La pronuncia della Corte Costituzionale tedesca (BverfG) del 5 maggio 2020 sul programma della BCE avviato nel 2015 e conosciuto come Quantitative Easing (Public sector purchasing program – Pspp) conclude il secondo capitolo di una saga che ne conta tre. Il terzo, l’azione della BCE per reagire alla crisi pandemica da Covid-19 (tra l’altro, con il Pepp – Pandemic emergency purchasing programme), inizierà tra poco: sta infatti per essere depositato il ricorso alla Corte Costituzionale tedesca sulla sua legittimità. Il primo capitolo (sulle OMT) già concluso nel 2015, incide direttamente sul secondo ma anche sul terzo. Tutto è collegato quindi, ma conviene distinguere.
Il carattere rivoluzionario e potenzialmente eversivo della sentenza del 5 maggio risiede nel fatto che ha messo in discussione la supremazia del diritto dell’Unione. E lo ha fatto in modo diretto: non applicando una sentenza della Corte di Giustizia UE (11 dicembre 2018, causa C-493/17, Heinrich Weiss) resa in via pregiudiziale su rinvio del medesimo BverfG, il quale l’ha ora contestata in dettaglio nel merito. Questo va al di là della normale dialettica – sia pur vivace – tra le Corti, e rischia di produrre effetti dirompenti se utilizzata strumentalmente come precedente da altre corti nazionali, anche in stati membri che si stanno indirizzando verso modelli di ‘democrazia sorvegliata’. Ma di questo non mi occuperò qui, prescindendo la questione dai contenuti di questa sentenza, che concernono l’attività della BCE.
Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto che la BCE non abbia valutato adeguatamente la proporzionalità del suo intervento, di politica monetaria, in relazione agli effetti indiretti che ha prodotto sulla politica economica di alcuni Stati Membri. E quindi ha imposto alla BCE, in modo invero originale, di valutare a posteriori (!) tale proporzionalità e darne conto al BverfG entro tre mesi. Il fondamento di tale potere del BverfG risiede nella nota giurisprudenza costituzionale tedesca (sentenze Maastricht, Lisbona, Mangold-Honeywell) per cui l’azione ultra vires delle istituzioni europee rientra nel sindacato della Corte quando queste violino principi costituzionali. Quanto al bilancio, l’autonomia del Parlamento tedesco costituisce pendant del principio democratico e dunque al Parlamento non è consentito delegare tale potere alle istituzioni europee in modo non controllato (sentenze Grecia e EFSF e OMT). Peraltro, proprio per garantire un’interpretazione conforme, il BVerfG ha imposto alla Germania di formulare una riserva al Trattato ESM.
Tacendo, ancora per i motivi di cui sopra, del corto-circuito che ingenera l’imposizione a un’istituzione dell’Unione di rendere conto del proprio operato dinanzi non alla Corte di Giustizia UE ma a un corte nazionale, con tutti i risvolti che ciò implica anche sul piano istituzionale, mi concentro sul merito della richiesta. Prima di arrivare al punto nodale della proporzionalità si deve però sgombrare il campo da due equivoci.
In primo luogo, gli economisti qualificano l’azione della BCE secondo la distinzione tra misure convenzionali e non convenzionali. I giuristi applicano invece quella tra misure tipiche o atipiche e, nel diritto dell’Unione, all’interno del perimetro di legittimità dei poteri attribuiti. Se non si chiarisce questo equivoco il dialogo tra economisti e giuristi (in concreto, tra BCE e BverfG) continuerà a somigliare a una piéce di Ibsen. Ora, che una misura sia convenzionale deriva, per gli economisti, dal fatto che sia stata utilizzata in precedenza. La novità di uno strumento non ne inficia la validità o efficacia; al limite ne riduce la prevedibilità. Quello della legittimità, è un piano meramente giuridico, che assume contorni peculiari nell’Unione europea, caratterizzata sin dall’origine da un approccio funzionalistico, che prescinde dalle definizioni e, quando necessarie, le preferisce «aperte». In concreto: indipendenza ed esclusività dell’esercizio del potere – garantite dai Trattati: art. 130TFUE – conferiscono alla BCE la facoltà di scegliere liberamente lo strumento più idoneo per raggiungere l’obiettivo di cui i Trattati la rendono custode. Nella fase fisiologica, le decisioni sui tassi d’interesse sono sufficienti; nei momenti di crisi, gli interventi si svolgono su un campo e uno spettro più ampi. È il perimetro dell’azione che si espande e si ritrae a seconda della necessità, non anche il potere. L’unico confine è rappresentato dai divieti imposti dal TFUE (tra questi, il divieto di finanziamenti diretti agli stati previsto dall’art. 123.1 TFUE).
