di capitali. La disciplina degli assetti non fa ancora parte dell’allerta. Come ben chiarisce l’art. 12, primo comma, CCII, costituiscono strumenti di allerta gli obblighi di segnalazione posti a carico degli organi di controllo e dei revisori delle società (allerta interna) e dell’Agenzia delle Entrate, dell’INPS, e dell’agente della riscossione (allerta esterna) indicati nell’art. 15. Tali obblighi di segnalazione sono finalizzati, come gli obblighi organizzativi, alla tempestiva rilevazione degli indizi di crisi d’impresa ed alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione, ma, mentre gli obblighi relativi agli assetti organizzativi gravano su qualunque imprenditore, gli obblighi di segnalazione riguardano soltanto alcune tipologie di imprese, indicate nel quarto par. dell’art. 12.
L’art. 14 del codice della crisi fa obbligo agli organi di controllo, al revisore ed alla società di revisione di segnalare immediatamente all’organo amministrativo l’esistenza di fondati indizi della crisi. In caso di omessa o inadeguata risposta, ovvero di mancata adozione nei successivi sessanta giorni delle misure ritenute necessarie per superare lo stato di crisi, gli organi di controllo o i revisori che hanno effettuato la segnalazione informano senza indugio l’OCRI, cioè l’organismo di composizione della crisi istituito presso le Camere di commercio. Ne segue la convocazione dell’imprenditore da parte dell’OCRI, la sua audizione e, ove l’imprenditore ne faccia domanda, l’avvio della procedura di composizione assistita della crisi. All’audizione o alla conclusione della procedura di composizione assistita può seguire l’apertura, su domanda dell’imprenditore, di una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza e quindi del concordato preventivo, dell’accordo di ristrutturazione o della liquidazione giudiziale, che può essere richiesta anche dai creditori o dal pubblico ministero. Ai sensi dell’art. 22 del Codice nel caso in cui l’imprenditore non compaia davanti all’OCRI o non adotti alcuna iniziativa e risulti evidente lo stato d’insolvenza, segue la segnalazione al P.M. che può chiedere l’apertura della liquidazione giudiziale.
L’allerta esterna si traduce in obblighi di segnalazione da parte dell’Agenzia delle Entrate, dell’INPS e dell’agente di riscossione quando l’esposizione debitoria dell’imprenditore ha superato determinate soglie. La mancata segnalazione comporta la sanzione della perdita del privilegio del credito. La segnalazione deve essere effettuata prima all’imprenditore e poi all’OCRI, che provvederà alla convocazione ed audizione del debitore.
Il Ventiduesimo Considerando della Direttiva osserva che “E’ opportuno…predisporre uno o più strumenti di allerta precoce per incoraggiare i debitori che cominciano ad avere difficoltà finanziarie ad agire in una fase precoce. Gli strumenti di allerta precoce che assumono la forma di meccanismi di allerta che indicano il momento in cui il debitore non ha effettuato taluni tipi di pagamento potrebbero essere attivati, ad esempio, dal mancato pagamento di imposte o di contributi previdenziali. Tali strumenti potrebbero essere sviluppati sia dagli Stati membri o da entità private, a condizione che l’obiettivo sia raggiunto”.
L’art. 3, par. 1, della Direttiva prevede che “Gli Stati membri provvedono affinché i debitori abbiano accesso a uno o più strumenti di allerta precoce chiari e trasparenti in grado di individuare situazioni che potrebbero comportare la probabilità di insolvenza e di segnalare al debitore la necessità di agire senza indugio”. Il secondo par. aggiunge che “Gli strumenti di allerta precoce possono includere quanto segue: a) meccanismi di allerta nel momento in cui il debitore non abbia effettuato determinati tipi di pagamento; b) servizi di consulenza forniti da organizzazioni pubbliche o private; c) incentivi a norma del diritto nazionale rivolti a terzi in possesso di informazioni rilevanti sul debitore, come i contabili e le autorità fiscali e di sicurezza sociale, affinché segnalino al debitore gli andamenti negativi”. Infine il quinto par. aggiunge che “Gli Stati membri possono fornire sostegno ai rappresentanti dei lavoratori nella valutazione della situazione economica del debitore”.
In conclusione la Direttiva prevede un obbligo generico di adottare strumenti di allerta precoce, senza introdurre vincoli precisi. Gli Stati membri hanno ampia discrezionalità nel prevedere il contenuto degli strumenti di allerta precoce, che possono, ma non debbono necessariamente, includere obblighi di informazione a carico di soggetti pubblici o privati nel momento in cui il debitore non abbia effettuato determinati tipi di pagamenti; meccanismi che incentivino soggetti terzi che siano in possesso di informazioni rilevanti sul debitore, tra cui i contabili e le autorità fiscali e di sicurezza sociale, perché segnalino a quest’ultimo, gli andamenti negativi della sua attività, ed infine servizi di consulenza. Le informazioni possono provenire da soggetti interni all’impresa (come ad esempio i contabili, espressione che può comprendere le funzioni di controllo affidate ai sindaci e ai revisori) o da soggetti esterni. Da questo punto di vista pertanto le previsioni della Direttiva possono corrispondere al duplice meccanismo dell’allerta interna ed esterna adottato dal legislatore italiano.
La Direttiva non prevede segnalazioni a soggetti diversi dall’imprenditore. Non regola le conseguenze della mancata attivazione dell’imprenditore dopo la segnalazione e non prevede nulla che corrisponda al ruolo dell’OCRI secondo la disciplina prevista dal codice della crisi.
Il testo della Direttiva è sensibilmente diverso da quello originario della Proposta presentata dalla Commissione il 22 novembre 2016. In tale testo gli early warning tools erano definiti come il complesso degli strumenti che possono evidenziare l’avvio di un peggioramento delle performance dell’impresa e segnalare all’imprenditore la necessità di attivarsi con urgenza (art. 3). Inoltre l’allora Sedicesimo Considerando chiariva che gli early warning tools potevano essere rappresentati da obblighi nella redazione dei bilanci e nel monitoraggio dell’attività oltre che nel dovere di terzi in possesso di informazioni rilevanti, quali i revisori, le Autorità incaricate della riscossione delle imposte e dei contributi previdenziali di segnalare uno sviluppo negativo. Questi soggetti potevano essere incentivati od obbligati secondo la previsione della disciplina interna dei singoli Stati.
La necessità di tener conto delle esigenze dei diversi Stati membri, molti dei quali non avevano nella loro legislazione meccanismi di allerta, ha portato alla redazione di un testo di contenuto più blando.
Non ne deriva peraltro incompatibilità tra la disciplina adottata dal legislatore italiano e quella indicata dalla Direttiva, che ha previsto regole a maglie larghe, limitate ad obblighi di informazione, che non escludono le soluzioni più ampie e rigorose adottate dal legislatore italiano[4].
3. I preventive restructuring frameworks.
La Direttiva introduce l’obbligo per gli Stati membri di assicurare un regime, definito come quadri di ristrutturazione preventiva (preventive restructuring frameworks) diretto a facilitare la ristrutturazione dell’impresa ove vi sia probabilità d’insolvenza. Tale regime, riservato ai debitori in difficoltà finanziarie, al fine di impedire l’insolvenza e di garantire la sostenibilità economica del debitore (art. 1, par. 1, lett. a)[5] non viene definito nella sua struttura, limitandosi l’art. 4 a precisare che esso deve consentire al debitore di ristrutturare i suoi debiti o la sua attività, ripristinare l’operatività dell’azienda ed evitare l’insolvenza. Il legislatore europeo non ci dice in che cosa in concreto possa consistere questa disciplina preventiva. Essa può tradursi in una o più procedure od anche soltanto in idonee misure o disposizioni. Non ha carattere esclusivo perché gli Stati membri possono prevedere altre disposizioni volte ad evitare l’insolvenza ed inoltre, ai sensi del par. 5 dell’art. 4, sono fatti salvi altri eventuali quadri di ristrutturazione previsti dal diritto nazionale.
Ad essa potranno accedere i debitori od anche i creditori ed i rappresentanti dei lavoratori, ma con l’assenso del debitore. Il coinvolgimento del giudice o dell’autorità amministrativa può essere limitato dagli Stati membri ai casi in cui esso è necessario e proporzionato, in modo che i diritti di tutte le parti coinvolte siano garantiti.
Se il contenuto del quadri di ristrutturazione è ampio e generico, in realtà la Direttiva stabilisce alcune regole più stringenti che riguardano l’adozione di un piano di ristrutturazione, il suo contenuto e la sua approvazione, la formazione di classi di creditori ai fini del voto sul piano, l’intervento – in taluni casi obbligatorio – del giudice, la nomina di un professionista incaricato di assistere il debitore ed i creditori o di vigilare o di gestire la ristrutturazione, la sospensione delle azioni esecutive che può riguardare tutti o una parte soltanto dei creditori. Ancora la Direttiva regola il regime di prededuzione e di stabilità della finanza nuova, la non assoggettabilità ad azione di nullità, annullabilità e revoca dei contratti stipulati dall’imprenditore in pendenza del piano, i doveri dei dirigenti quando sussista probabilità di insolvenza.
Per meglio intendere la portata della Direttiva è bene aggiungere che il legislatore europeo ha inteso il termine ristrutturazione in termini molto ampi. La definizione offerta dall’art. 2, lett. a) chiarisce infatti che per «ristrutturazione» si intendono misure che “intendono ristrutturare le attività del debitore che includono la modifica della composizione, delle condizioni o della struttura delle attività e delle passività del debitore o di qualsiasi altra parte della struttura del capitale del debitore, quali la vendita di attività o parti dell’impresa, e, se previsto dal diritto nazionale, la vendita dell’impresa in regime di continuità aziendale, come pure eventuali cambiamenti operativi necessari, o una combinazione di questi elementi”.
Nel Ventiquattresimo Considerando la Commissione sottolinea che il regime di ristrutturazione deve essere disponibile prima che il debitore divenga insolvente secondo la normativa nazionale quando l’insolvenza comporta normalmente la nomina di un liquidatore ed il totale spossessamento del debitore. Onde evitare abusi dei quadri di ristrutturazione, si aggiunge che è opportuno che le difficoltà finanziarie del debitore presentino una probabilità di insolvenza e che il piano di ristrutturazione sia tale da impedire l’insolvenza e garantire la sostenibilità economica dell’impresa. E’ quindi sufficiente che vi sia una probabilità d’insolvenza quale presupposto oggettivo per l’accesso. Va sottolineato che il codice della crisi è in linea con questa precisazione del legislatore europeo, perché mantiene lo stato di crisi quale condizione di ingresso al concordato preventivo ed ha cura di offrirne una definizione come lo stato di difficoltà economico – finanziaria che rende probabile l’insolvenza ” ( art. 2, lett. a). Va peraltro aggiunto che, dopo molte incertezze durante la fase dei lavori preparatori, l’art. 2, par. 2, della Direttiva lascia le definizioni di insolvenza e probabilità di insolvenza al diritto nazionale degli Stati membri.
