1. La vicenda in esame
Nel caso in esame, il Curatore di una società fallita, prospettando l’esistenza di una società di fatto occulta composta dai membri di tre nuclei familiari e costituita per l’eterodirezione di un gruppo di società, tra le quali si collocava quella dal medesimo rappresentata, presentava ricorso presso il Tribunale di Torre Annunziata [1].
Quest’ultimo, accertato il credito risarcitorio ex art. 2497 c.c. vantato dal Fallimento attore [2], dichiarava il fallimento della società di fatto oltre a quello in estensione dei singoli soci.
La sentenza veniva confermata dalla Corte d’Appello di Napoli [3], la quale, alla luce delle risultanze istruttorie acquisite in sede penale, riteneva comprovata l’esistenza di un centro direttivo unitario e sovraordinato, formato dai componenti delle tre famiglie.
L’esercizio abusivo dell’attività di direzione e coordinamento da parte della società di fatto emergeva, secondo la Corte, da operazioni di raccolta abusiva del risparmio e di svuotamento delle casse della società eterodiretta.
Ai fini della valutazione della medesimezza dello scopo economico perseguito e della eterodirezione esercitata dalla società di fatto, poi, la Corte reputava dirimente il mantenimento dell’unitarietà operativa e funzionale anche nella fase di crisi della società poi fallita, in forma di impegno all’intervento finanziario nel suo concordato preventivo.
Tale dato rilevava altresì sotto un differente profilo.
La Corte d’Appello, infatti, pur ritenendo superata la necessità della spendita del nome o dell’esteriorizzazione del vincolo ai fini della configurazione di una holding societaria, affermava che tali requisiti dovessero comunque ritenersi integrati proprio dall’impegno dimostrato dai soggetti in sede concordataria, unico momento in cui si sarebbe potuta avere una spendita del nome.
Accertata quindi l’insolvenza della società di fatto, la Corte confermava la sentenza di fallimento.
Per la cassazione della sentenza venivano presentati distinti ricorsi per una pluralità di motivi, incentrati, in particolare, sul requisito della spendita del nome per ritenere esistente e fallibile la società di fatto.
I motivi erano integralmente rigettati dalla Suprema Corte in virtù dell’affermata non necessarietà di tale requisito in caso di holding di fatto occulta.
2. La società occulta
Si ritiene ormai principio acquisito dalla giurisprudenza, anche anteriore alla riforma del 2006 [4], che il rapporto sociale assuma rilevanza non solo fra i soci, ma anche nei rapporti con i terzi, pur se non esteriorizzato, vale a dire se uno o più soci della società rimangano occulti ovvero la stessa società rimanga ignota ai terzi e gli affari siano compiuti dai singoli senza spenderne il nome [5].
La mancata esteriorizzazione del rapporto societario costituirebbe così il presupposto indispensabile perché possa legittimamente predicarsi la sussistenza di una società occulta. Dell’esistenza di tale rapporto societario, tuttavia, si riteneva e si ritiene tuttora necessaria la prova, con onere per chi invoca l’esistenza della società occulta di dimostrare la presenza dei requisiti dell’esercizio di un’attività sociale in vista di un risultato unitario e della destinazione dei conferimenti alla formazione di un patrimonio comune [6]. L’unica particolarità, dunque, della struttura della società occulta, consisterebbe nel fatto che le operazioni siano compiute da chi agisce non già in nome della compagine sociale, ma in nome proprio.
L’orientamento giurisprudenziale ricordato è stato, d’altronde, accolto dal legislatore della riforma, che al novellato art. 147, 5° co., l. fall. ha ritenuto espressamente “riferibile” l’impresa insolvente alla società occulta risultante a seguito del fallimento dell’imprenditore individuale.
Si afferma, così, che ai fini della dichiarazione di fallimento la legge tratti allo stesso modo il socio occulto di società palese e la società occulta, non ritenendo necessaria l’esteriorizzazione del rapporto sociale [7].
La società occulta corrisponde, poi, nella più parte dei casi ad una società di fatto, ossia ad una società costituita per fatti concludenti, la cui prova può essere data anche per presunzioni, purché si dimostri la presenza degli indici di unesercizio in comune di un’attività imprenditoriale, classicamente rinvenuti in un fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, nell’alea comune dei guadagni e delle perdite e nell’”affectio societatis” ossia nel vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi [8].
