È di pochi giorni fa la notizia – che parrebbe ormai certa, quantunque manchi ancora un provvedimento che la formalizzi – che il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza non entrerà in vigore neppure il 1° settembre 2021, dopo la proroga di un anno che era già stata disposta, nella fase acuta della crisi da Coronavirus, con il d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (convertito con legge 5 giugno 2020, n. 40). Si tratta di uno sviluppo tutt’altro che inatteso, divenuto anzi quasi certezza quando il legislatore aveva “anticipato” l’entrata in vigore di alcuni pezzi importanti, e tra i più apprezzati, del Codice con riguardo al superamento del dissenso dei creditori fiscali e previdenziali, con la modificazione degli artt. 180, 182-bis e 182-ter l. fall. (d.l. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito con legge 27 novembre 2020, n. 159), poi con riguardo alla composizione della crisi da sovraindebitamento (d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con legge 18 dicembre 2020, n. 176) e, infine, con riguardo alla modificazione post-omologazione del piano nell’accordo di ristrutturazione (d.l. 22 marzo 2021, n. 41, convertito con legge 21 maggio 2021, n. 69). Di tutte le parti più innovative del Codice, e dopo che erano immediatamente entrate in vigore già nel 2019 le importanti modifiche al codice civile (si pensi al nuovo art. 2086 c.c.), restavano a quel punto le disposizioni introduttive (alcune con veri principi generali – come gli artt. 3, 4 e 5 –, altre invece – come l’art. 6 – rimaste quali vestigia dell’impostazione “punitiva” del Codice), le norme in materia di allerta e composizione della crisi, l’ampliamento dell’ambito applicativo dell’accordo di ristrutturazione “ad efficacia estesa”, le norme in materia di crisi dei gruppi (in generale oggetto di apprezzamento della dottrina), le disposizioni di procedura, e alcune disposizioni, anch’esse molto legate alla visione del legislatore di quel momento storico, in materia di concordato preventivo (tra cui quella sulla “prevalenza” quantitativa). La discussa allerta, poi, è stata di recente rinviata al 2022/2023 in sede di conversione di uno dei tanti decreti-legge conseguenti all’emergenza da Covid-19 (d.l. 22 marzo 2021, n. 41, convertito con legge 21 maggio 2021, n. 69).
Di fatto, l’involucro del Codice è stato in gran parte svuotato, ma molte disposizioni sono già in vigore, e quelle che non lo sono, forse, non lo saranno mai, o almeno entreranno in vigore solo a seguito di importanti modifiche.
La decisione di rinviare l’entrata in vigore sembra riconducibile ad almeno due ragioni apparenti e una inespressa, ma forse altrettanto importante.
La prima, e sicuramente la più importante ragione per posporre l’entrata in vigore dell’intero nuovo Codice (anziché solo della parte più sensibile alle condizioni economiche attuali, l’allerta, come si vedrà subito) è l’attesa necessità di adattare il quadro normativo interno alla Direttiva in materia di ristrutturazione e di insolvenza (Direttiva (UE) 2019/1023), che dovrà avvenire entro il 17 luglio 2022. Finalmente, è stata adottata la legge di delegazione per l’attuazione, tra l’altro, della Direttiva (legge 22 aprile 2021, n. 53). Il termine originario era, infatti, il 17 luglio 2021; alcuni Stati (pochi) hanno già integralmente attuato la Direttiva, alcuni, tra cui l’Italia, hanno chiesto la proroga di un anno prevista dalla Direttiva stessa per gli Stati che si trovassero in difficoltà nell’attuarla. Il fatto che l’Italia, che ha appena concluso un lungo processo di riforma in parallelo con quello di adozione della Direttiva, si sia trovata in difficoltà nell’attuarla è peraltro singolare.
L’attuazione della Direttiva era stata inizialmente vista dai più come una sinecura, attese le molte opzioni offerte dalla medesima e la ritenuta generale compatibilità dell’ordinamento concorsuale italiano, oltre che la sua relativa sofisticatezza rispetto a quello di alcuni Stati membri (la Direttiva, che ufficialmente è di armonizzazione, serve anche come modello legislativo). Si erano individuate alcune aree che avrebbero richiesto attenzione, ma si trattava di aspetti molto specifici, risolvibili con interventi puntuali. Per esempio, si dubitava che fosser compatibili con la Direttiva la condizione del raggiungimento della maggioranza assoluta dei crediti per la ristrutturazione trasversale dei debiti, come è felicemente tradotto il “cross-class cram down” (art. 11 Direttiva) e la previsione della possibilità per terzi di presentare offerte concorrenti senza il consenso del debitore anche per le PMI (Art. 4, par. 8, Direttiva); si osservava poi che sarebbe stato necessario attuare le misure previste dalla Direttiva relativamente alla posizione del terzo contraente di “contratti pendenti essenziali” (art. 7, par. 4, Direttiva).