Come si è accennato, la Proposta prevede limiti al coinvolgimento del giudice o dell’Autorità amministrativa per i Paesi che prevedono che in luogo del giudice possa provvedere l’Amministrazione, possibilità limitata in Italia all’amministrazione straordinaria. Il Diciottesimo considerando chiarisce che questi limiti aumentano l’efficienza riducendo i costi ed i tempi della ristrutturazione. E’ infatti nozione di comune esperienza che l’intervento del giudice o dell’autorità amministrativa che debbono, in genere, approvare il piano, allunga i tempi del procedimento e comporta maggiori spese. Il loro intervento pertanto deve essere limitato ai casi in cui è necessario e proporzionato allo scopo di salvaguardare gli interessi del debitore e delle altre parti che probabilmente verranno interessate dall’esecuzione del piano di ristrutturazione.
Proprio per questa ragione il debitore deve esser lasciato in linea di principio nella disponibilità dei beni ed in condizioni di gestire l’ordinaria attività ( art. 5, par. 1, della Direttiva) secondo il modello del debtor in possession. Da questo punto di vista lo spossessamento attenuato dell’imprenditore previsto dalla disciplina italiana del concordato preventivo e la piena libertà gestionale che è di regola lasciata nel caso degli accordi di ristrutturazione, salvo l’ipotesi in cui sia già pendente istanza di liquidazione giudiziale, sono perfettamente in linea con il modello europeo.
Secondo la Direttiva la nomina di un professionista esperto in ristrutturazione, con funzioni di mediatore nelle trattative con i creditori ovvero di supervisore dell’attività del debitore, non deve essere sempre obbligatoria, ma va decisa caso per caso, in relazione alla situazione in essere ed alle necessità del debitore ( art. 5, par. 2). Così pure l’apertura della procedura non richiederà un provvedimento del giudice fino a quando non saranno pregiudicati i diritti dei terzi ( Diciottesimo Considerando). Tuttavia un certo grado di controllo deve essere assicurato quando sia necessario garantire i diritti dei creditori e dei terzi. L’art. 5, par. 3, individua due casi in particolare: la sospensione delle azioni esecutive e l’approvazione del piano di ristrutturazione nonostante il voto contrario di alcune classi di creditori.
4. Presupposti soggettivo ed oggettivo delle procedure. Nomina del commissario giudiziale.
La Direttiva non offre una definizione del “debitore” che, ai sensi dell’art. 4 è legittimato ad accedere ai quadri preventivi di ristrutturazione. Una definizione del resto non è offerta neppure con riguardo al diritto all’accesso agli strumenti di allerta precoce. Tuttavia l’art. 1, par. 2, lett. h) precisa che la Direttiva non si applica a taluni tipi di imprese ( ad esempio le banche, le imprese di assicurazione, le imprese di investimento collettivo) ed alle persone fisiche che non sono imprenditori. Il Ventesimo Considerando osserva che gli Stati membri dovrebbero poter limitare l’accesso ai quadri di ristrutturazione preventiva alle persone giuridiche, in quanto le difficoltà finanziarie degli imprenditori dovrebbero poter essere affrontate anche tramite l’esdebitazione o ristrutturazioni formali basate su accordi contrattuali. Di conseguenza l’art. 1, quarto par., secondo cpv. consente agli Stati membri di limitare l’applicazione dei quadri di ristrutturazione preventiva alle persone giuridiche.
Poiché secondo il codice della crisi il concordato preventivo si applica agli imprenditori commerciali sopra soglia e gli accordi di ristrutturazione seguono le stesse regole, salvo l’incertezza interpretativa tuttora esistente sull’applicabilità agli imprenditori agricoli, ne deriva che per verificare la piena compatibilità della disciplina dettata dal codice con la Direttiva, occorre guardare anche alle procedure di composizione della crisi e dell’insolvenza previste per gli imprenditori commerciali sotto soglia e per gli imprenditori agricoli, in pratica al concordato minore disciplinato dagli artt. 74 e ss. del codice. Senza procedere ad una comparazione analitica di questa disciplina con i requisiti previsti dalla Direttiva, è sufficiente osservare che nel caso del concordato minore non è prevista la formazione di classi. Vero è che, come meglio vedremo più avanti, l’art. 4, terzo par., terzo cpv. della Direttiva consente agli Stati membri di escludere le PMI dall’obbligo di formazione delle classi. Tale deroga tuttavia risolve il problema della compatibilità del concordato minore con la Direttiva nel caso delle imprese sotto soglia, ma non nel caso delle imprese agricole, che possono avere dimensioni anche ragguardevoli e per le quali il legislatore italiano non detta regole legate alle dimensioni.
Si deve dunque concludere che per le imprese agricole il legislatore italiano dovrà adeguare la normativa introdotta dal codice della crisi. In alternativa l’immediata esecutività nell’ordinamento della Direttiva dopo che sia scaduto il termine per il recepimento comporterà che l’imprenditore agricolo potrà accedere al concordato preventivo ed a fortiori agli accordi di ristrutturazione.
In taluni casi la Direttiva prevede la possibilità per gli Stati membri di dettare regole particolari per le micro, piccole e medie imprese, la cui definizione è peraltro rimessa al diritto nazionale ( art. 2, par. 2, lett. c), anche se il Diciottesimo Considerando osserva che Stati membri potrebbero prendere in debita considerazione la direttiva 2013/34/UE del Parlamento europeo e del Consiglio o la raccomandazione della Commissione, del 6 maggio 2003, relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese. Così il Considerando 58 consente che gli Stati membri escludano le PMI dal cross class cram down[6].
Il presupposto oggettivo del quadro di ristrutturazione preventiva è dato dalla probabilità d’insolvenza, come dispone l’art. 4 della Direttiva. Si tratta peraltro di nozione che, ai sensi dell’art. 2, par. 2, della Direttiva è rimessa alla legislazione nazionale. E’ agevole osservare che il presupposto oggettivo previsto dalla Direttiva coincide con quello richiesto dal legislatore italiano per il concordato preventivo e per gli accordi di ristrutturazione posto che in entrambi i casi è sufficiente lo stato di crisi, anche se non costituisce ostacolo il fatto che l’imprenditore sia in stato di insolvenza. E’ appena il caso di ricordare, come si è già accennato, che lo stato di crisi è definito dall’art. 2 lett. a) del codice come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza …e che per le imprese si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”. La probabilità d’insolvenza di cui parla la Direttiva e la definizione del codice non sono in contrasto, anche perché la Direttiva rinvia alla legislazione nazionale.
Neppure nel caso di imprese minori ( sotto soglia) e di imprese agricole vi possono essere difficoltà perché se è vero che per esse il codice della crisi parla di “sovraindebitamento”, l’art. 2, lett. c) del codice della crisi definisce tale condizione come “lo stato di crisi o di insolvenza” per quanto qui interessa dell’imprenditore minore o dell’imprenditore agricolo.
La disciplina dei quadri di ristrutturazione preventiva prevede all’art. 5 che il debitore “che accede alle procedure di ristrutturazione preventiva mantenga il controllo totale o almeno parziale dei suoi attivi e della gestione corrente dell’impresa”. Tale disciplina è certamente compatibile con le regole previste per il concordato preventivo dall’art. 94 del codice della crisi in forza del quale il debitore conserva l’amministrazione dei suoi beni e l’esercizio dell’impresa sotto la vigilanza del commissario giudiziale. Gli atti di straordinaria amministrazione vanno autorizzati dal giudice delegato e per taluni atti, come per lo scioglimento dai contratti pendenti, ugualmente il debitore non può provvedere da solo, ma anche tale regime è certamente compatibile con quello previsto dalla Direttiva. Nel caso degli accordi di ristrutturazione, com’è noto, il debitore è nella piena disponibilità dell’impresa, fatta salva la nomina del commissario giudiziale quando il debitore ai sensi dell’art. 44, quarto comma, del codice faccia domanda di accesso al giudizio di omologazione degli accordi in presenza di istanze di liquidazione giudiziale. Nel concordato minore in caso di sovraindebitamento il debitore non è spossessato, anche se ai sensi dell’art. 78, comma 5, del codice gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti senza l’autorizzazione del giudice sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori alla pubblicità del decreto di apertura.
Come abbiamo appena visto la nomina del commissario giudiziale è obbligatoria nel caso di domanda di concordato preventivo e può avvenire nel caso degli accordi di ristrutturazione ove la domanda di omologazione sia stata preceduta da istanze dei creditori di apertura della liquidazione giudiziale. Nel concordato minore l’OCC non svolge funzioni paragonabili a quelle del commissario. L’art. 5, par. 2 della Direttiva dispone che “Ove occorra, la nomina da parte dell’autorità giudiziaria o amministrativa di un professionista nel campo della ristrutturazione è decisa caso per caso, eccetto in determinate situazioni in cui gli Stati membri possono richiedere sempre la nomina obbligatoria di tale professionista”.
Il Trentesimo Considerando chiarisce che la ratio della norma è di evitare costi inutili, agevolare la ristrutturazione precoce ed incoraggiare i debitori a richiederla, evitando che il debitore perda il controllo dell’impresa. Di conseguenza la nomina di un professionista che svolga funzioni di vigilanza od assuma parzialmente il controllo delle operazioni correnti dovrebbe essere disposta “caso per caso in funzione delle circostanze o delle esigenze specifiche del debitore”. In talune ipotesi peraltro l’art. 5 ed il Considerando ritengono che gli Stati membri possano sempre richiedere la nomina del professionista: quando il debitore beneficia di una sospensione generale delle azioni esecutive individuali; quando il piano di ristrutturazione deve essere omologato mediante una ristrutturazione trasversale dei debiti; quando la nomina è richiesta dal debitore o dalla maggioranza dei creditori purché i creditori coprano i costi e gli onorari del professionista. Il Considerando aggiunge l’ulteriore ipotesi che il piano includa misure che incidono sui diritti dei lavoratori o il debitore o la sua dirigenza abbiano agito in modo criminale, fraudolento, o pregiudizievole nelle relazioni d’affari. Si tratta però di casi che non sono ripetuti nel testo dell’art. 5.