3. La giurisprudenza in materia di holding di fatto
La giurisprudenza in materia di holding di fatto, sviluppatasi specialmente in relazione all’ipotesi di holder persona fisica, ha utilizzato distinti approcci al fenomeno per giungere al comune obiettivo di dichiararne il fallimento [9].
Tra questi, quello che sicuramente ha avuto maggior seguito trova il proprio precedente nella pronuncia sul caso Caltagirone, alla quale si è conformata la giurisprudenza di legittimità successiva [10].
In tale occasione, la Suprema Corte chiariva che alla holding potesse essere attribuita la qualità imprenditoriale, accogliendo un concetto di imprenditorialità mediata, ossia non derivante dal mero coordinamento tecnico finanziario delle partecipazioni detenute nelle altre società del gruppo, ma “dalla specifica attività di produzione e di scambio che formano oggetto delle società operanti ed il cui esercizio, in forma indiretta tramite la direzione ed il coordinamento ed a mezzo della partecipazione di controllo, è attuabile dalla capogruppo” [11].
L’imprenditore così identificato, secondo la Corte, avrebbe esercitato direttamente la fase dell’attività d’impresa corrispondente alla stessa opera di direzione, indirettamente le altre fasi, di natura esecutiva, per il tramite delle società controllate. Se le seconde avessero poi avuto natura commerciale, poiché riconducibili all’elenco di cui all’art. 2195 c.c., la holding stessa sarebbe stata qualificabile come impresa commerciale e, come tale, assoggettabile al fallimento.
Affinché potesse essere riconosciuto carattere imprenditoriale alla holding, dovevano tuttavia considerarsi necessari i requisiti dell’organizzazione e della professionalità, l’attitudine alla realizzazione di vantaggi economici ulteriori per il gruppo ela spendita del nome, sia che si trattasse di una holding pura, ossia di una holding che esercitasse la sola attività di direzione e coordinamento in sé e per sé considerata, che di una holding operativa, svolgente ulteriore attività in campo finanziario ed ausiliario, tale da esplicare il coordinamento con espressioni negoziali.
Le considerazioni svolte erano tali da poter essere estese, a mente della Corte di Cassazione, alla capogruppo persona fisica ed alla società di fatto.
Vent’anni dopo, la necessarietà del requisito della spendita del nome veniva però posta in secondo piano da un ulteriore arresto della giurisprudenza di legittimità, che pur si collocava nel filone interpretativo ricordato.
La Cassazione, invero, nel 2010 affermava che, in caso di accertata unitarietà operativa tra più società, unitarietà volta a perseguire il medesimo scopo economico distinto da quello delle società partecipate e a vario titolo amministrate, non fossero necessari approfondimenti sulla struttura partecipativa del gruppo d’imprese, né sugli elementi da cui desumere l’esistenza della società di fatto holding o sull’organizzazione della stessa e nemmeno sulla sua esteriorizzazione,“essendo a tal fine sufficiente l’individuazione anche soltanto di un’attività negoziale posta in essere in nome proprio da uno qualsiasi dei soci di fatto, ma chiaramente percepibile dai terzi come riferita alla società” [12].
Veniva così ridimensionato il requisito della spendita del nome, nella convinzione che, accertata la medesimezza dello scopo economico perseguito, fosse sufficiente la percezione dell’esistenza della società da chi con essa entrava in contatto.
4. La soluzione adottata dalla Corte
La pronuncia qui esaminata, pur condividendo l’argomentazione della sentenza Caltagirone, se ne discosta, compiendo qualche passo in avanti rispetto alla ricordata pronuncia del 2010.
In primo luogo, la Corte rigetta il motivo di ricorso che prospettava un difetto di legittimazione ai sensi dell’art. 6 l. fall. per la dichiarazione di fallimento, in quanto asseritamente promossa dal titolare non di un credito risarcitorio accertato, ma di una semplice pretesa. Essa chiarisce infatti che l’art. 6 l. fall., nella parte in cui prevede che il fallimento possa esser dichiarato su istanza dei creditori, non presupponga un definitivo accertamento del credito in sede giudiziale, né l’esecutività del titolo, essendo sufficiente un mero accertamento incidentale del giudice sul credito contestato.
Ciò premesso, la Corte si concentra sul requisito della spendita del nome ai fini della configurazione e della fallibilità della società di fatto holding di gruppo.
Afferma dunque la Corte che il principio ricavabile dalla sentenza n. 1439 del 1990 della Cassazione sia quello di dover procedere ad un accertamento dei presupposti dell’insolvenza di una società capogruppo con esclusivo riferimento alla situazione economica della medesima, considerata quale soggetto distinto dalle altre società del gruppo.