Sembra poi essersi fatta strada, invece, l’idea che, per accogliere appieno anche lo spirito della Direttiva, fosse necessario un ripensamento globale della disciplina interna, soprattutto per offrire ai debitori anche strumenti, accessibili sin dalle primissime fasi della crisi o anche solo in previsione di essa, che prevedano un ruolo molto contenuto del giudice, ricondotto alla sua funzione di mero garante di una “negoziazione” tra il debitore e i creditori, adeguatamente informati. A titolo di mero esempio, la modalità di calcolo delle maggioranze necessarie per l’approvazione può essere disegnata per premiare il debitore nel caso di disinteresse dei creditori (silenzio-assenso), di premiare i creditori dissenzienti (necessità di consenso espresso, con base di calcolo del quorum sull’ammontare globale dei crediti) o invece di incentivare la partecipazione (consenso espresso, ma quorum calcolato sui voti espressi). Non che una regola diversa dall’ultima sarebbe incompatibile con la Direttiva, ma è ben possibile che la sua “filosofia” possa suggerire l’adozione proprio di questa.
La seconda ragione evidente è il timore del legislatore per la sua propria creatura qualificante, i sistemi di allerta. Si ricorderà che nella sua versione originaria il Codice della crisi aveva modificato l’art. 2477 c.c. abbassando drammaticamente le soglie che avrebbero reso obbligatoria la nomina di un organo di controllo nelle s.r.l. Per effetto di quella modifica, che sarebbe dovuta entrata in vigore già nel dicembre 2019, prima del resto del Codice, le società potenzialmente tenute alla nomina dell’organo di controllo erano decuplicate. Quasi subito la norma fu modificata (d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito con l. 14 giugno 2019, n. 55), innalzando le soglie, e le società potenzialmente interessate si dimezzarono rispetto alla versione originaria. Ma, prima ancora che potesse applicarsi, l’entrata in vigore dell’obbligo di nomina dell’organo di controllo fu dapprima posposta all’approvazione del bilancio del 2019 (d.l. 30 dicembre 2019, n. 162, convertito con legge legge 28 febbraio 2020, n. 8) e poi a quello del 2021 (d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con legge 17 luglio 2020, n. 77). Nel pieno della crisi da Covid era maturata la consapevolezza che il sistema sarebbe stato ingestibile se sin dal suo avvio ingolfato dalle imprese vittime di questa crisi: e, quindi, anche il sistema dell’allerta “interna”, cioè quella che mira a responsabilizzare gli organi di controllo, era stato posposto all’aprile 2021, prima che intervenisse lo spostamento al 1° settembre 2021 dell’entrata in vigore dell’intero Codice. Infine, come accennato sopra, di recente è stato posposto al 2022/2023 il dovere di segnalazione dei creditori pubblici qualificati di cui all’art. 15 del Codice, che è la “scusa” ufficiale per posporre, ora, l’entrata in vigore dell’intero Codice.
La nuova proroga si accompagna infatti, parrebbe, a un sistema innovativo di negoziazione assistita, su base volontaria. Sembra, dunque, che il legislatore cerchi di “salvare” alcuni aspetti dell’intervento precoce – tra cui la possibilità che un organismo esperto assista l’imprenditore nella ricerca di una via d’uscita dalla crisi – senza costringere gli imprenditori nell’imbuto che, dall’assistenza dell’OCRI (art. 16 ss. c.c.i.i.), poteva portare direttamente sotto il randello del pubblico ministero (art. 22 c.c.i.i.). Dovrebbe trattarsi, a quanto pare, di un percorso negoziale guidato da un esperto terzo e imparziale “competente nella ristrutturazione aziendale, attento conoscitore della disciplina della crisi d’impresa e dotato di capacità quale facilitatore” (così Ilaria Pagni, presidente della commissione, nell’intervista a Negri, Il Codice della crisi d’impresa slitta al 2022, Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2021, p. 7)
La terza ragione è, infine, forse il generale scarso apprezzamento sia per alcune innovazioni “minori” del Codice, sia per la filosofia di fondo del medesimo. Tra le prime, le disposizioni in materia di procedura, che erano nate per delineare un procedimento del tutto unitario ma si erano poi suddivise, di fatto, in due, se non tre, sub-procedure distinte per l’ammissione al concordato e la sua omologazione, l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione e la dichiarazione di fallimento. Circa invece la filosofia di fondo, il Codice appare ancora, così com’è, permeato da un lato di un generale sospetto nei confronti degli imprenditori e dei professionisti che lo assistono, dall’altro da una mancanza di spirito innovativo con riguardo alla procedura che è di gran lunga la più frequente, il fallimento. È possibile che la nuova proroga possa condurre a soluzioni innovative, in attuazione della direttiva, anche sotto questi profili.