In conclusione la disciplina dettata dalla Direttiva è in contrasto con quella prevista dal codice della crisi in caso di concordato perché qui la nomina del commissario è sempre obbligatoria ed anche in caso di accordo di ristrutturazione, ove la nomina è obbligatoria quando vi siano istanze di liquidazione giudiziale pendenti. Come si è accennato, la Direttiva ammette una deroga al criterio della nomina caso per caso quando “una sospensione generale delle azioni esecutive individuali è concessa da un’autorità giudiziaria o amministrativa e detta autorità decide che tale professionista è necessario per tutelare gli interessi delle parti” ( art. 5, co. 3). Nel caso del concordato la sospensione generale delle azioni esecutive segue automaticamente alla presentazione della domanda di concordato purché il debitore ne abbia fatto richiesta ( art. 54, par. 2, CCII). Ai sensi dell’art. 55, par. 3, il giudice, assunte se del caso sommarie informazioni, conferma o revoca con decreto le misure protettive, stabilendone la durata entro trenta giorni dall’iscrizione della domanda nel registro delle imprese. Per quanto la fattispecie sia simile a quella considerata dalla Direttiva, vi è una rilevante differenza perché la nomina del commissario, diversamente da quanto prevede la Direttiva, non è legata alla concessione della sospensione delle azioni esecutive e non presuppone una valutazione, caso per caso, della necessità del professionista per tutelare gli interessi delle parti. La nomina rimane automatica. Il giudice può soltanto confermare o negare la sospensione delle azioni esecutive.
E’ pertanto evidente che su questo punto la disciplina del codice della crisi dovrà essere modificata perché in contrasto con la Direttiva. E va sottolineato che qui il contrasto è proprio sui presupposti della disciplina perché il legislatore italiano ha ritenuto di estendere sempre di più la nomina del commissario prevedendola anche nei casi in cui vi è soltanto la domanda di concordato con riserva, mentre il legislatore europeo, come si è visto, ritiene che tale nomina vada disposta soltanto in talune specifiche ipotesi, dove la tutela degli interessi delle parti lo richiede.
E’ quasi superfluo aggiungere che la nomina automatica nel caso di domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione, ove siano pendenti istanze di liquidazione giudiziale, è anch’essa al di fuori del sistema previsto dalla Direttiva.
5. La sospensione delle azioni esecutive.
Uno dei punti più delicati di contrasto tra la disciplina della Direttiva e quella del codice della crisi riguarda il regime della sospensione delle azioni esecutive. Innovando rispetto alla disciplina prevista dalla legge fallimentare, il codice della crisi ha previsto delle misure protettive che possono essere concesse in caso di domanda di concordato e di omologazione degli accordi di ristrutturazione, oltre che in pendenza della procedura di composizione assistita della crisi, misure che, a differenza dal passato, in caso di concordato non durano necessariamente sino all’omologazione della procedura. In forza dell’art. 54, co. 2, del codice, inoltre, le misure protettive scattano automaticamente per effetto non soltanto della proposizione della domanda di concordato, ma anche della domanda di concessione del termine ai fini del concordato con riserva. Dal comma 3 dell’art. 54 si ricava che le misure protettive, possono essere richieste anche prima della presentazione della domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione, alle condizioni previste dalla norma.
In conclusione nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione le misure protettive sono in parte automatiche ( nel concordato), e sono comunque soggette al provvedimento del giudice ed ad un termine finale di durata.
L’art. 2, co. 1, lett. p) definisce le misure protettive come “le misure temporanee disposte dal giudice competente per evitare che determinate azioni dei creditori possano pregiudicare, sin dalla fase delle trattative, il buon esito delle iniziative assunte per la regolazione della crisi o dell’insolvenza”. La definizione non stabilisce però il contenuto delle misure protettive, che va ricavato dalla disciplina nel suo complesso. Il legislatore peraltro usa il termine misure protettive sia per indicare le misure che possono essere adottate su domanda del debitore quando questi si avvalga del procedimento unitario per l’accesso alle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza sia con riferimento alle misure necessarie per condurre a termine le iniziative in corso, previste dall’art. 20, e relative alla procedura di composizione assistita della crisi.
L’art. 54, comma 2, precisa il contenuto delle misure protettive nel caso in cui si tratti dell’effetto automatico che segue alla presentazione della domanda di concordato quando il debitore ne abbia fatto richiesta. In tale ipotesi dalla data della pubblicazione della domanda nel registro delle imprese, i creditori per titolo o causa anteriore non possono, sotto pena di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul suo patrimonio. Dalla stessa data le prescrizioni rimangono sospese e le decadenze non si verificano. Gli artt. 54 e 55 non definiscono altrimenti gli effetti delle misure protettive nelle ipotesi di conferma della sospensione automatica conseguente alla presentazione della domanda di concordato, nei casi di presentazione della domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione, nelle ipotesi di domanda di concessione di termine per il concordato con riserva o l’accordo, di concessione delle misure protettive nell’ipotesi di domanda formulata in pendenza della procedura di composizione assistita della crisi.
Ad eccezione dell’ultimo caso ora menzionato, non vi sono motivi per ritenere che nelle altre ipotesi considerate il contenuto delle misure protettive sia diverso da quanto previsto in caso di presentazione della domanda di concordato preventivo. Nell’ipotesi di procedura di composizione assistita della crisi, ai sensi dell’art. 20 CCII, il debitore che ha presentato istanza in tal senso può domandare alla sezione specializzata dell’impresa del Tribunale competente per territorio avuto riguardo alla sede legale dell’impresa, la concessione delle misure protettive necessarie per condurre a termine le trattative in corso. In questo caso il legislatore usa un diverso linguaggio e non fa riferimento alle misure protettive propriamente dette, ma non vi sono elementi per ritenere che quanto previsto dall’art. 20 possa avere contenuto diverso. Ed infatti la definizione contenuta nell’art. 2, co. 1, lett. p) e più in generale il linguaggio usato dal legislatore nel testo delle norme che stiamo esaminando ( artt. 20, 53 e 54 CCII), fanno riferimento alla protezione ed indicano evidentemente misure che impediscano la dispersione del patrimonio del debitore nell’interesse dei creditori, oltre che della continuità dell’impresa. Probabilmente il diverso linguaggio utilizzato nell’art. 20 si spiega perché ai sensi del comma 4 il debitore può anche chiedere al giudice il differimento degli obblighi relativi all’integrità del capitale delle società di capitali. E ancora i diversi provvedimenti menzionati nell’art. 54 e relativi alle misure cautelari, ivi compresa la nomina di un custode dell’azienda e/o di un amministratore giudiziario, che soli potrebbero forse essere estesi nell’ambito delle misure protettive, in ragione della diversa formulazione dell’art. 20, non solo non sono in alcun modo richiamati, ma hanno una ratio diversa, perché sono diretti a tutelare i creditori contro atti di distrazione o dispersione del patrimonio posti in essere dal debitore. Si tratta quindi di provvedimenti che non potrebbero essere pronunciati nell’interesse del debitore.
La durata delle misure protettive ex art. 20, in caso di procedura di composizione assistita della crisi, non può essere superiore a tre mesi e può essere prorogata anche più volte, su istanza del debitore, sino al massimo di sei mesi, in misura corrispondente a quella prevista dall’art. 19, par. 1, per raggiungere una soluzione concordata della crisi d’impresa. Per la proroga della misura protettiva occorre però che siano stati compiuti progressi significativi nelle trattative tali da rendere probabile il raggiungimento dell’accordo. Tale situazione è certificata dal collegio presso l’OCRI.
L’art. 8 del codice della crisi, che è norma che fa parte dei principi generali processuali, stabilisce che la durata complessiva delle misure protettive non può superare il periodo, anche non continuativo, di dodici mesi, inclusi eventuali rinnovi o proroghe. In questo modo il legislatore ha dettato una norma che, come espressamente risulta dalla Relazione governativa[7], corrisponde al principio contenuto nell’art. 6, par. 8, della Direttiva secondo la quale il periodo di sospensione delle azioni esecutive individuali, incluse le proroghe ed i rinnovi, non può aver durata superiore ai dodici mesi. Considerando che sia con riferimento alla disciplina dettata dall’art. 20 del codice della crisi che con riguardo alle altre ipotesi che abbiamo considerato – la sospensione delle azioni esecutive in pendenza della domanda di concordato o di omologazione degli accordi di ristrutturazione ed in occasione della richiesta di concessione di un termine per la presentazione della domanda – il legislatore usa la stessa espressione, misure protettive appunto, deve ritenersi che il termine massimo di dodici mesi si applichi in tutti i casi considerati dal legislatore. Ne deriva un problema per quanti ritengono che il termine di dodici mesi sia insufficiente per consentire di addivenire ad un accordo con i creditori ed alla composizione della crisi, soprattutto quando alla apertura della procedura di composizione assistita segua un’altra procedura, sia essa il concordato preventivo o l’accordo di ristrutturazione.
Vi sono molte differenze tra le misure protettive previste dal codice della crisi, che come abbiamo visto, consistono sempre nella sospensione delle azioni esecutive individuali, ma non del diritto del creditore di chiedere l’apertura della liquidazione giudiziale, hanno carattere generale, cioè si riferiscono all’intero ceto creditorio, riguardano anche la maturazione della prescrizione e della decadenza, e la disciplina che per la sospensione delle azioni esecutive individuali prevede la Direttiva.
Secondo l’art. 6 della Direttiva la sospensione riguarda le azioni esecutive individuali, ma ai sensi dell’art. 7, par. 2, essa impedisce, per la durata della sospensione, l’apertura, su richiesta di uno o più creditori, di una procedura di insolvenza che potrebbe concludersi con la liquidazione delle attività del debitore[8]. Inoltre alla sospensione delle azioni esecutive segue il divieto per i creditori cui si applica la sospensione di rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti essenziali o di risolverli, anticiparne la scadenza o modificarli in altro modo a danno del debitore, in relazione ai debiti sorti prima della sospensione, e per la sola ragione di non essere stati pagati[9]. Analoga disciplina si applica nei casi di richiesta o concessione di una procedura di ristrutturazione preventiva o di richiesta della sospensione delle azioni esecutive.
Va osservato che il principio affermato dall’art. 7, par. 2, della Direttiva è più ristretto della più generale regola dettata dall’art. 97 CCII secondo la quale i contratti ancora non eseguiti o non compiutamente eseguiti proseguono durante il concordato. La norma italiana, a differenza della Direttiva, non distingue tra l’ipotesi in cui il contraente in bonis sia un creditore, in forza dello stesso titolo contrattuale o per altra causa, ovvero non lo sia ed ha portata generale. Tuttavia l’art. 7, par. 2, della Direttiva vieta ai creditori titolari dei contratti essenziali di rifiutare l’adempimento o di risolverli per la sola ragione di non essere stati pagati. Ne deriva che, a differenza della disciplina italiana, alla sospensione delle azioni esecutive segue l’improponibilità dell’eccezione d’inadempimento ex art. 1460 c.c. e dell’azione di risoluzione.
Va poi sottolineato che l’art. 7, par. 5 della Direttiva vieta anche le c.d. clausole ipso facto che comportano la risoluzione anticipata, lo scioglimento, il rifiuto della prestazione o altro tipo di modifica contrattuale in ragione della richiesta di apertura della procedura di ristrutturazione preventiva o della sospensione delle azioni esecutive o della disposta apertura della procedura o della sospensione. Il principio è previsto anche dall’art. 186 bis, par. 3, l.fall. per il concordato con continuità. La norma è stata riprodotta nell’art. 95, co. 1, CCII, ma probabilmente per un refuso il testo letterale limita il principio ai contratti con le pubbliche amministrazioni[10]. E’ peraltro da ritenere che essa debba essere oggetto di più ampia interpretazione, rappresentando oltretutto la riproduzione di un principio che per la liquidazione giudiziale è affermato dall’art. 172 che a sua volta riproduce il testo dell’art. 72 l.fall.