Il problema della spendita del nome si porrebbe dunque, secondo la Corte, al fine di stabilire la fallibilità della società di fatto holding in ragione della responsabilità per le obbligazioni dalla medesima assunte, non al fine di accertare l’esistenza della società stessa.
La società di fatto holding, infatti, “esiste, come impresa commerciale, per il sol fatto di esser stata costituita tra i soci col fine della direzione unitaria delle società commerciali figlie, vale a dire per l’effettivo esercizio dell’attività di direzione e controllo oggi esplicitamente considerata dagli artt. 2497 e seg. cod. civ.” [13].
La Corte distingue, dunque, i piani dell’esistenza e della fallibilità della società di fatto holding, affermando che solo per la seconda sia necessario il requisito della spendita del nome.
E correttamente, poiché la società di fatto all’esame della Corte risponde ai canoni della società occulta, ossia della società costituita con l’espressa e concorde volontà dei suoi soci di non rivelarne l’esistenza ai terzi. Tale società, come previamente ricordato, è caratterizzata dallo svolgimento dell’attività d’impresa senza esteriorizzazione e senza spendita del nome, ciò che conduce a ritenerla esistente in presenza di un rigoroso accertamento degli altri requisiti richiesti dall’art. 2247 c.c., nonostante il mancato compimento di alcun atto a suo nome.
Il requisito della spendita del nome, nel caso all’esame della Corte, é tuttavia ritenuto superfluo anche ai fini della valutazione della sua fallibilità.
Nel caso esaminato dalla Corte, alla base dell’accertamento dell’insolvenza della società di fatto, si trovava infatti un credito di natura risarcitoria derivante dall’abusivo esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, ossia di un credito derivante da una responsabilità di natura extracontrattuale.
La Corte di Cassazione, invero, espressamente accoglie la, pur dibattuta [14], tesi della natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 2497 c.c., in forza del riferimento al “fatto lesivo” contenuto nel secondo comma dell’articolo citato, dell’espressa qualificazione come responsabilità extracontrattuale contenuta nella relazione di accompagnamento alla riforma del 2003, nonché del riscontro contenuto nell’art. 90 del d.lgs. 270/1999 in materia di amministrazione straordinaria di grandi imprese in stato di insolvenza.
La natura extracontrattuale della responsabilità richiamata e la conseguente non volontarietà delle obbligazioni di natura risarcitoria da essa derivanti gravanti sulla holding, conducono così la Corte ad escludere anche sotto questo profilo la necessità di un accertamento della spendita del nome.
5. Conclusione
La pronuncia qui in esame risulta apprezzabile nella misura in cui ritiene superato il requisito della spendita del nome per la società di fatto occulta, che, in tutta evidenza, non viene mai esteriorizzata dai suoi soci, e nella parte in cui distingue i differenti piani dell’esistenza e della fallibilità della società.
Pare tuttavia opportuno segnalare che l’approccio “flessibile” adottato dalla Corte di Cassazione presenti il rischio di ricadute in un’ipotesi differente da quella della società di fatto occulta, sebbene ad essa “apparentamente speculare” [15]: quella della società apparente, ossia della società inesistente tra i soci, in quanto da essi “non è pattuita né voluta” [16], ma esistente di fronte ai terzi [17], istituto di creazione giurisprudenziale ma osteggiato della dottrina maggioritaria, che dichiara come sia lo stesso principio dell’apparenza ad opporsi al fallimento della società apparente [18].
[1] Cfr. Trib. Torre Annunziata, 9 maggio 2013, in Dir. fall. 2014, 3-4, 374, con nota di L. Macchiarulo.
[2] Come è noto, ai sensi dell’art. 2497 c.c., l’ente che esercita attività di direzione e coordinamento è infatti responsabile nei confronti dei creditori della società dominata per i danni conseguenti alla violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale e, secondo quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 2497, a seguito del fallimento della società eterodiretta, l’azione di responsabilità nei confronti della controllante è esercitata dal curatore fallimentare.
[3] Cfr. App. Napoli, 1 gennaio 2014, in Fall. 2015, 6, 686, con nota di F. Angiolini.
[4] Cfr. Cass. Civ. 20 settembre 1989, n. 3931, in Foro it. 1990, I, 918; Cass. Civ., 7 febbraio 1989, n. 5408, in Soc. 1990, 446; Cass. Civ., 30 gennaio 1995, n. 1106, in Foro it. 1995, I, 3227.