Certo, il giurista qui annaspa, perché di misure tipiche della BCE nei Trattati non v’è traccia. E quindi anche il principio di attribuzione dei poteri, cardine su cui poggiano le competenze delle istituzioni dell’Unione, rischia una clamorosa smentita. Cavaliere bianco anche qui però è stata la Corte di Giustizia, che ha aggiornato la giurisprudenza Meroni, precisando il contenuto della discrezionalità e quindi i limiti del sindacato giurisdizionale (sentenza ESMA, 2014). Del resto, un ‘sindacato forte’ sulla competenza esclusiva della BCE sulla politica monetaria rischierebbe di minarne l’indipendenza. Da cui, la rilevanza dirimente (per i giuristi; ‘questione ridicola’ l’hanno definita invece, ancora ieri, eminenti economisti) della separazione tra la politica monetaria (in mano alla BCE) e la politica economica, che resta in capo agli Stati membri e l’Unione può solo coordinare.
E veniamo qui al secondo equivoco tra economisti e giuristi. La separazione è virtuale, per i primi, essendo la politica monetaria uno degli strumenti della politica economica e che su quest’ultima esercita comunque effetti, diretti e indiretti. Per i giuristi invece, è la stella polare, ma invisibile perché astratta. A renderla concreta ci ha pensato, al solito, la Corte di Giustizia, indicando nella sentenza Pringle (2012) i tre parametri su cui ormai, per prassi, si misurano i test per qualificare l’azione della BCE: l’obiettivo dell’atto, gli strumenti utilizzati per raggiungere il fine e la connessione con altre norme del Trattato. Sono l’obiettivo, gli strumenti, e l’interpretazione sistematica a fornire la soluzione quando la base giuridica non è sufficiente.
Questo è il punto su cui si concentra il BverfG nella sentenza del 5 maggio. Chiarita la distinzione tra politica economica e monetaria (Pringle, 2012) e chiarito il perimetro della legittimità dell’intervento di politica monetaria (intesa come sopra, obiettivo primario: OMT, 2015), occorre guardare agli effetti indiretti che questo intervento inevitabilmente produce sulla politica economica. Il parametro di valutazione è – non può che essere – quello della proporzionalità. E qui la prova non ha nulla di diabolico, essendo proporzionata ogni misura della BCE che raggiunga l’obiettivo primario di politica economica in assenza di strumenti alternativi idonei e adeguati. Ogni misura annunciata o adottata dalla BCE è consentita, in astratto (per gli economisti). La legittimità dell’intervento, in concreto (per i giuristi), è misurata sul parametro della proporzionalità, definita dai limiti cui la stessa BCE si auto-vincola, e misurata non in concreto ex post ma in astratto, ex ante, sulla base della valutazione prognostica effettuata dalla BCE (recte: dal SEBC, e questo ha un significato) al momento dell’annuncio della misura, o della sua prima applicazione.