In materia di allerta l’art. 12, par. 2, CCII dispone che l’attivazione della procedura di allerta interna od esterna nonché la presentazione da parte del debitore della domanda di accesso alla procedura di composizione assistita della crisi non costituiscono causa di risoluzione dei contratti pendenti, anche se stipulati con pubbliche amministrazioni né di revoca degli affidamenti bancari concessi. Sono nulli i patti contrari. Da questo punto di vista pertanto la disciplina italiana è conforme alla Direttiva. Manca invece una norma che preveda che l’attivazione della procedura di composizione assistita della crisi impedisca al creditore in caso di inadempimento di invocare l’eccezione d’inadempimento o di domandare la risoluzione. Né può affermarsi che di per se stessa la composizione assistita della crisi non rientri nell’ambito dei quadri di ristrutturazione preventiva. Essa infatti è chiaramente propedeutica al raggiungimento di un accordo con i creditori o all’apertura di una procedura di concordato o all’omologazione di un accordo di ristrutturazione, si fonda sullo stato di crisi, consente la sospensione delle azioni esecutive con provvedimento rimesso alla valutazione del giudice.
Infine gli accordi di ristrutturazione non contengono alcuna norma che possa costituire applicazione dei principi dettati dal legislatore europeo, sì che occorrerà integrare la disciplina italiana.
Secondo la Direttiva la sospensione può riguardare tutti i tipi di crediti, compresi quelli garantiti e privilegiati ( art. 6, par. 2), ma a seconda delle scelte operate dagli Stati membri può riferirsi a tutti i creditori o può essere limitata ad alcuni di essi o a determinate categorie ( art. 6, par. 3). In tal caso essa riguarda soltanto i creditori che sono stati informati delle trattative sul piano di ristrutturazione o della richiesta di sospensione. Inoltre è facoltà degli Stati membri escludere alcune categorie di crediti o determinati crediti dalla sospensione, qualora tale esclusione sia debitamente giustificata e l’azione esecutiva non sia suscettibile di compromettere la ristrutturazione dell’impresa ovvero la sospensione comporti un ingiusto pregiudizio ai creditori. La sospensione in ogni caso non si applica ai diritti dei lavoratori, salvo che e nella misura in cui, lo Stato membro assicuri che il pagamento di tali diritti sia garantito nell’ambito di un quadro di ristrutturazione preventiva con un livello di tutela analogo ( art. 6, par. 5). Il che comporta o che i crediti di lavoro vengano soddisfatti in pendenza di procedura o che venga assicurato un regime sostitutivo, ad esempio la NASpI. E’ ben vero che l’art. 100 del codice della crisi consente, nel caso di domanda di concordato preventivo, l’autorizzazione del giudice al pagamento delle mensilità pregresse. Tuttavia tale autorizzazione non riguarda tutto il credito di lavoro, ma soltanto le mensilità pregresse ed è soltanto eventuale. Non vi è alcuna valutazione della deroga al momento in cui si autorizza la sospensione.
Secondo la Direttiva la sospensione deve essere revocabile da parte del giudice o dell’autorità amministrativa che provvede in sua vece quando: a) la sospensione non soddisfa più l’obiettivo di agevolare le trattative sul piano di ristrutturazione, ad esempio se risulta evidente che una parte di creditori che ai sensi del diritto nazionale può impedire l’adozione del piano di ristrutturazione non appoggia la continuazione delle trattative; b) su richiesta del debitore o del professionista nel campo della ristrutturazione; c) in altre ipotesi se recepite dal diritto nazionale ( art. 6, par. 9). Tuttavia Gli Stati membri possono limitare la facoltà di revoca della sospensione delle azioni esecutive individuali a situazioni in cui i creditori non hanno avuto l’opportunità di essere ascoltati prima dell’entrata in vigore della sospensione o della concessione di una sua proroga da parte di un’autorità giudiziaria o amministrativa. Possono inoltre prevedere un periodo minimo, che non deve eccedere i quattro mesi, durante il quale non è possibile revocare la sospensione.
Secondo il codice della crisi la revoca è possibile: a) nel caso di domanda di concordato ( art. 55, par. 3); b) in caso di atti di frode su istanza del commissario giudiziale, delle parti o del P.M. ( art. 55, par. 4, e art. 20, par. 5); c) nel solo caso della procedura di composizione assistita se il collegio presso l’OCRI comunica che non è possibile addivenire ad una soluzione concordata della crisi o che non vi sono significativi progressi nell’attuazione delle misure adottate per superare la crisi. Non vi è dunque una perfetta identità di disciplina tra Direttiva e codice della crisi in punto revoca delle misure.
Traendo le conclusioni da quanto siamo venuti osservando il sistema della sospensione delle azioni esecutive previsto dal codice della crisi si differenzia da quanto previsto dalla Direttiva sotto molteplici profili: per il fatto che la sospensione deve essere sempre disposta caso per caso dal giudice o dall’autorità amministrativa, per il fatto che può non avere carattere generale ( ma si tratta di scelta facoltativa devoluta agli Stati membri), per il fatto che non riguarda i crediti di lavoro, perché ha effetti anche sulla prosecuzione necessaria ed automatica dei contratti pendenti almeno quando si tratti dei c.d. contratti essenziali, per un diverso regime delle proroghe e delle revoche. Non vi è dubbio quindi che prima della scadenza del termine per il recepimento della Direttiva il nostro sistema richiederà una messa a punto ed un aggiornamento. Ed in tale messa a punto occorrerà considerare che ai sensi dell’art. 6, primo par., della Direttiva la sospensione ha la funzione di agevolare le trattative sul piano di ristrutturazione. La disciplina dei provvedimenti giudiziali di concessione della sospensione prevista dagli artt. 20, 54 e 55 del codice non sempre attribuisce al giudice il potere di verificare se la sospensione assolve effettivamente la funzione indicata dalla Direttiva. Ad esempio nel caso della sospensione in caso di domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione l’art. 54, par. 3, lega la concessione della sospensione alla sussistenza dell’attestazione del professionista indipendente sulla pendenza di trattative con i creditori e sull’idoneità della proposta, se accettata, ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative.
In sede di prima interpretazione della disciplina dettata dal codice della crisi ci si è interrogati soprattutto sulla durata massima delle misure protettive, che l’art. 8 del codice, richiamando in questo la Direttiva, indica in un periodo massimo di dodici mesi. Ci si è chiesti se tale periodo di sospensione riguardi il periodo successivo all’omologazione del concordato e la liquidazione giudiziale. In proposito va osservato che la sospensione delle azioni esecutive non riguarda certamente il debitore tornato in bonis per effetto dell’omologazione della proposta di concordato. I creditori per titolo o causa successivi possono certamente agire esecutivamente, mentre i creditori anteriori sono vincolati dal piano di concordato e non possono pretendere l’adempimento dei loro crediti, nei limiti della falcidia concordataria, prima delle scadenze ivi previste, fatta salva la possibilità di domandare la risoluzione decorsi tali termini e, secondo la più recente giurisprudenza della Cassazione, di chiedere l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale indipendentemente dall’azione di risoluzione[11]. Per quanto invece concerne la liquidazione giudiziale la sospensione delle azioni esecutive segue alla pronuncia della sentenza di apertura della procedura ai sensi dell’art. 150 del codice della crisi. Non è dubbio che tale sospensione, pur avendo contenuto analogo, non fa parte delle misure protettive considerate dall’art. 8 del codice, perché l’art. 2, par. 1, lett. p) definisce tali misure come temporanee, mentre quelle previste in caso di liquidazione giudiziale sono destinate a durare sino alla chiusura della liquidazione. Né può ritenersi che tale sospensione rientri nell’ambito della disciplina prevista per i quadri di ristrutturazione dalla Direttiva sia perché non si tratta di ristrutturazione, ma di liquidazione sia perché il Trentacinquesimo Considerando afferma che “gli Stati membri dovrebbero poter prevedere una sospensione a durata indeterminata una volta che il debitore diventi insolvente a norma del diritto nazionale”.
Non vi è dubbio peraltro che le maggiori difficoltà che la disciplina dettata dal codice della crisi e la Direttiva, per questo aspetto in parte identiche, sollevano riguardano la durata massima delle misure protettive. La durata massima di dodici mesi prevista dall’art. 8 del codice e dall’art. 6, par. 8 della Direttiva, è stata ritenuta da molti incompatibile con il tempo necessario all’ordinario svolgimento della procedura di concordato dalla presentazione della domanda sino all’omologazione o dell’omologazione degli accordi di ristrutturazione, specialmente quando tali procedure siano state precedute dalla composizione assistita della crisi e in tale fase il debitore abbia già beneficiato della sospensione delle azioni esecutive ai sensi dell’art. 20 CCII, che può arrivare a sei mesi.
Va ricordato che il meccanismo previsto dalla Direttiva prevede una sospensione sino a quattro mesi che può essere prorogata dal giudice o dall’autorità amministrativa soltanto all’esito di concreti riscontri che riguardano la ricorrenza di “circostanze ben definite da cui risulti che la proroga o il rinnovo sono debitamente giustificati” ( art. 7, par. 1). La norma indica alcuni esempi: a) sono stati compiuti progressi significativi nelle trattative sul piano di ristrutturazione, b) la continuazione della sospensione delle azioni esecutive individuali non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate, oppure c) nei confronti del debitore non siano ancora state aperte procedure di insolvenza che possano concludersi con la liquidazione delle attività del debitore a norma del diritto nazionale. Quest’ultima ipotesi secondo la disciplina italiana costituisce una circostanza che si verifica automaticamente quando sia pendente una domanda di concordato o di omologa dell’accordo di ristrutturazione perché tale situazione impedisce ex lege l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale. Nella sostanza quindi le differenze di disciplina tra diritto dell’Unione e diritto italiano sono meno rilevanti di quanto potrebbe apparire.
Resta che il nostro codice non prevede, come si è già detto, un regime di proroghe del tutto sovrapponibile a quello europeo e che vi sono serie difficoltà ad immaginare il superamento del termine massimo di dodici mesi. Tale termine riguarda complessivamente le misure protettive concesse in pendenza della composizione assistita e delle procedure di concordato o di omologa dell’accordo di ristrutturazione. La circostanza che la Direttiva faccia riferimento alla sospensione delle azioni esecutive nell’ambito dei quadri di ristrutturazione, nel cui ambito rientrano certamente la composizione assistita e gli altri procedimenti di cui si è detto, ed il fatto che neppure il legislatore nazionale distingue all’art. 8 del codice, impediscono una conclusione diversa.