[5] G. Cottino, Diritto societario, Cedam, 2011, 26-27.
[6] Cfr. Cass. Civ., 17 gennaio 1998, n. 366, inGiur. it. 1998, 748; Cass. Civ. 12 settembre 2016, n. 17925, in
Fisco2016, 37, 3597.
[7] M. Campobasso, Diritto commerciale, vol. 2: Diritto delle società, Utet, 2015, 61.
[8] Cfr., da ultimo, Cass. Civ., 5 maggio 2016, n. 8981, CED Cassazione 2016.
[9] Cfr. Trib. Venezia 12.10.2012, in www.dirittobancario.it, con nota di N. Cecchetto.
[10] Cfr. Cass. Civ., 26 febbraio 1990, n. 1439, con nota di N. Rondinone; in Giur. it. 1990, I, 1, 713, con nota di R. Weigmann; in Giust. civ., 1990, I, 622, con nota di F. Farina; in Dir. fall. 1990, II, 1005, con nota di U.I. Stramignoni; in Soc. 1990, 5, 598, con nota di G. Schiano Di Pepe; in Riv. dir. comm. 1991, II, 515, con nota di B. Libonati; in Fall.1990, pag. 495, con nota di F. Lamanna.Successivamente, conf. Cass. Civ., 9 agosto 2002, n. 12113, in Giur. comm. 2004, II, 15, con nota di S. Giovannini; Cass. Civ., 13 marzo 2003, n. 3724, inGiur. it. 2004, I, 562, con nota di R. Weigmann; Cass. Civ., 29 novembre 2006, n. 25275, inGiust. civ. 2007, I, 888; Cass. Civ., 18 novembre 2010, n. 23344, in Fall. 2011, 565.
[11] Cass. Civ., 26 febbraio 1990, n. 1439.
[12] Cass. Civ., sez. I, 18 novembre 2010, n. 23344, in Fall. 2011, 5, 565, con nota diF. Signorelli.
[13] Cass. Civ., 20 luglio 2016, n. 15346.
[14] Contra, incidentalmente, Cass. Civ., Sez. Un., 25 novembre 2011, n. 24906: “Anzitutto, in tema di direzione e coordinamento di società, la dottrina maggioritaria ritiene che la responsabilità, prevista dall’art. 2497 c.c., a carico delle società e degli enti che esercitano tale attività di direzione e coordinamento di società nei confronti dei soci di queste ultime per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, è di natura contrattuale”; Trib. Milano, 17 giugno 2011, in Giur. Comm. 2013, 3, II, 507: “si prefigura quindi la sussistenza di un preesistente dovere di protezione avente contenuto definito posto a carico della società dirigente verso la società diretta ed i suoi soci, ovvero di una situazione fondante una responsabilità contrattuale, secondo l’ampia accezione che tale responsabilità è venuta assumendo nella più recente evoluzione giurisprudenziale”; in sede di interpretazione dell’art. 90, d. lgs. 270/1999, Trib. Milano, 22 gennaio 2001, in Fall.2001, 10, 1143, con nota di G. M. Zamperetti: “la società controllante, quando esercita la direzione unitaria, si pone in rapporto di relazione soggettiva con la società controllata e assume l’obbligazione di realizzare l’interesse del gruppo tramite la realizzazione degli interessi delle società controllate. La controllante, nel momento che assume la direzione unitaria, è tenuta all’osservanza di precisi doveri di correttezza nei confronti delle controllate, doveri ai quali corrispondono vere e proprie obbligazioni coercibili, che possono risultare inadempiute o perché non attuate o perché attuate male, quando la direzione unitaria viene esercitata abusivamente”.
[15] A. Rossi, art. 2247, in A. Maffei Alberti, Commentario breve al diritto delle società, Cedam, 2015.
[16] G. Cottino, Diritto societario, Cedam, 2011, 27.
[17] Cass. Civ., 14 febbraio 2001, n. 2095, in Fall.2001, 11, 1230 nota di F. Patini: “il comportamento atto ad ingenerare il convincimento incolpevole, nei terzi, della sussistenza di un vincolo sociale è sufficiente ad affermare l’esistenza di una società di persone, senza necessità di accertare se, in concreto, ricorrano anche gli ulteriori elementi della comunione dei conferimenti e della condivisione dell’alea”.
[18] Cfr., per tutti, M. Campobasso, Diritto commerciale, vol. 2: Diritto delle società, Utet, 2015, 63 – 64, e la dottrina ivi citata.