La risposta della BCE alla richiesta del BverfG di meglio motivare sulla proporzionalità del QE, dunque, sarebbe semplice, ma non lo è. Non solo per i toni utilizzati: il BverfG ritiene ‘insostenibile sul piano metodologico, poiché ignora totalmente gli effetti di politica economica del programma’, nonché ‘incomprensibile’, la valutazione della Corte di Giustizia sulla proporzionalità. Ma non lo è neanche per i contenuti. La discrezionalità tecnica garantita alla BCE dall’indipendenza (art. 130TFUE) impone alle corti (la Corte di Giustizia in primis, il BverfG a fortiori) un sindacato debole, limitato alla verifica di un errore manifesto nella valutazione o di una motivazione non adeguata. Adeguata è anche la motivazione di un comunicato stampa, se consente una conoscenza piena del meccanismo e un controllo giurisdizionale (sentenza OMT). La proporzionalità del Pspp era già illustrata, la si può ora riproporre certo, ulteriormente precisando, anche se non, certamente, con quella ‘analisi approfondita e controfattuale su vantaggi e svantaggi degli impatti economici e fiscali’ richiesta dal BverfG e che comporta un ‘sindacato forte’ che non solo la BCE non può accettare ma sarebbe contrario ai Trattati.
Più complessa è la questione se sia opportuno o meno fornirla, questa risposta, che assume i contorni quasi di un’ottemperanza diretta a superare un difetto di motivazione. I rischi mi sembrano ancora sottovalutati. Il rischio nel farlo, è di legittimare la richiesta, da un lato aprendo la porta a violazioni future delle sentenze della Corte di Giustizia UE, la cui obbligatorietà erga omnes verrebbe così di fatto smentita, e dall’altro pregiudicando il principio di primazia del diritto dell’Unione, su cui, semplicemente, si fonda l’ordinamento europeo. Il rischio nel non farlo, è di limitare la partecipazione della Bundesbank all’azione della BCE, relativa al Pspp (in quanto in violazione della Costituzione tedesca) ma anche, probabilmente, al Pepp, con conseguenze evidenti e disastrose, sul piano istituzionale, non solo dei mercati. Insomma, più che una porta stretta, è scacco matto. La domanda da porre al BverfG è se abbia valutato adeguatamente gli effetti di questa pronuncia (adottata peraltro con maggioranza schiacciante: 7 a 1) in base al parametro … della proporzionalità. Una prima soluzione pragmatica di compromesso, già ipotizzata in Germania, che sia il SEBC a rispondere ai quesiti via Bundesbank non risolve comunque la questione di principio, cui ormai siamo giunti. E sui principi, come è noto, non si negozia.
Questi e non altri comunque, sono i termini con cui va misurata la proporzionalità. Lo dico per sgombrare il campo da un terzo equivoco, di cui v’è traccia sulla stampa, non solo tedesca, ancora più pericoloso perché subdolo, nella prospettiva immediata Pepp. Non si deve intendere infatti qui la proporzionalità come intervento della BCE per l’acquisto dei titoli del debito pubblico degli stati membri sul mercato secondario, legittimo solo se ‘non selettivo’, e dunque in proporzione alla partecipazione delle banche centrali alla BCE (ad esempio, il 12,5% per Banca d’Italia, il 20,5% per Bundesbank). La Corte di Giustizia infatti (sentenza OMT) ha già chiarito che la selettività di una misura non ne inficia la validità, rientra nella politica monetaria, non è vietata dai Trattati, rispetta il principio di proporzionalità. E’ grazie a questa interpretazione che nell’ambito del Pepp BCE gode oggi di una grande flessibilità negli acquisti dei titoli del debito pubblico degli stati.
Non si può però continuare a ignorare il quadro complessivo. Questa sentenza infatti conferma purtroppo drammaticamente quanto già ho rilevato in passato (RDI 2014, BIS 2015): emerge in modo ormai prorompente l’inadeguatezza complessiva del sistema istituzionale europeo, in cui non si può continuare a chiedere alla BCE di svolgere un ruolo di supplenza nei confronti delle altre istituzioni e di assistenza – indiretta – agli stati. L’evoluzione istituzionale non può avere come perno la BCE e come base la difesa della moneta unica. In caso contrario, la scena finale del terzo capitolo della saga è già scritta. Lo sanno anche i mercati.
Ben vengano dunque, perché ormai necessitati dalla contingenza – non solo della pandemia ma anche di rapporti tra le istituzioni altrimenti quasi insanabili – strumenti nuovi complementari o integrativi dell’azione della BCE, i cui vincoli (e con essi i limiti e le motivazioni) non possono non essere ormai chiari ed evidenti anche a chi continua a inciampare guardando all’indietro.