Il termine dei dodici mesi rappresenta dunque un limite invalicabile? In proposito si può osservare da un lato che se le trattative nel corso dei lavori preparatori della Direttiva hanno visto un cambiamento profondo di molte norme, il termine massimo di quattro mesi, prorogabile sino ad un massimo di dodici mesi, è rimasto immutato. Se ne deve concludere che, se la maggioranza degli Stati membri non ha avuto nulla da obiettare, sono gli operatori italiani, in primis il sistema bancario, che debbono abituarsi a tempi di negoziazione più ridotti. Va d’altra parte osservato che il legislatore europeo ha chiaramente indicato che la previsione di tempi massimi vincolanti di durata della sospensione delle azioni esecutive non ha soltanto la funzione di favorire una disciplina armonizzata negli Stati membri a fini di certezza del diritto[12], ma anche di evitare il forum shopping a favore di Paesi che prevedano un regime più favorevole al debitore. In tal senso è illuminante l’art. 6, par. 8, che stabilisce che se la procedura di ristrutturazione rientra tra quelle riconosciute ai sensi dell’allegato A dal Regolamento 848/2015 in materia di insolvenza transfrontaliera, la durata della sospensione non può eccedere i quattro mesi se il COMI è stato trasferito da altro Stato membro nei tre mesi precedenti l’apertura del procedimento. Ma se la durata della sospensione delle azioni esecutive è stabilita dalla Direttiva per evitare il forum shopping, ne deriva che in linea di principio non può essere prevista a livello nazionale una disciplina dei quadri di ristrutturazione preventiva che deroghi a questa regola.
Resta che, ove il debitore abbia chiesto di accedere alla procedura di composizione assistita della crisi ed intanto abbia richiesto le misure protettive, la procedura in parola abbia avuto la durata massima prevista dall’art. 19 di sei mesi ( tre mesi prorogati di altri tre mesi), vi sia stata la richiesta al Tribunale del termine non superiore a sessanta giorni per la presentazione della domanda di concordato, sia stata eventualmente concessa la proroga di sessanta giorni consentita dall’art. 44 CCII, vi sia stata la presentazione della domanda di concordato ed il successivo provvedimento di apertura della procedura con la fissazione del termine per la votazione dei creditori, vi è il rischio concreto che le misure protettive, prorogate o nuovamente disposte nel passaggio dalla procedura di composizione assistita al concordato, siano ormai vicine alla durata massima prevista dall’art. 8 del codice della crisi.
Per tale ipotesi può soccorrere l’inciso contenuto nel Trentacinquesimo Considerando della Direttiva secondo il quale “Gli Stati membri dovrebbero poter decidere se una breve sospensione temporanea in attesa di una decisione dell’autorità giudiziaria o amministrativa sull’accesso al quadro di ristrutturazione preventiva sia soggetta ai termini temporali previsti dalla presente direttiva”. De iure condendo tale inciso potrebbe consentire di non considerare ai fini della durata delle misure protettive il termine di sessanta giorni previsto per la presentazione della domanda di concordato nell’ipotesi di concordato con riserva. Si tratta infatti di un termine che, con qualche sforzo, può ritenersi “breve” secondo la Direttiva in quanto inferiore al termine di quattro mesi della sospensione senza proroghe e che prelude all’accesso ad una procedura, il concordato, che rientra certamente nei quadri di ristrutturazione. Va peraltro riconosciuto che il Considerando sembra far riferimento all’ipotesi in cui si debba attendere lo svolgersi di un breve spatium deliberandi in attesa della decisione del giudice, mentre in questo caso la domanda di apertura della procedura deve ancora essere presentata dal debitore, che si è limitato a “prenotare” la decisione.
Anche il periodo che va dall’esito della votazione dei creditori all’omologazione del concordato, può essere considerato caratterizzato dalle medesime finalità individuate dal Considerando. Il legislatore italiano potrebbe pertanto stabilire che un provvedimento di sospensione delle azioni esecutive o di proroga di una sospensione già concessa sia nella fase con riserva che nella fase di omologazione del concordato non rilevino ai fini della durata delle misure protettive. Del resto è evidente che la ratio che sta alla base del rilievo formulato nel Considerando è di non perdere i risultati di un procedimento di accesso ad un quadro di ristrutturazione in atto una volta che si tratti soltanto di attendere il tempo tecnico necessario per la pronuncia del giudice, pronuncia ovviamente che dovrà pervenire in tempi molto contenuti. Proprio per tale ragione il legislatore dovrebbe accompagnare una previsione come quella ipotizzata con l’indicazione di una corsia preferenziale per la definizione del procedimento nell’ambito dell’attività dell’Ufficio giudiziario.
Va ribadito che il periodo di sospensione che in ipotesi potrebbe non rientrare nel computo del termine di dodici mesi è definito “breve” dal considerando, con la conseguenza che esso certamente dovrebbe essere contenuto e non potrebbe comunque mai superare i quattro mesi di durata massima della sospensione salvo le proroghe previsti dalla Direttiva.
Infine si può osservare che conseguenza implicita delle considerazioni sin qui svolte è che, ove sia richiesta la proroga del termine previsto dall’art. 44, il Tribunale nel concederla dovrebbe valutare l’impatto che la proroga della sospensione delle azioni esecutive potrebbe avere sulla maturazione del termine complessivo di dodici mesi.
6. Il piano, il suo contenuto, le classi
L’art. 9 della Direttiva prevede che il debitore, i creditori con il consenso del debitore, ma anche i professionisti nel campo della ristrutturazione, cioè la persona o l’organo nominato dal giudice che svolge attività di consulenza, vigilanza o gestione dell’attività del debitore, possano presentare un piano di ristrutturazione. Come si è accennato, la possibilità che il piano sia presentato da soggetti diversi dal debitore è rimessa al diritto nazionale. Da questo punto di vista la disciplina italiana delle proposte concorrenti nel caso del concordato preventivo non contrasta con la Direttiva.
Il piano deve avere un contenuto specifico che è precisato dall’art. 8 della Direttiva. Il contenuto obbligatorio riguarda l’identità del debitore, le attività e passività al momento della presentazione del piano compreso il valore delle attività, la descrizione della situazione economica del debitore e della posizione dei lavoratori e la descrizione delle cause e dell’entità delle difficoltà del debitore. Si tratta di requisiti che sono contenuti anche nella disciplina dettata dagli artt. 85 e 87 del codice della crisi. Va però sottolineato che il legislatore europeo pone particolare enfasi nell’indicazione della posizione dei lavoratori cui corrisponde anche il disposto della lett. g) del medesimo art. 8, sub iv) che richiede anche l’indicazione de “le conseguenze generali per l’occupazione, come licenziamenti, misure di disoccupazione parziale, o simili”. Si tratta peraltro di contenuti che non possono non essere inseriti in qualunque piano abbia requisiti minimi di attendibilità e verosimiglianza.
Il piano deve anche indicare le parti interessate, definite dall’art. 2, par. 1, lett. 2) come “creditori, compresi, se applicabile ai sensi del diritto nazionale, i lavoratori, o le classi di creditori, e, se applicabile ai sensi del diritto nazionale, i detentori di strumenti di capitale, sui cui rispettivi crediti o interessi incide direttamente il piano di ristrutturazione”. Si tratta in sostanza di tutti i soggetti titolari di crediti che sono incisi dal piano. La lett. e) dell’art. 8 richiede anche l’indicazione delle parti non interessate per le quali deve essere fornita anche un’indicazione dei “motivi per cui si propone che non siano interessate”. La formulazione della Direttiva ha effetti di rilievo sulla disciplina del codice della crisi, in particolare per quanto concerne il voto dei creditori privilegiati nel concordato preventivo che, com’è noto, sono esclusi dal voto perché non pregiudicati dalla falcidia concordataria, salvo quando la garanzia di cui sono titolari non sia capiente.
I creditori privilegiati non sono ammessi al voto, salvo che rinuncino alla prelazione ( art. 109, comma 3, CCII). Tuttavia una disciplina speciale è dettata dall’art. 86 quando il piano preveda una moratoria sino a due anni dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo il caso di liquidazione dei beni o diritti su cui sussiste la causa di prelazione. Si pone poi il problema se la moratoria possa avere durata maggiore, dovendosi in tal caso applicare i criteri di quantificazione del credito ai fini del voto previsti dall’art. 109, per la maggior durata della dilazione. Quando è prevista la moratoria i creditori hanno diritto di voto per la differenza tra il loro credito, maggiorato degli interessi di legge, ed il valore attuale dei pagamenti previsti nel piano alla data di presentazione della domanda di concordato, secondo un tasso di sconto pari alla metà del tasso previsto per gli interessi moratori. Questa limitazione legale del credito dovuto al ritardo nel pagamento non è prevista dalla Direttiva. Essa però non pare in contrasto con la disciplina europea. La Direttiva richiede infatti che i creditori pregiudicati dal piano siano ammessi al voto e ciò avviene nel caso della moratoria, sia pur in base a criteri legali di quantificazione del pregiudizio subito dal creditore, che di per se stessi non sono in contrasto con quanto indicato dal legislatore europeo.
Tornando alla generale disciplina del piano, al di là delle espressioni usate dal legislatore europeo, non vi sono sostanziali differenze rispetto al regime previsto dal codice della crisi. L’art. 40, comma 1, del codice richiede infatti che al debitore che chiede l’accesso ad una procedura di regolazione della crisi e dell’insolvenza di presentare tra gli altri documenti “…l’elenco nominativo dei creditori e l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione, l’elenco nominativo di coloro che vantano diritti reali e personali su cose in suo possesso e l’indicazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto, un’idonea certificazione sui debiti fiscali, contributivi e per premi assicurativi”. Va tuttavia aggiunto che l’art. 8 della Direttiva richiede che le parti interessate siano “denominate individualmente o descritte mediante categorie di debiti a norma del diritto nazionale, e [siano indicati anche] i relativi crediti o interessi coperti dal piano di ristrutturazione”. Qui il legislatore europeo è stato più dettagliato del legislatore italiano, anche se nella sostanza non paiono esservi differenze di carattere fondamentale.
Vanno poi indicate “le classi in cui le parti interessate sono state suddivise ai fini dell’adozione del piano di ristrutturazione e i valori rispettivi dei crediti e degli interessi di ciascuna classe”. La Direttiva non fornisce una definizione di classe dei creditori, come chiarisce il Quarantaquattresimo Considerando che richiama i criteri di formazione delle classi previsti dal diritto nazionale, precisando peraltro che la ratio della disciplina è che “i diritti che sono sostanzialmente simili ricevano pari trattamento”. L’art. 9, par. 4, precisa che le parti interessate vanno trattate “in classi distinte che rispecchiano una sufficiente comunanza di interessi, basata su criteri verificabili, a norma del diritto nazionale”. Non vi è pertanto differenza sostanziale rispetto alla nozione presa a riferimento dall’art. 2, lett r) del codice della crisi che ripropone la definizione già adottata dalla legge fallimentare: “insieme di creditori che hanno posizione giuridica ed interessi economici omogenei.
Si richiede che come minimo i creditori garantiti e non garantiti siano sempre trattati in classi distinte ( art. 9, par. 4). Questo principio non è previsto dal codice della crisi e rappresenta, come vedremo meglio più avanti, un punto di contrasto tra la disciplina del codice e quella europea. E’ facoltà degli Stati membri prevedere che i lavoratori siano trattati in classe distinta ed esonerare le PMI dall’obbligo di formare le classi. Inoltre gli Stati membri debbono adottare “misure appropriate per assicurare che la formazione delle classi sia effettuata con particolare attenzione alla protezione dei creditori vulnerabili, come i piccoli fornitori”, il che comporta che per tali creditori debbano essere formate classi diverse ( art 9, par. 4). Certamente si tratta di norma molto generica che lascia al legislatore nazionale ampia discrezionalità. Il Quarantaquattresimo Considerando indica altri criteri che gli Stati membri potrebbero adottare, e che quindi non sono vincolanti, nella formazione delle classi, prevedendo classi diverse di creditori garantiti e non garantiti e classi di creditori con crediti subordinati. Ciò aprirebbe la strada a soluzioni analoghe a quelle previste dal diritto americano, dove il mutare dell’oggetto della garanzia comporta che i crediti garantiti vadano suddivisi in molteplici classi. Inoltre gli Stati membri potrebbero prevedere classi diverse per i creditori che non hanno sufficiente comunanza di interessi come le autorità fiscali o di previdenza sociale. E’ anche rimesso agli Stati membri, secondo il Considerando, suddividere i crediti garantiti nella parte garantita e non garantita a seconda della capienza della garanzia reale, come previsto dall’art. 85, comma 7, del codice della crisi.
I criteri di formazione delle classi secondo il diritto nazionale debbono però, come precisa il Quarantaseiesimo Considerando, dedicare una disciplina agli aspetti di particolare importanza nella formazione delle classi, quali la sorte dei crediti delle parti collegate, dei crediti potenziali e dei crediti contestati. In proposito l’art. 85, comma 5, del codice della crisi prevede che la formazione delle classi sia obbligatoria per quanto concerne i creditori titolari di crediti previdenziali o fiscali di cui non sia previsto l’integrale pagamento, per i creditori che vengano soddisfatti con utilità diverse dal denaro, per i creditori proponenti il concordato e le parti correlate, come meglio specificato dall’art. 109, comma 6. Lo stesso articolo al comma 5 indica i creditori esclusi dal voto ivi compresi la società che controlla la società debitrice, le società da questa controllate e quelle sottoposte a comune controllo nonché i cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un anno. Sono esclusi dal voto anche i creditori in conflitto d’interessi. La disciplina dei crediti potenziali, cioè sottoposti a condizione, e dei crediti contestati è, com’è noto, nel senso che tali crediti debbono essere considerati ai fini del voto. Per questi ultimi provvede l’art. 108, secondo il quale dispone, ai soli fini del voto, il giudice delegato, salva l’opposizione in sede di omologazione.
Ai sensi dell’art. 9, quinto par., della Direttiva i criteri di formazione delle classi debbono essere esaminati da un’autorità giudiziaria o amministrativa quando è presentata la domanda di omologazione del piano, ma è facoltà dello Stato membro prevedere tale controllo in una fase anteriore. Si tratta di un requisito che trova piena corrispondenza nel disposto dell’art. 7, comma 1, e 47, comma 3, del codice della crisi. Tali ultime norme hanno in realtà una portata molto maggiore e corrispondono al disposto dell’art. 10, par. 3, della Direttiva che stabilisce che “Gli Stati membri assicurano che l’autorità giudiziaria o amministrativa abbia la facoltà di rifiutare di omologare il piano di ristrutturazione che risulti privo della prospettiva ragionevole di impedire l’insolvenza del debitore o di garantire la sostenibilità economica dell’impresa”.
Nel caso degli accordi di ristrutturazione il contenuto del piano è previsto dall’art. 56, richiamato dall’art. 57 del codice della crisi. Debbono inoltre essere allegati i documenti previsti dall’art. 39. Ne deriva una disciplina meno articolata rispetto a quella prevista per il piano nel concordato preventivo, disciplina tuttavia che può ritenersi sufficiente, ove si consideri che il piano è vincolante soltanto per i creditori aderenti e determina effetti limitati sugli altri creditori (differimento dei termini di pagamento a 120 giorni dall’omologazione dell’accordo e, ove disposta, la sospensione delle azioni esecutive). In proposito va ricordato che l’art. 9 della Direttiva nel regolare le modalità di votazione ed approvazione del piano da parte dei creditori, prevede che tali modalità possano essere derogate quando gli Stati membri stabiliscano che “la votazione formale per l’adozione del piano di ristrutturazione possa essere sostituita da un accordo con la maggioranza richiesta”, come appunto avviene nell’accordo di ristrutturazione. Ovviamente per gli accordi ad efficacia estesa che sono vincolanti per i creditori non aderenti titolari di posizione giuridica ed interessi economici omogenei il discorso è diverso, ma qui soccorre il vincolo della soddisfazione in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale (art. 61, par. 2, lett. d) che detta regole non diverse dal cram down.
7. L’approvazione del piano.
In generale per l’approvazione del piano la Direttiva prevede due soluzioni alternative. Il piano di ristrutturazione è adottato dalle parti interessate senza necessità di un’approvazione da parte del giudice (salvo i casi espressamente indicati) purché in ciascuna classe sia ottenuta la maggioranza dell’importo dei crediti o degli interessi, ferma restando la facoltà per gli Stati membri di richiedere anche la maggioranza per teste (art. 9). La maggioranza richiesta non può essere superiore al 75% dell’importo dei crediti o degli interessi in ciascuna classe o, se del caso, del numero di parti interessate. Poiché la Direttiva non impone una maggioranza minima qualificata, se ne ricava che gli Stati membri sono liberi di prevedere la maggioranza del 51% dei crediti, come avviene nel sistema italiano.
In alternativa l’art. 11 regola la ristrutturazione trasversale dei crediti (cross class cram down) che, non prevedendo la necessità dell’approvazione da parte di tutte le classi, richiede l’approvazione del piano da parte del giudice. In questo caso è sufficiente “la maggioranza delle classi di voto di parti interessate, purché almeno una di esse sia una classe di creditori garantiti o abbia rango superiore alla classe dei creditori non garantiti” (art. 11, par. 1, lett. b) i). In alternativa il piano deve essere stato approvato “da almeno una delle classi di voto di parti interessate o, se previsto dal diritto nazionale, di parti che subiscono un pregiudizio” (art. 11, par. 1, lett. b) ii) purché non si tratti di classi di creditori o portatori di strumenti di capitale che non riceverebbero nessun pagamento o manterrebbero alcun interesse, se fosse applicato il normale grado di priorità di liquidazione a norma del diritto nazionale in base a una valutazione del debitore in regime di continuità aziendale.
Tralasciando per il momento le ulteriori condizioni previste dagli artt. 9 – 11 della Direttiva va sottolineato che la disciplina prevista dal codice della crisi è sensibilmente diversa. L’art. 109 stabilisce che il concordato sia approvato dalla maggioranza dei crediti ammessi. Alla maggioranza per valore si aggiunge quella per numero nel caso in cui un unico creditore sia titolare di crediti in misura superiore alla maggioranza dei crediti ammessi al voto. Occorre inoltre, nel caso in cui siano previste diverse classi di creditori, che la maggioranza dei crediti ammessi al voto sia raggiunta nel maggior numero di classi. Il sistema previsto dal codice della crisi prevede la formazione obbligatoria di talune classi (art. 85, comma 5), ma, ove non ricorrano le ipotesi considerate dalla norma (creditori previdenziali e fiscali non integralmente soddisfatti, titolari di garanzie prestate da terzi, creditori soddisfatti con utilità diverse dal denaro, creditori proponenti il concordato e parti correlate) le classi non sono obbligatorie. La Direttiva prevede invece che le classi siano obbligatorie, almeno nel senso di distinguere i creditori garantiti e chirografari.
Ne deriva che il legislatore italiano dovrà modificare la disciplina del codice della crisi e, comunque, che dalla scadenza del termine per il recepimento della Direttiva, il quinto comma dell’art. 85 dovrà ritenersi abrogato in parte qua per contrasto con la Direttiva. Dal luglio 2021 pertanto il concordato potrà ritenersi approvato soltanto quando la maggioranza dei crediti sia raggiunta almeno nel maggior numero di classi.
Tornando alla seconda ipotesi di cross class cram down disciplinata dall’art.11, vale a dire all’approvazione da parte di almeno una delle classi di voto pregiudicate senza considerare le altre classi non pregiudicate perché non potrebbero comunque essere soddisfatte, va detto che si tratta di soluzione che il legislatore italiano non ha previsto. L’art. 112 del codice della crisi non prevede infatti il cross class cram down, quale metodo di approvazione del piano, ma il cram down semplice, vale a dire il potere del giudice di omologare il concordato in caso di opposizione di un creditore appartenente ad una classe dissenziente che contesti la convenienza della proposta quando ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale.
Va anche sottolineato che il regime previsto dalla Direttiva si differenzia dal cram down regolato dall’art. 112 sotto un altro profilo. Nel primo caso si fa riferimento alla valutazione degli asset del debitore in regime di continuità aziendale e al valore di liquidazione soltanto se previsto dal diritto nazionale, nel secondo all’ipotesi di liquidazione. Va osservato che l’adozione integrale del regime del cross class cram down è obbligatoria per gli Stati membri, come risulta chiaramente dal tenore dell’art. 11, primo par., della Direttiva. Accanto all’ipotesi di approvazione da parte della maggioranza delle classi dovrà dunque essere previsto il caso di approvazione da parte di una sola classe pregiudicata. Il legislatore europeo consente agli Stati membri di aumentare il numero minimo delle classi pregiudicate di cui è richiesta l’approvazione per l’adozione del piano (Considerando 54 e art. 11, par. 1, ult. cpv.). Si osserva a tal proposito che gli Stati membri dovrebbero poter aumentare il numero delle classi necessarie per l’approvazione del piano, senza necessariamente imporre che tutte queste classi, in base a una valutazione del debitore in regime di continuità aziendale, debbano ricevere un pagamento o mantenere un interesse a norma del diritto nazionale. Di conseguenza se sono previste soltanto due classi di creditori, il consenso di una sola di esse dovrebbe essere sufficiente.
L’ultimo paragrafo dell’art. 11 della Direttiva consente agli Stati membri di mantenere o introdurre disposizioni che derogano al primo paragrafo, qualora queste siano necessarie per conseguire gli obiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate. E’ dunque consentito derogare alla disciplina della Direttiva sulle modalità di approvazione del piano, ma sarà difficile sostenere che il mantenimento dell’attuale regola italiana per cui occorre l’approvazione della maggioranza delle classi sia necessaria per conseguire gli obiettivi del piano. Anche in questo caso pertanto il legislatore italiano dovrà modificare la disciplina dell’approvazione del piano nel concordato. Ove ciò non avvenga, è da ritenere che la disciplina dell’art. 11 sia immediatamente invocabile a far tempo dal luglio 2021, essendo essa sufficientemente articolata per trovare immediata applicazione.
Per completare il quadro della disciplina dell’approvazione del piano occorre aggiungere che ai sensi dell’art. 9 della Direttiva per essere approvato il piano deve comunque rispettare il requisito del miglior soddisfacimento dei creditori. Come precisa l’art. 2 n. 6 della Direttiva occorre accertare che “nessun creditore dissenziente uscirà dal piano di ristrutturazione svantaggiato rispetto a come uscirebbe in caso di liquidazione se fosse applicato il normale grado di priorità di liquidazione a norma del diritto nazionale, sia essa una liquidazione per settori o una vendita dell’impresa in regime di continuità aziendale, oppure nel caso del migliore scenario alternativo possibile se il piano di ristrutturazione non fosse omologato”. A questo requisito di carattere generale, che deve essere sempre rispettato, corrisponde all’incirca il principio, già ricordato, dettato dall’art. 112, comma 1, del codice della crisi, per cui un creditore appartenente ad una classe dissenziente può opporsi all’omologazione contestando la convenienza della proposta quando il credito non possa essere soddisfatto in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale. Il codice della crisi subordina questa verifica all’opposizione all’omologazione da parte del creditore pregiudicato. Lo stesso principio è adottato dall’art. 10, par. 2 lett. c) ed ultimo cpv. della Direttiva. Tuttavia come si è visto l’art. 112 del codice richiede che il trattamento del creditore dissenziente non sia deteriore rispetto a quanto questi potrebbe ottenere in caso di liquidazione giudiziale. L’art. 2 n. 6 della Direttiva fa riferimento in alternativa sia alla liquidazione sia al “migliore scenario alternativo possibile” in caso di mancata omologazione del piano.
Tornando al cross class cram down, vale a dire all’approvazione da parte della maggioranza delle classi o in alternativa almeno da una delle classi pregiudicate, fermo restando che le altre classi debbono ottenere un trattamento non deteriore alla luce del miglior soddisfacimento dei creditori, la Direttiva pone un’altra regola, che è stata oggetto di notevole dibattito. In deroga al principio seguito ordinariamente dell’absolute priority rule per cui non è possibile effettuare pagamenti in favore dei creditori di rango inferiore nell’ambito delle cause di prelazione fino a quando i creditori di rango poziore non sono stati interamente soddisfatti, è prevista come soluzione alternativa, rimessa alla scelta discrezionale degli Stati membri, la relative priority rule. L’art. 11, par. 1, lett. c) prevede infatti che il piano in caso di cross class cram down per essere approvato dal giudice debba assicurare che le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori. In alternativa il secondo par. dispone che in deroga al paragrafo 1, lettera c), gli Stati membri possono prevedere che i diritti dei creditori interessati di una classe di voto dissenziente siano pienamente, e quindi integralmente, soddisfatti con mezzi uguali o equivalenti se è previsto che una classe inferiore riceva pagamenti o mantenga interessi in base al piano di ristrutturazione.
Il dibattito sull’opportunità di inserire la relative priority rule è vivace. In suo favore si osserva che essa consente di predisporre piani con maggior flessibilità, che possono lasciare spazio ad una parziale tutela degli interessi degli azionisti o di talune categorie di creditori strategici altrimenti destinati a nulla ricevere, come possono essere certi fornitori ( cfr Considerando 56). Sarebbe quindi più facile raggiungere un accordo ed anche convincere i soci di riferimento ad investire ulteriormente nella società oggetto della ristrutturazione o mantenere fornitori strategici. In senso contrario si obietta che questi vantaggi sono compensati dal fatto che la regola dell’absolute priority rule permette di evitare un numero eccessivo di controversie legate alla valutazione del valore degli asset, cui è legata la previsione di soddisfacimento dei creditori. Quando i creditori della classe inferiore non possono ricevere soddisfacimento fino al pagamento integrale della classe senior, l’interesse a sollevare questo tipo di contestazioni è minore. Ne derivano tempi di definizione delle procedure più rapidi e maggiore certezza nei rapporti giuridici. Anche questo è un punto sul quale occorre che il legislatore italiano prenda posizione, recependo la Direttiva, con la conseguenza altrimenti che la regola della relative priority rule entrerà in vigore a far tempo dal luglio 2012 di default.
Come si è visto, l’approvazione del piano di ristrutturazione richiede un provvedimento del giudice o dell’autorità amministrativa che ne può svolgere le funzioni, salvo il caso che vi sia l’approvazione a maggioranza in ogni classe di creditori. Gli azionisti e più in generale i detentori di strumenti di capitale possono rientrare nell’ambito dei creditori e dei titolari di interessi protetti ed in questo caso possono far valere i medesimi diritti previsti per i creditori in sede di votazione e di approvazione del piano. Tuttavia l’art. 9 della Direttiva consente agli Stati membri di escludere gli azionisti dal diritto di voto. Nel sistema italiano gli azionisti in quanto creditori postergati della sola quota di capitale sottoscritto non partecipano al concorso, anche se tale principio non è espresso con chiarezza dal codice della crisi. L’art. 12 della Direttiva fa comunque obbligo agli Stati membri che abbiano escluso i detentori di strumenti di capitale dall’approvazione del piano di provvedere con altri mezzi che essi non possano impedire o ostacolare irragionevolmente l’adozione e l’omologazione di un piano. Il principio non è affermato con chiarezza dalla normativa italiana. In dottrina è anzi stato osservato che il legislatore non ha precisato, se non con riguardo alla trasformazione, fusione e scissione e con riferimento all’impugnazione di tali operazioni straordinarie da parte dei creditori ( art. 116 codice della crisi), il rapporto tra gli strumenti di tutela processuale in campo societario e la disciplina della crisi. Il principio affermato dalla Direttiva è chiaro nelle linee fondamentali, ma certamente sarebbe opportuno un approfondimento sul tema da parte del legislatore italiano, tanto più che, ove si adotti la regola della relative priority rule, sarebbe legittimo riconoscere che alcune risorse possano essere riservate ai detentori di strumenti di capitale in deroga al principio affermato dall’art. 2740 c.c.[13]
L’art. 13 della Direttiva impone regole rigorose a tutela dei diritti individuali e collettivi dei lavoratori che, salvo per quel che concerne i crediti maturati, non possono essere incisi dal piano di ristrutturazione. La norma è piuttosto dettagliata. Essa peraltro applica un principio di regola seguito dal legislatore italiano, che ha sempre evitato che la disciplina concorsuale potesse influire sui diritti non patrimoniali dei lavoratori.
Da ultimo va sottolineato un limite rilevante all’intervento del giudice in sede di approvazione del piano stabilito dall’art. 14 della Direttiva. La norma esclude che, salvo i casi tassativi presi in considerazione, il giudice possa valutare il valore dell’impresa. Le eccezioni sono costituite dal caso in cui una parte interessata dissenziente contesti il piano di ristrutturazione allegando la violazione del principio del migliore soddisfacimento dei creditori o la violazione per l’applicazione del cross class cram down nel caso in cui il piano sia stato approvato da una sola classe di creditori o comunque non dalla maggioranza, situazione in cui occorre che le altre classi non vengano a subire un trattamento deteriore rispetto a quello altrimenti previsto dalla liquidazione o da uno scenario alternativo. Dalla lettura dell’art. 14 sembrerebbe a prima vista ricavarsi la conclusione che non sarebbe consentito al legislatore nazionale prevedere altre ipotesi in cui il giudice è chiamato a valutare l’azienda ai fini del prevedibile soddisfacimento dei creditori ed in ultima analisi ai fini della valutazione della fattibilità del piano. Se così fosse vi sarebbe un evidente contrasto tra l’art. 14 e le norme del codice della crisi che attribuiscono al giudice la valutazione della fattibilità economica e giuridica del piano ( artt. 47, par. 1, e 48, par. 3, CCII). In realtà il Considerando 63 precisa che non dovrebbe essere impedito “agli Stati membri la possibilità di effettuare valutazioni in altre situazioni secondo il diritto nazionale”.
8. Il regime di prededuzione e di stabilità della finanza nuova.
L’art. 17 della Direttiva contiene norme a tutela dei nuovi finanziamenti e dei finanziamenti temporanei concessi nell’ambito dei quadri di ristrutturazione. Ai sensi dell’art. 1, par. 1, nn. 7-8 per «nuovo finanziamento» s’intende qualsiasi nuova assistenza finanziaria fornita da un creditore esistente o da un nuovo creditore al fine di attuare il piano di ristrutturazione e inclusa in tale piano di ristrutturazione. Per finanziamento temporaneo qualsiasi nuova assistenza finanziaria fornita da un creditore esistente o da un nuovo creditore, che preveda, come minimo, un’assistenza finanziaria nel corso della sospensione delle azioni esecutive individuali e che sia ragionevole e immediatamente necessaria affinché l’impresa del debitore continui a operare, o mantenga o aumenti il suo valore. Si tratta di nozioni che non trovano corrispondenza nel codice della crisi.
Sia i nuovi finanziamenti che i finanziamenti temporanei non possono essere dichiarati nulli, annullabili od inopponibili né i concessori di detti finanziamenti possono essere ritenuti civilmente, amministrativamente o penalmente responsabili, in base al rilievo che detti finanziamenti sono pregiudizievoli per la massa dei creditori, a meno che non sussistano altre ragioni stabilite dal diritto nazionale. La norma quindi incide direttamente sulla possibilità di esperire nei confronti del finanziatore l’azione di responsabilità per concessione abusiva di credito. E’ consentito agli Stati membri stabilire che queste regole vadano applicate soltanto ai nuovi finanziamenti, se il piano di ristrutturazione è stato omologato da un’autorità giudiziaria o amministrativa, e ai finanziamenti temporanei sottoposti a un controllo ex ante.
Gli Stati membri possono prevedere che i concessori di nuovi finanziamenti o di finanziamenti temporanei abbiano il diritto di ottenere il pagamento in via prioritaria, nell’ambito di successive procedure di insolvenza, rispetto agli altri creditori che altrimenti avrebbero crediti di grado superiore o uguale ( art. 17, par. 4). Il regime di prededucibilità previsto dal codice della crisi è pertanto perfettamente compatibile con la disciplina europea.
Ai sensi dell’art. 18, par. 1 gli Stati membri debbono prevedere che nel caso di successiva insolvenza di un debitore, le operazioni che sono ragionevoli e immediatamente necessarie per le trattative sul piano di ristrutturazione non siano dichiarate nulle, annullabili o inopponibili in base al rilievo che dette operazioni sono pregiudizievoli per la massa dei creditori, a meno che non sussistano altre ragioni stabilite dal diritto nazionale. Anche in questo caso la Direttiva consente agli Stati membri di limitare la regola ai casi in cui il piano è omologato da un’autorità giudiziaria o amministrativa o dette operazioni sono state soggette a un controllo ex ante. Il par. 5 dell’art. 18 estende la regola alle operazioni ragionevoli ed immediatamente necessarie per l’attuazione del piano di ristrutturazione ed effettuate in conformità al piano di ristrutturazione omologato.
Tra le operazioni ragionevoli ed immediatamente necessarie rientrano: a) il pagamento di onorari e costi necessari per la negoziazione, l’adozione o l’omologazione del piano di ristrutturazione; b) il pagamento di onorari e costi necessari per consulenze professionali strettamente connesse alla ristrutturazione; c) il pagamento delle retribuzioni dei lavoratori per il lavoro già prestato, fatta salva l’ulteriore protezione prevista dal diritto dell’Unione o nazionale; d) qualsiasi pagamento o spesa effettuati nell’ambito dell’attività ordinaria diversi da quelli di cui alle lettere da a) a c).
I principi affermati dagli artt. 17 e 18 sono sostanzialmente conformi alle regole cui si informa la disciplina del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione. Gli artt. 99 e 101 CCII regolano i finanziamenti interinali ed in esecuzione del concordato e degli accordi di ristrutturazione per quanto concerne il riconoscimento della prededuzione. Come si è visto, la Direttiva non impone tale riconoscimento, ma lo lascia nella facoltà degli Stati membri. Non vi è pertanto, sotto questo profilo, necessità di adeguamenti, se non forse l’opportunità di precisare in sede di recepimento della Direttiva che si intende avvalersi della limitazione prevista dall’art. 17 par. 2, per cui i vincoli a favore dei finanziamenti riguardano soltanto quelli interinali ed in esecuzione del piano di concordato o dell’accordo di ristrutturazione.
Per quanto invece riguarda il divieto di dichiarare nullo, annullabile o inopponibile il contratto di finanziamento va detto che il divieto riguarda la sola ipotesi che la dichiarazione di nullità o inopponibilità, che comprende evidentemente anche l’inefficacia, derivi dal solo fatto che essi siano stati ritenuti pregiudizievoli per i creditori. La nostra legislazione non prevede che gli atti in parola possano essere considerati nulli o annullabili per tali ragioni, mentre la loro inefficacia può derivare dal mancato rispetto della normativa in tema di autorizzazione da parte del Tribunale in pendenza della procedura ovvero dall’esperimento dell’azione revocatoria. Nel primo caso l’inefficacia non segue al ritenuto carattere pregiudizievole dell’atto, ma alla violazione delle regole che debbono essere seguite nel caso in cui sia necessaria l’autorizzazione. Nel secondo l’art. 167, par. 3, lett. e) CCII esclude l’esperibilità dell’azione revocatoria sia per gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione omologato ed in essi indicati, sia per gli atti, i pagamenti e le garanzie legalmente posti in essere dal debitore dopo il deposito della domanda di accesso al concordato o all’accordo. Non pare dunque che vi siano ipotesi che possono dar luogo a contrasto con la disciplina di legge.
Analoghe considerazioni possono valere per le operazioni necessarie e ragionevoli prese in considerazione dall’art. 18 della Direttiva. Anche in questo caso va detto che si tratta di atti legalmente compiuti, o in quanto soggetti ad autorizzazione e conseguentemente autorizzati o in quanto rientranti nei poteri di ordinaria amministrazione del debitore in pendenza di procedura e quindi tali da poter essere considerati come “legalmente posti in essere dal debitore” secondo il disposto dell’art. 167, par. 3, lett. e) CCII.
Va tuttavia sottolineato che l’art. 18 della Direttiva al par. 4 considera anche una serie di atti che, in parte, vengono posti in essere prima della presentazione della domanda. Si tratta a) del pagamento di onorari e costi necessari per la negoziazione, l’adozione o l’omologazione del piano di ristrutturazione; b) del pagamento di onorari e costi necessari per consulenze professionali strettamente connesse alla ristrutturazione; c) del pagamento delle retribuzioni dei lavoratori per il lavoro già prestato, fatta salva l’ulteriore protezione prevista dal diritto dell’Unione o nazionale. E’ evidente che una parte di queste prestazioni si svolge prima dell’ammissione alla procedura e che potrebbe pertanto ricadere nel campo di applicazione dell’azione revocatoria. Va tuttavia osservato che l’art. 18 contiene due clausole di riserva che gli Stati membri possono invocare prevedendo che la tutela si applichi soltanto “ai casi in cui il piano è omologato da un’autorità giudiziaria o amministrativa o dette operazioni sono state soggette a un controllo ex ante” ed ancora escludendo “dall’applicazione del paragrafo 1 le operazioni effettuate dopo che il debitore sia divenuto incapace di pagare i propri debiti in scadenza”.
Gli onorari ed i costi necessari per la negoziazione del piano come anche le consulenze professionali, prima della presentazione della domanda, sono certamente esclusi dal controllo ex ante del giudice. Inoltre la revocatoria presuppone in base ad una presunzione ex lege la sussistenza dello stato d’insolvenza dalla data della presentazione della domanda di liquidazione giudiziale, anche se la formula usata dall’art. 18, par. 3 fa riferimento alle sole operazioni effettuate dopo che il debitore sia divenuto incapace di pagare i propri debiti in scadenza e sembra far riferimento ad un requisito risultante in concreto e non ad una presunzione di legge. Se si può concludere che la disciplina del codice della crisi è in linea con la normativa europea, le considerazioni ora svolte suggeriscono che in sede di recepimento della Direttiva venga precisato che s’intende avvalersi delle riserve previste dai paragrafi 2 e 3 dell’art. 18.
Per quanto infine concerne l’azione di responsabilità per concessione abusiva di credito va anzitutto osservato che se la disciplina europea verrà recepita con riferimento ai soli finanziamenti interinali e in esecuzione del piano, la stessa presenza del provvedimento autorizzativo del Tribunale e degli altri requisiti richiesti dagli artt. 99 e 101 CCII rende improbabile l’esperibilità dell’azione di danni. Il vincolo derivante dalla Direttiva sarà comunque direttamente invocabile nel nostro ordinamento anche in difetto di formale recepimento una volta scaduto il termine previsto a tal fine dalla Direttiva.
[1] Diffusamente, sull’argomento v. Panzani, La proposta di Direttiva – della Commissione UE: – early warning, ristrutturazione – e seconda chance, in Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria, diretto da Ambrosini, Bologna, 2017, pp. 1087 e ss.; Nigro, La proposta di direttiva comunitaria in materia di disciplina della crisi delle imprese, in Riv. dir. comm., 2017, pp. 201 e ss.; Stanghellini, La proposta dci Direttiva UE – in materia di insolvenza, in Fallimento, 2017, pp. 873-879; De Cesari-Montella, Osservatorio internazionale sull’insolvenza – La Relazione della Commissione del Parlamento UE sulla proposta di direttiva della Commissione del 22 novembre 2016, in Fallimento, 2018, pp. 1350-1353; Boggio, UE e disciplina dell’insolvenza (I parte) – Confini ed implicazioni dell’ambito di applicazione delle nuove regole UE, in Giur. It., 2018, pp. 222-278; Piazza, La proposta di direttiva UE in materia di insolvenza e le forme di autotutela della controparte in bonis, in Giur. Comm., 2018, pp. 691 e ss.
[2] Per tale ipotesi il Ventottesimo Considerando richiede che sussista “una reale e grave minaccia per la capacità effettiva o futura del debitore di pagare i suoi debiti in scadenza”.
[3] Si veda Relazione governativa, p. 1; cfr. inoltre sub art. 8 dove si dice che “L’articolo 8, in linea con il richiamo alla normativa dell’Unione europea contenuto nell’art. 1, par. 2, legge delega, n. 155/2017, anticipa la regola dettata dall’art. 6, par. 7, della allora Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 novembre 2016 riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, la seconda opportunità e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza e liberazione dai debiti, che prevede che la durata complessiva delle misure protettive non può superare il periodo, anche non continuativo, di dodici mesi, inclusi rinnovi o proroghe”.
[4] Assonime, Le nuove regole societarie sull’emersione anticipata della crisi d’impresa, Circolare N. 19/2019, p. 11, osserva che: “La disciplina italiana del sistema di allerta, inoltre, pur proponendosi di realizzare analoghe finalità, si presenta distante dai principi europei, che guardano invece alle misure di allerta come strumenti di ausilio volti a fornire “esclusivamente al debitore” informazioni sulla sua situazione e servizi di consulenza e assistenza nella gestione della crisi. L’attuazione della direttiva in Italia potrebbe costituire un’occasione per migliorare molti aspetti critici”.
[5] Si veda però la nota 2.
[6] Su cui infra, p. 24.
[7] Cfr. Relazione 10 gennaio 2019, sub art. 8.
[8] Tuttavia ai sensi dell’art. 7, terzo par., gli Stati membri possono derogare ai paragrafi 1 e 2 in situazioni in cui il debitore sia incapace di pagare i suoi debiti in scadenza. In tali casi, gli Stati membri provvedono affinché l’autorità giudiziaria o amministrativa possa decidere di mantenere il beneficio della sospensione delle azioni esecutive individuali se, tenendo conto delle circostanze del caso, l’apertura di una procedura di insolvenza che potrebbe concludersi con la liquidazione delle attività del debitore non fosse nell’interesse generale dei creditori. Ed ai sensi del par. 7, gli Stati membri provvedono affinché la scadenza del termine di sospensione di un’azione esecutiva individuale senza l’adozione di un piano di ristrutturazione non comporti di per sé l’apertura di una procedura di insolvenza che potrebbe concludersi con la liquidazione delle attività del debitore, a meno che sussistano altre condizioni per tale apertura a norma del diritto nazionale.
[9] I contratti pendenti essenziali devono essere intesi come i contratti pendenti necessari per la continuazione della gestione corrente dell’impresa, inclusi i contratti relativi alle forniture la cui interruzione comporterebbe la paralisi dell’attività del debitore ( art. 6, comma 4, Direttiva).
[10] La relazione governativa al codice dell’impresa, sub art. 95, non contiene l’errore facendo riferimento ai “contratti stipulati anche con pubbliche amministrazioni”, laddove nel testo dell’art. 95 lo “anche” è venuto meno.
[11] Cfr. Cass. 17 ottobre 2018, n. 26006, in Ilcaso.it.
[12] In questo senso si esprime il già citato Trentacinquesimo Considerando.
[13] Sul tema cfr. Panzani, Sorte della partecipazione dei vecchi soci in caso di ristrutturazione di società insolventi,in Società, 2014, pp. 83-94.